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Lettera di S. Domenico alle monache di Madrid

San Domenico scrisse la lettera sotto riportata nella seconda metà del 1220, un anno prima di morire. La scrisse ad una Comunità di monache, residenti a Madrid, proprio quando stavano per entrare in possesso del loro monastero, appena donato e sistemato allo scopo.
Questo, insieme a due lettere, sono gli unici scritti del Santo che ci sono pervenuti.

  Fra Domenico, maestro dei Predicatori, alla diletta Priora e a tutta la comunità delle suore di Madrid augura salute e uno spirituale miglioramento di giorno in giorno.

  Molto ci rallegriamo e rendiamo grazie a Dio per il fervore della vostra santa vita religiosa e perché il Signore vi ha liberate dal fetore di questo mondo.
 Figlie mie, combattete continuamente col digiuno contro l’antico avversario, poiché non riporterà la corona della vittoria se non chi avrà debitamente combattuto.
  Finora non avevate un locale adatto a condurre la vostra vita religiosa, ma d’ora in avanti non potete più portar ciò a scusante, perché grazie a Dio ora disponete di edifici sufficientemente idonei per lo svolgimento della vita regolare. Voglio, quindi, che d’ora innanzi sia osservato il silenzio nei luoghi in cui è proibito parlare, vale a dire in refettorio, in dormitorio e nell’oratorio. Quanto agli altri luoghi, attenetevi a quanto prescrive la Regola.
  Nessuna varchi la porta del monastero per uscirne e nessuno vi entri, fatta eccezione per il Vescovo e per qualche altro prelato che venga a predicare o in visita canonica.
  Non risparmiatevi nelle penitenze e nelle veglie. Siate obbedienti alla vostra Priora. Non perdetevi in chiacchiere e non sciupate il vostro tempo in pettegolezzi.
  E poiché non siamo in condizione di venirvi in aiuto nelle necessità temporali, non vogliamo però neanche aggravare la vostra situazione permettendo che qualche Frate possa avere facoltà di accettare e di far entrare donne nel monastero: ma questo lo decida unicamente la Priora col suo Consiglio.
  Ordiniamo inoltre al nostro carissimo fratello (ossia a Fra Mannes), che tanto ha fatto per voi e per portarvi ad abbracciare codesto santissimo stato, di disporre a suo giudizio ogni cosa e di guidarvi in maniera tale che voi possiate vivete nel modo più religioso e santo possibile. A lui diamo anche facoltà di visitare e correggere la comunità e, se fosse necessario, anche di deporre la Priora, purché vi sia il consenso della maggioranza delle Monache. Lo autorizziamo inoltre, a sua discrezione, a dispensarvi su qualche punto della Regola.

Vi salutiamo in Cristo!

Immagine: S. Domenico riceve la Professione delle prime Monache, Monastero S. Maria del Sasso, Bibbiena.

Alleluia! Lo Spirito del Signore pervade l’universo: venite, adoriamo, alleluia!

 Come al popolo ebreo liberato dall’Egitto, cinquanta giorni dopo l’immolazione dell’agnello fu data la legge sul monte Sinai, così dopo la passione di Cristo nella quale fu ucciso il vero Agnello di Dio, cinquanta giorni dopo la sua risurrezione, lo Spirito Santo discese sugli apostoli e sul gruppo dei credenti. In tal modo, il cristiano riconosce che gli inizi dell’Antica Alleanza posero le basi del vangelo e che il secondo patto fu inaugurato dallo stesso Spirito che aveva istituito il primo.

 Così attestano gli Atti degli Apostoli: «Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,1-4).

 Com’è veloce la parola della Sapienza! e dove il maestro è Dio, come presto s’impara quel che viene insegnato! Non vi fu bisogno dell’interprete per ascoltare, né addestramento, né di tempo per studiare, ma per quello Spirito di Verità che «soffia dove vuole» (Gv 3,8) le lingue si trasformarono in quelle proprie di ciascun popolo e da questo giorno risuonò per il-mondo la predicazione del vangelo. La pioggia dei carismi e i fiumi di benedizioni irrigarono ogni deserto e ogni luogo arido, perché «lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque (Gn 1,2) per «creare rinnovare la faccia della terra». (cfr. Sl 103, 30). E al fine di scacciare le antiche tenebre, guizzarono fulgori di nuova luce, con lo splendore di lingue infuocate che irradiavano la parola del Signore limpida e incandescente ed efficace, capace di infondere luce alle intelligenze e ardente di fuoco per annientare il peccato.

 Dilettissimi, la maniera stessa in cui si svolse l’avvenimento fu veramente meravigliosa e senza dubbio fu presente la maestà dello Spirito Santo in quell’armonia esultante di tutte le voci umane; ma nessuno pensi che nei fatti visti con gli occhi sia apparsa la sua divina sostanza. Infatti, la natura invisibile, che egli ha in comune col Padre e col Figlio, mostrò la qualità del dono e della sua opera con i segni che volle, ma contenne nella sua divinità ciò che è proprio della sua essenza: perché, come il Padre e il Figlio non possono essere visti da occhi umani, così neppure lo Spirito Santo. Nella divina Trinità, nulla è dissimile o impari, e tutti gli attributi che si possono pensare della sua sostanza in nulla si distinguono, né per la potenza, né per la gloria, né per l’eternità. Nelle proprietà delle persone, altro è il Padre, altro il Figlio, altro lo Spirito Santo; tuttavia non è diversa la divinità, né la natura. Dal Padre è l’Unigenito Figlio; e lo Spirito Santo è Spirito del Padre e del Figlio, non come ogni altra creatura che appartiene al Padre e al Figlio, ma come Colui che è il vivente e il potente insieme all’uno e all’altro, e lo è in eterno perché è l’Amore sussistente del Padre e del Figlio.

 Per questo il Signore, il giorno precedente alla sua passione, promettendo ai discepoli la venuta dello Spirito Santo, disse: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve lo annunzierà»(Gv 16,12-13. 15). Non quindi che alcune cose siano del Padre, altre del Figlio, altre dello Spirito Santo; ma quello che ha il Padre, lo ha il Figlio e lo ha lo Spirito Santo; né mai mancò in quella Unità questa comunione, perché ivi l’esistere sempre dice pienezza di tutto. Non si insinui nella mente nessuna idea di tempo, di gradi o differenze, nella Trinità; e se nessuno può spiegare chi è Dio, nessuno osi affermare di lui ciò che non è. È più degno di scusa tacere della natura ineffabile quanto le si addice, che attribuirle cose contrarie.

 E così, tutto ciò che i cuori pii possono concepire dell’ eterna e immutabile gloria del Padre, devono pensarlo inseparabilmente e senza differenze e del Figlio e dello Spirito Santo. Perciò proclamiamo che questa beata Trinità è un unico Dio, perché nelle tre Persone non c’è nessuna diversità, né nella sostanza, né nella potenza, né nella volontà, e neppure nell’azione.

Dal “Discorso 75, 1-3” di san Leone Magno, papa

Immagine: Tiziano Vecellio, Pentecoste, Basilica S. Maria della salute, Venezia

PASQUA DI RISURREZIONE

  «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2): chi si comporta in questo modo dimostra di credere in colui che ha risuscitato Gesù Signore nostro dai morti, e la sua fede gli sarà ascritta a giustizia.

  Chi ha in sé qualcosa di ingiusto non può essere considerato giusto, anche se crede in colui che ha risuscitato il Signore Gesù dai morti, poiché l’ingiustizia non può avere niente di comune con la giustizia, né la luce con le tenebre o la vita con la morte. Così, anche a coloro che credono in Cristo, la fede non può essere ascritta a giustizia se non depongono il vecchio uomo con le sue azioni ingiuste. ‘

  Ugualmente, come la giustizia non può essere attribuita all’ingiusto così neppure il pudore può essere attribuito all’impudico, l’equità all’iniquo, la generosità all’avaro, la pietà all’empio fino a che costoro non getteranno via i vecchi abiti dei vizi e non si rivestiranno dell’uomo nuovo, creato secondo Dio, «che si rinnova, per una piena conoscenza, a immagine del suo Creatore» (Col 3, 10). Gesù «è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25), per mostrarci che anche noi dobbiamo aborrire e respingere tutto quello che è stato motivo della sua morte.

  Se infatti crediamo che egli è morto per i nostri peccati, come non considerare estraneo e avverso ogni peccato a causa del quale sappiamo che il nostro Redentore è stato messo a morte? Se ancora manteniamo qualche legame o amicizia col peccato, dimostriamo di non tenere in nessun conto la morte di Gesù Cristo, abbracciando e seguendo proprio quello che egli ha combattuto e vinto.

  È stato messo a morte per i nostri peccati, ed è risorto per la nostra giustificazione. Se siamo risorti con Cristo, che è la giustizia, camminiamo in novità di vita, cioè viviamo secondo giustizia, Cristo è risorto per noi, per la nostra giustificazione. Se invece non abbiamo ancora deposto l’uomo vecchio con le sue azioni, ma viviamo nell’ingiustizia, oso dire che Cristo non è ancora risorto per la nostra giustificazione, né è morto per i peccati nostri.

  Se credo questo, come posso amare quello per cui subì la morte? Se credo che egli è risorto per la mia giustificazione, come può piacermi l’ingiustizia? Cristo dunque giustifica soltanto coloro che, sull’esempio della sua risurrezione, si sono rivestiti di una vita nuova, gettando via come causa di morte i vecchi indumenti dell’ingiustizia e dell’iniquità.

  «Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa-grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio» (Rm 5, 1-2). Ma per indagare più attentamente il pensiero dell’Apostolo, cerchiamo che cosa intenda col nome di «pace» e qual è la pace che viene da Cristo, nostro Signore. Si dice che vi è pace dove non vi sono dissidi né discordie, dove non si compiono azioni ostili o incivili.

  Noi, che un tempo fummo nemici di Dio seguendo il diavolo tiranno e nemico, se abbiamo rinunziato alle sue armi, abbiamo pace con Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha riconciliati con Dio col sacrificio del suo sangue. Se uno dunque è in pace con Dio, ed è riconciliato per il sangue di Cristo, non abbia più niente in comune con ciò che è nemico di Dio.

Cristo portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce

perché non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia. Alleluia.

Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;

per le sue piaghe siamo stati guariti,

perché non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia. Alleluia.

1 Pt 2,24; Is 53,5

Immagine: Bartolomè Esteban Murillo, La risurrezione

LA PREMINENZA DI SAN GIUSEPPE SU OGNI ALTRO SANTO

Dio lo costituì custode della Vergine Madre e padre putativo del Salvatore;

lo fece signore della sua casa *

e gli affidò i suoi beni più cari.

Giuseppe era un uomo giusto e fedele.

Dio gli affidò i suoi beni più cari.

  La dottrina secondo la quale S. Giuseppe, dopo Maria, è stato ed è sempre più unito a nostro Signore di ogni altro santo, tende sempre più a diventare una dottrina comunemente ricevuta dalla Chiesa.

  S. Giovanni Battista era incaricato di annunziare la venuta immediata del Messia. Si può dire che egli fu il più grande precursore di Gesù nell’Antico Testamento.
S. Tommaso intende così la parola di Gesù in S. Matteo (11, 11): “In verità vi dico che fra i nati di donna non venne mai al mondo alcuno più grande di Giovanni il Battista. Ma nostro Signore, aggiunge subito: “Ciò nonostante il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui. Il regno dei cieli è la Chiesa della terra e del cielo; è il Nuovo Testamento, più perfetto come stato dell’Antico. E chi nella Chiesa è il più piccolo? E nella Chiesa chi è il più umile? Quello che non fu né apostolo, né evangelista, né martire, almeno esteriormente, né pontefice, né sacerdote, né dottore, ma che conobbe e amò il Cristo Gesù certo non meno degli Apostoli, degli Evangelisti, dei Martiri, dei Pontefici e dei Dottori, e cioè l’umile artigiano di Nazareth, l’umile Giuseppe.

  Gli Apostoli erano chiamati a far conoscere agli uomini il Salvatore, a predicare loro il Vangelo per salvarli. Gesù è rivelato agli Apostoli perché sia annunziato a tutto l’universo. Esso è rivelato a Giuseppe perché lo taccia e lo nasconda. Gli Apostoli sono delle luci per far vedere Gesù Cristo al mondo. Giuseppe è un velo per coprirlo; e sotto questo velo misterioso vien nascosta la verginità di Maria e la grandezza del Salvatore delle anime. Colui che glorifica gli Apostoli per l’onore della predicazione, glorifica Giuseppe per l’umiltà del silenzio.

  Dopo Maria, Giuseppe fu quegli che stette più vicino all’Autore stesso della grazia. E se fu così, certo egli ricevette nel silenzio di Bethleem, durante il soggiorno in Egitto e nell’umile casa di Nazareth, più grazie di quel che non abbia ricevuto e non riceverà mai alcun Santo.

  Quale fu la missione eccezionale di Giuseppe presso il Signore? Veramente il Verbo di Dio fatto carne gli fu affidato. Giuseppe vegliò tutte le ore, notte e giorno sull’infanzia di Nostro Signore. Spesso tenne nelle sue mani colui nel quale vedeva il suo Creatore e il suo Salvatore. Egli ricevette certo da lui grazia su grazia durante i lunghi anni nei quali visse con lui nella più grande intimità quotidiana. Egli lo vide crescere e contribuì alla sua educazione umana. Gesù gli fu sottomesso.

  Fu questa la missione principale di Giuseppe. Missione unica, altissima quella di custodire il Figlio di Dio, il Re del mondo, la missione di custodire la verginità, la santità di Maria, la missione unica di entrare in partecipazione del grande mistero, nascosto agli occhi dei secoli e di cooperare così all’Incarnazione e alla Redenzione! Tutta la santità di Giuseppe sta precisamente nel compimento, fedele fino allo scrupolo, di questa missione sì grande e sì umile, sì alta e sì nascosta, sì splendida e così circondata di tenebre.

Da ‘L’amore di Dio e la croce di Gesù’ di P. Garrigou Lagrange, OP

Immagine: Adorazione dei pastori, San Giuseppe bacia il bambino Gesù, Juan Bautista Maino, 1612-1614, Museo del Prado.

Così Dio ha amato il mondo

  Con il loro stile scarno privo di qualsiasi commento teologico o edificante, i racconti della passione – specialmente i racconti sinottici – ci riportano ai primissimi giorni della Chiesa. Sono le prime parti del Vangelo che si “formarono” (per usare il linguaggio del moderno “metodo delle forme”) nella tradizione orale e che circolarono tra i cristiani. In questa fase, dominano i fatti; tutto si riassume in due eventi: morì-risorse. La fase dei puri fatti fu, però, ben presto superata. I credenti si posero subito la domanda sul “perché” di quei fatti, cioè della passione: perché Dio ha patito? La risposta fu: «Per i nostri peccati!». Nasce, in tal modo, la fede pasquale, espressa nella celebre formula paolina: «Cristo morì per i nostri peccati; è risuscitato per la nostra giustificazione» (cf 1 Cor 15, 3-4; Rm 4, 25). C’erano ormai e i fatti – morì, risorse – e il significato per noi dei fatti: per i nostri peccati, per la nostra giustificazione. La risposta sembrava completa: storia e fede formavano finalmente un unico mistero pasquale.

  Invece, non si era ancora toccato il vero fondo del problema. La domanda rinasceva in un’altra forma: perché è morto per i nostri peccati? La risposta che illuminò di colpo la fede della Chiesa, come con bagliore di sole, fu: «Perché ci amava!», «Ci ha amati e per questo ha dato se stesso per noi» (Ef 5, 2); «Mi ha amato e per questo ha dato se stesso per me» (GaI 2, 20); «Ha amato la Chiesa e per questo ha dato se stesso per lei» (Ef 5, 25). È una verità, come si vede, pacifica, primordiale, che pervade ogni cosa e si applica sia alla Chiesa nel suo insieme, sia al singolo uomo. L’evangelista san Giovanni, che scrive dopo gli altri, fa risalire questa rivelazione allo stesso Gesù terreno; «Nessuno – dice Gesù nel Vangelo di Giovanni – ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici» (Gv 15, 13 s).

  Questa risposta al “perché” della passione di Cristo è veramente definitiva e non ammette altre domande. Ci ha amati perché ci ha amati e basta! L’amore di Dio infatti non ha un “perché”, è gratuito. L’unico amore al mondo veramente e totalmente gratuito che non chiede nulla per sé (ha già tutto!), ma solo dona, o meglio, si dona. «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi … Ci ha amati per primo!» (1 Gv 4, 10.19).

  Gesù, dunque, ha sofferto ed è morto liberamente, per amore. Non per caso, non per necessità, non per oscure forze o ragioni della storia che lo hanno travolto a sua insaputa, o a suo malgrado. Chi afferma questo, svuota il Vangelo; gli toglie l’anima. Perché il Vangelo non è altro che questo e cioè il lieto messaggio dell’amore di Dio in Cristo Gesù. Non solo il Vangelo, ma anche l’intera Bibbia non è che questo: notizia dell’amore misterioso, incomprensibile, di Dio per l’uomo. Se tutta la Scrittura si mettesse a parlare insieme, se, per qualche prodigio, da parola scritta si tramutasse tutta in parola pronunciata, in voce, questa voce, più potente dei flutti del mare, griderebbe: «Dio vi ama!».

  L’amore di Dio per l’uomo affonda le sue radici nell’eternità («Ci ha scelti prima della creazione del mondo», dice l’Apostolo in Ef 1,4), ma si è manifestato nel tempo, in una serie di gesti concreti che costituiscono la storia della salvezza.

  Dio aveva già parlato, nei tempi antichi, molte volte e in diversi modi ai padri, di questo suo amore (cf Eb 1, 1). Aveva parlato creandoci, perché cos’è la creazione se non un atto d’amore, il primordiale atto d’amore di Dio per l’uomo? («Hai dato origine all’universo per effondere il tuo amore su tutte le creature», diciamo nella Preghiera eucaristica, IV). Aveva poi parlato per mezzo dei profeti, perché i profeti biblici non sono, in realtà, che i messaggeri dell’amore di Dio, gli «amici dello Sposo». Anche quando rimproverano e minacciano, lo fanno per difendere questo amore di Dio per il suo popolo. Nei profeti, Dio paragona il suo amore a quello di una madre (Is 49, 15 s), a quello di un padre (Os 11, 4), a quello di uno sposo (Is 62, 5). Dio stesso riassume in una frase la sua condotta verso Israele, dicendo: «Ti ho amato di amore eterno!» (Ger 31,3). Frase mai udita, in nessuna filosofia e in nessuna religione, sulla bocca di un dio! Il “dio dei filosofi” è un dio da amare, non un Dio che ama e che ama per primo.

  Ma non è bastato a Dio parlarci del suo amore «per mezzo dei profeti». «Ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1, 2). C’è una differenza enorme rispetto a prima: Gesù non si limita a parlarci dell’amore di Dio, come facevano i profeti: egli “è” l’amore di Dio. Perché «Dio è amore» e Gesù è Dio!

Raniero Cantalamessa, “Noi predichiamo Cristo crocifisso”, Ed. Ancora, Milano

Immagine: Albrecht Dürer, Adorazione della Santissima Trinità, Kunsthistorisches Museum, Vienna.

SEPARATE… MA NON DIVISE: SEDICESIMO CAPITOLO

Ogni monaca abbia la propria cella…

(e) ritorni volentieri alla solitudine della cella

quando non è tenuta a restare altrove in forza del proprio ufficio,

di un lavoro o per obbedienza”.

Dalle Costituzioni

  La piccola stanza, semplice e luminosa, che è riservata ad ogni monaca, porta il nome di “cella”. Essa non ha nulla che ricordi le tetre abitazioni dei carcerati, ma si presenta come un nido di silenzio e di raccoglimento, un piccolo deserto dove la monaca può stare tutta “sola col Solo”.

  Le nostre regole danno uno squisito compendio di ciò che deve essere per ognuna di noi questo asilo di solitudine: “La cella monastica – recitano – non è tanto un luogo di riposo, ma un chiostro nel chiostro, una stanza chiusa per la preghiera nascosta (Mt. 6,6); è il luogo della lettura spirituale, della meditazione, dello studio”.

  È anzitutto “una stanza chiusa per la preghiera personale e per la penitenza segreta”, dove l’unico testimone silenzioso e invitante è il Crocefisso che, appeso sopra l’inginocchiatoio, ci attira ai suoi piedi, si può dire, ogni volta che vi entriamo.

  “Lo guardo con affetto – confida Suor Maria Amata – e se ho qualche pena attendo questo incontro con Lui per contemplarLo con uno sguardo di più profonda intesa”.

  “Ritieni la cella come il paradiso, ivi raccogli i vari frutti delle Scritture”, scrive S. Girolamo. La cella è infatti il luogo più adatto per rivedere, meditare e approfondire quei sacri testi che durante il giorno, nelle letture della Messa o nella Liturgia delle Ore, hanno suscitato un particolare interesse invitandoci ad assimilarli per diventare “spirito e vita”. Nel silenzio e nella solitudine si percepisce meglio la voce di Dio che ci rivolge, attraverso la sua Parola rivelata, sempre nuovi inviti. La mente, che si intrattiene nella lettura spirituale e nello studio, può colmare la sua profonda sete di conoscere la Verità che è Cristo e il mistero d’amore nascosto in Lui.

  Il Beato Angelico, in uno dei suoi capolavori, raffigura la Vergine che riceve l’Annuncio, raccolta in una stanzetta, la “sua cella”, col libro aperto sulle ginocchia, come se l’angelo “entrato da Lei” (Lc. 1,28) l’avesse sorpresa in uno dei suoi abituali atteggiamenti di ritiro, durante i quali Ella soleva conversare col suo Signore, leggendo la sua parola e rispondendoGli con un umile e generosa disponibilità. Ovunque, ma in particolar modo nella cella, la Vergine Maria ci è vicina come soave modello da imitare. A volte, anzi, la cella si trasforma in un luogo di incontro filiale con Lei, che più di ogni altro può insegnarci ad amare Gesù.

  “La mia gioia – manifesta Suor Sandra – è di intrattenermi con la Madonna, specialmente quando l’orario della giornata mi permette di stare in cella. Allora, come fa una figlia con la madre, Le confido tutto quello che mi sta a cuore e che desidero chiedere a Gesù per i miei fratelli; spesso glielo dico recitando il Rosario… oppure meditando la S. Scrittura con Lei. Riconosco che la Madre di Dio mi aiuta ad uscire dalla cella e a rientrare in comunità rivestita più intimamente di Gesù, con l’animo colmo di pace e di gioia”.

  La cella materiale ci ricorda un’altra “cella”, quella interiore, tanto amata da S. Caterina da Siena. È in quest’ultima cella che dobbiamo dimorare ogni momento della giornata, anche quando la regola monastica ci chiama ai doveri della vita comune. Qui la Trinità attende la nostra attenzione amorosa. Quanto silenzio interno ed esterno occorre per non perdere di vista questa adorabile Presenza! E “per non lasciare mai solo” l’Ospite divino delle nostre anime.

  La legge del silenzio ci è prescritta dalla nostra Regola di vita per facilitarci questo dialogo con il cielo. Ecco come ce la presentano: “…la legge santissima del silenzio, bella e salutare osservanza, presidio di tutte le altre osservanze e della stessa carità, sia osservata con somma diligenza nella casa della preghiera e della contemplazione qual è il Monastero”.

  Le giovani che hanno ricevuto il carisma della divina chiamata a possedere ‘la parte migliore’ (Lc 10,42) non hanno paura del silenzio, anzi lo desiderano e lo cercano. Lo sta a dimostrare il fatto che uno dei motivi che ci fanno particolarmente grate al Signore per averci accolte nel sacro recinto della clausura è proprio quello di averci offerto un angolo di terra, un ambiente qual è il Monastero, dove regna, desiderato e amato, il silenzio. L’anima in tal modo può più liberamente e facilmente incontrare Gesù nella preghiera, e offrire un ininterrotto cantico di lode alle Sue divine perfezioni meditate e approfondite nel raccoglimento.

  La monaca domenicana ha un modello sublime da imitare nel suo amore al silenzio: il fondatore stesso, S. Domenico; i suoi testimoni al processo di canonizzazione hanno potuto affermare che “Egli non parlava se non con Dio o di Dio”.

SEPARATE… MA NON DIVISE: QUINDICESIMO CAPITOLO

“Secondo la legge del Creatore, sull’esempio della famiglia di Nazareth, secondo la tradizione monastica e la povertà religiosa, le monache sono tenute al lavoro manuale o intellettuale. Ciò debbono assumersi come ufficio di penitenza e riparazione”.

(dalle Costituzioni)

  Il lavoro nella vita monastica occupa un posto di rilievo, anche se ovviamente il primo posto spetta alla preghiera.

  Per il fatto che il monastero è la nostra casa e la comunità è la nostra famiglia, sentiamo tutte la necessità, comune ad ogni uomo, di dedicarci al lavoro per il nostro sostentamento oltre che per aderire al piano di Dio che chiama ognuno di noi a collaborare con Lui nello sviluppo della creazione.

  Il voto di povertà che abbiamo emesso con la Professione dei consigli evangelici ci impegna a condividere la sorte dei poveri, che si guadagnano il pane con il lavoro e il sudore della fronte. S. Domenico, che amava tanto la povertà, si preoccupò di dare alle sue prime monache un’attività manuale che impedisse loro di stare in ozio. “Ogni anno – testimonia un documento del lontano secolo XIV – vengono distribuiti alle monache quindici quintali di lana… esse la filano, la tessono nelle ore libere dall’Ufficio divino; e lo fanno seguendo l’antica consuetudine e l’ordine esplicito del nostro Padre S. Domenico (P. Vicaire in “Vir evangelicus”).

  Ora nei nostri monasteri non si fila più lana, dato il mutamento delle esigenze di vita. Ecco, ad esempio, cosa si fa. Alcune comunità confezionano particole da consacrare per molte parrocchie e a volte per intere diocesi; altre si dedicano alla confezione e al ricamo di paramenti sacri e biancheria; altre ancora sono impegnate in lavori di traduzione o nel dipingere icone; alcune, infine, coltivano frutteti quando il clima del monastero permette di avere le adatte condizioni. Queste sono solo alcune delle svariate mansioni che tengono impegnate le nostre comunità nel santo dovere di svolgere un lavoro il cui frutto contribuisca, in un clima di abbandono confidente nella divina Provvidenza, al mantenimento della propria famiglia monastica.

  Poi ci sono le occupazioni domestiche del monastero: la cucina, le pulizie, il bucato, l’orto e il giardino, il guardaroba, l’assistenza alle sorelle anziane e inferme, ecc…. È tutto un insieme di necessità di lavoro da svolgere con consapevole sollecitudine e generosità, che non ci permettono di restare un momento oziose. Siamo contente che sia così, perché questo ci dimostra che la nostra vita, tra le mura claustrali, non è condannata all’inerzia, come si può a volte erroneamente immaginare, poi perché ci sentiamo unite ai nostri fratelli che operano nel mondo; come loro non di rado sentiamo il peso della fatica, la preoccupazione di realizzare quanto ci viene proposto, la sofferenza di qualche insuccesso, la gioia di scoprire nuove possibilità di riuscita e soprattutto la soddisfazione di poter servire e giovare alla comunità.

  Come la vita claustrale non condanna all’inerzia le sue monache, così non seppellisce i talenti che ciascuna porta con sé. È vero che chi varca la soglia del monastero porta nel cuore il desiderio di sacrificare tutto per dedicarsi unicamente al divino servizio, desiderio che risponde a una esigenza fondamentale della vita religiosa; questo sacrificio, però, messo totalmente nelle mani del Signore permette di potenziare meglio ogni nostra risorsa al servizio del suo Regno d’amore. Ognuna di noi sperimenta come nelle umili occupazioni quotidiane, che per la nostra particolare vocazione si svolgono solo fra le mura del monastero e non all’esterno, tutte le doti naturali vengono messe in azione favorendo il progresso e la piena maturazione della personalità.

  La caratteristica fondamentale del lavoro monastico è quella di essere ordinato in modo da condurci all’unione più intima con Dio, alla contemplazione. Per questo ha come suo indispensabile sigillo l’obbedienza. Ogni mansione da svolgere in monastero viene affidata dalla Madre Priora, che per noi è il portavoce sicuro della volontà di Dio, l’unica cosa che ci interessa soprattutto di conoscere e di adempiere per mantenerci unite a Gesù. L’orario stesso della giornata, organizzato in modo sapiente, porta la monaca che vi si abbandona con docilità a un sereno equilibrio spirituale e fisico che giova grandemente allo sviluppo della vita interiore.

  L’atmosfera di silenzio e di raccoglimento, sostenuta dalla buona volontà di tutte, rende il nostro lavoro simile a quello svolto dalla S. Famiglia, nell’umile bottega di Nazaret. Lo spirito di carità, che animava la B. Vergine nell’attendere alle faccende domestiche, fatto di incessante e amorosa attenzione al Figlio suo, rivive nell’anima della claustrale. Il nostro unico desiderio, infatti, è di rimanere unite a Gesù con lo sguardo interiore fisso nella sua adorabile presenza in noi e in mezzo a noi, e continuare attraverso le svariate occupazioni quotidiane quel colloquio intimo e semplice con Lui, che resta l’unica “cosa necessaria” alla quale dobbiamo attendere.

Cristo è nato per noi, venite adoriamo!

È apparsa la grazia di Dio,

che porta la salvezza a tutti gli uomini…

Il nostro salvatore Gesù Cristo

ha dato se stesso per noi…

cf Tt 2, 11 ss.

  Venne nella forma di servo il Signore di tutte le cose, rivestito di povertà, perché la preda, intimorita, non gli sfuggisse. Scelto per nascere l’incertezza di un campo indifeso, è partorito da una vergine poverella, nella povertà più assoluta, perché, nel silenzio, potesse andare a caccia degli uomini per salvarli. Se fosse nato nello splendore e si fosse circondato di grandi ricchezze, gli increduli avrebbero detto che l’abbondanza di ricchezze aveva operato la trasformazione della terra. Se avesse scelto Roma, la città allora più potente, avrebbero creduto che la potenza di essa aveva cambiato il mondo. Se fosse stato figlio dell’imperatore, avrebbero attribuito il bene operato al potere. Se fosse stato figlio di un legislatore, lo avrebbero attribuito ai suoi ordinamenti. Cosa fa invece? Sceglie tutto ciò che è povero e senza alcun valore, modesto e oscuro ai più, perché fosse chiaro che solo la Divinità ha trasformato il mondo. Proprio per questo sceglie una madre poverella, una patria ancor più povera, e lui stesso si fa poverissimo.

  Questo ti dice il presepe: non essendoci un letto in cui possa essere adagiato, il Signore è posto in una mangiatoia, e l’indigenza delle cose più indispesabili diviene la prova più credibile delle precedenti profezie. Fu posto in una mangiatoia per indicare che veniva espressamente per essere cibo, offerto a tutti, senza eccezione. Il Verbo, Figlio di Dio, scegliendo la povertà e giacendo in una mangiatoia, trae a sé ricchi e poveri, colti e incolti.

  Vedi dunque come l’indigenza di ogni cosa ha adempiuto le profezie, e la povertà ha reso accessibile a tutti colui che per noi si fece povero. Nessuno rimase intimorito dinanzi alle grandiose ricchezze di Cristo, nessuno si arrestò dinanzi alla potenza del suo dominio: egli apparve uomo come tutti gli altri e, povero offrì se stesso per la salvezza di tutti.

  Per mezzo dell’umanità assunta, il Verbo di Dio si mostra in una mangiatoia, perché a tutti gli esseri ragionevoli e irragionevoli fosse aperta la possibilità di partecipare al cibo della salvezza. E penso che anche il Profeta alludesse a ciò quando parlava del mistero di questo presepe: «Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende» (Is 1, 3).

  Lui ricco si fece povero per noi, rendendo facilmente percettibile a tutti la salvezza in forza della sua divinità. A questo alludeva anche Paolo quando diceva: «Da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà » (2 Cor 8, 9).

  Ma chi era colui che arricchiva? E chi arricchiva? E In che modo si fece povero per noi? Chi dunque – ditemi – pur essendo ricco, si fece povero per riguardo alla mia povertà? Colui che apparve uomo? Ma questi non diventò mai ricco: nato da stirpe povera, rimase sempre povero. Come dunque era ricco e chi arricchiva colui che per per noi si fece povero? Dio – dice – arricchisce la creatura. È dunque Dio che si fece povero, assumendo la povertà della creatura umana attraverso la quale si manifestava: ricco nella sua divinità, si fece povero con l’assumere la nostra umanità.

Dal “Discorso nel giorno della Natività del Salvatore” di Teodoto di Ancira, vescovo.

Immagine: Guido Reni, Adorazione dei pastori, Certosa di S. Martino, Napoli.

SEPARATE… MA NON DIVISE: QUATTORDICESIMO CAPITOLO

Voi conservate ed affermate valori di cui più che mai è sentito il bisogno:

la ricerca somma ed esclusiva di Dio…

per dare alla vita il significato d’una azione continuata,

d’un “sacrificio di lode” insieme celebrato, insieme consumato,

nel respiro d’una gaudiosa e fraterna carità.

Paolo VI

  ‘Se ci amiamo scambievolmente, Dio rimane in noi e la sua carità è perfetta in noi’ (1 Gv 4,12).

Con questa affermazione lo Spirito Santo ci rivela quanto è essenziale l’esercizio della mutua carità a cui continuamente ci impegna il nostro vivere insieme, per realizzare pienamente la nostra vocazione contemplativa.

  Vita di orazione e vita fraterna si richiamano vicendevolmente. L’esperienza quotidiana ce lo dimostra: più il nostro contatto di preghiera con l’amore infinito di Dio si fa intimo e profondo, più ci sentiamo aiutate a vedere con gli occhi buoni e misericordiosi di Gesù le consorelle. Come pure è vero che il nostro impegno di carità e di umile servizio alle consorelle si fa sollecito e generoso, maggiormente sperimentiamo la Presenza divina in noi, e ci sentiamo facilitate a penetrare gli abissi dell’amore di Dio, avanzando in tal modo nella via che conduce alla contemplazione.

  L’Anima che vivifica e sostiene la comunità è la presenza di Gesù in mezzo a noi, soprattutto nell’Eucarestia, che ci rende in Lui “un solo corpo e un solo spirito” (Preg. Euc. III), facendosi nostra forza per vincere le difficoltà che la convivenza comporta.

  La comunità monastica ha come suo centro e modello la Famiglia Trinitaria, dove le tre divine Persone si scambiano incessantemente il loro amore. È questa verità che dona la massima gioia alla nostra vita comune, che è, nella sua semplicità, vera vita di famiglia, tanto più che in clausura le monache hanno scelto di vivere sempre insieme, dove le gioie dell’una allietano le altre, le sofferenze dell’una sono sofferte da tutte.

  La gioia che ci offre la vita comune, ci è proposta però come una conquista quotidiana che non ha soste, perché il fine da raggiungere è di una perfezione illimitata: “… siano uno come noi” (Gv 17,22).

  È una conquista d’amore in cui lo spirito di fede, la rinuncia a se stessi generosa, l’anteporre il bene altrui al proprio, si impongono come elementi necessari per la sua realizzazione. Infatti pur avendo una medesima vocazione, abbiamo temperamenti e attitudini diverse; su queste diversità la Grazia, se ci trova docili alla sua azione, costruisce un’unità che ci completa arricchendoci spiritualmente.

  L’amore che ci deve animare, la divina passione per la salvezza delle anime che ci ha affidato il nostro S. P. Domenico, ci portano continuamente a collaborare e ad oltrepassare tutto ciò che fa ostacolo alla realizzazione della nostra comune e preziosa vocazione.

  Gli stessi difetti e debolezze ci impegnano nell’esercizio di una carità umile, paziente, misericordiosa nel portare “le une il peso delle altre” (Gal 6,2). La vita interiore di ciascuna nella sua ascesa è infatti sorretta dalla misericordia di Dio che mai si stanca della nostra debolezza, ci perdona e ci rialza a ogni istante, si può dire, incoraggiandoci ad avanzare nelle vie dell’amore; quindi essere pazienti e comprensive verso le sorelle si impone come un’esigenza di gratitudine verso il Signore, che davanti alle infermità spirituali dell’altra ci chiede di amarla come Lui ama noi. Solo così, nell’umile bontà, la correzione fraterna, che è un dovere cristiano, viene esercitata con frutto: una sorella sostiene l’altra sorella. La S. Scrittura a tale proposito ha un’espressione assai invitante: “Il fratello che sostiene l’altro fratello costituisce una fortezza inespugnabile (Prov XVIII, 19).

  Diversi sono i momenti del giorno in cui le nostre regole monastiche ci invitano a una medesima occupazione: dalla partecipazione alla Messa al mattino, alla recita dell’Ufficio Divino, al lavoro che nel nostro Ordine si svolge, per quanto è possibile, insieme, alla consumazione dei pasti in refettorio, dove un’unica mensa ci raccoglie come in una grande famiglia, alla ricreazione: incontro fraterno che si svolge dopo il pranzo e dopo la cena.

  Certamente il tempo della ricreazione è uno dei momenti più espressivi della vita fraterna, in cui la carità esercitata nel silenzio durante il giorno si esterna in una cordiale conversazione e in sereno scambio di idee. È anche il momento per una sana allegria. La vita in Monastero, in modo particolare il lavoro, riserva a volte delle situazioni che si creano spontaneamente e sembrano fatte apposta per farci scoppiare in una allegra risata. Siccome durante il lavoro non si deve parlare senza vera necessità, si ricostruiscono i fatti a ricreazione, e la gioia diventa comune.

  “Una delle cose che mi ha più colpito entrando in comunità – osserva suor Paola – è stata quella di riscontrare una gioia semplice e spontanea in tutte le monache, specialmente a ricreazione. Ho compreso quanto sia indispensabile un pizzico di sano umorismo per mettere in fuga ogni velo di tensione o stanchezza che vorrebbe togliere alla nostra vita monastica quell’atmosfera di sempre nuova letizia, che scaturisce dal continuo contatto con la verità”.

  Gesù ha promesso il centuplo a coloro che avrebbero lasciato tutto per amor suo, e dimostra la sua fedeltà anche a proposito di quella santa gioia che a casa nostra ci procurava la vicinanza dei nostri cari, a cui abbiamo rinunciato entrando in monastero. Infatti non una, ma in tante sorelle ci ritrovano e il nostro reciproco affetto, reso più intenso dalla carità soprannaturale, forma una delle ricompense più grandi.

  “Quando il bel tempo – afferma suor Renata – ci permette di trascorrere la ricreazione all’aperto, qualche volta cerco di trovare il posto dal quale posso abbracciare con lo sguardo tutte le consorelle: godo immensamente della loro presenza, sento la gioia di trovarmi in famiglia”.

  La carità, che è industriosa per natura, durante la ricreazione raccoglie le occasioni e le sfumature più belle. La naturalezza con cui tutte vi partecipano sembra nascondere il comune impegno di recare sollievo alle consorelle di cui si condivide il sacrificio del lavoro, di cui si intuisce a volte qualche piccola pena. Allora c’è la suora intuitiva che propone un argomento che può interessare, altre che vengono in aiuto per offrire a tutte l’occasione di dimenticarsi e riprendere la nostra bella vita consacrata con rinnovato slancio.

Prediletta fra le donne, sarai Madre del Signore!

Lo Spirito Santo scenderà su di te, Maria,

su te stenderà la sua ombra la potenza dell‘Altissimo.

Colui che nascerà da te sarà il Santo, il Figlio di Dio!

Ascolta, figlia, e guarda: al re piacerà la tua bellezza.

Colui che nascerà da te sarà il Santo, il Figlio di Dio.

Cfr. Lc 1, 35; Sal 44, 11. 12

   A Dio conveniva una natività di questo genere: che non nascesse se non dalla Vergine; anche alla Vergine si addiceva un parto tale: che non generasse se non Dio. Perciò il creatore degli uomini, che stava per nascere dall’uomo per diventare uomo, dovette scegliere tra tutte le donne, anzi creare una tale madre, quale sapeva convenire a sé e che gli sarebbe piaciuta.

Volle dunque che fosse una vergine. Lui immacolato volle nascere dall’Immacolata, perché avrebbe dovuto lavare le macchie di tutti. Lui mite e umile di cuore volle venire da una madre piena di mitezza e di umiltà, perché doveva offrirsi a ognuno come modello di tali virtù, utili, anzi necessarie per la salvezza. Concesse il dono della maternità alla Vergine, lui che le aveva ispirato il voto della verginità e l’aveva arricchita dei meriti dell’umiltà.

   Altrimenti come avrebbe potuto l’angelo proclamarla piena di grazia se avesse avuto qualcosa anche piccola che non fosse dalla grazia? Ella che stava per concepire il Santo dei santi ed era in procinto di darlo alla luce, perché fosse santa nel corpo, ricevette il dono della verginità, e, perché lo fosse anche nella mente, ricevette quello dell’umiltà: La Vergine di stirpe regale, ornata di gemme di santità e splendente della doppia bellezza della mente e del corpo, conosciuta nelle sedi celesti per le sue doti e la sua bellezza, richiamò sopra di sé lo sguardo dei cittadini del cielo e attirò sulla sua persona l’occhio del Re, che la fece oggetto della sua scelta e destinataria del messaggio angelico.

  «Fu mandato l’angelo», dice, «a una vergine» (Lc 1,26. 27): vergine nel corpo, vergine nell’anima, vergine per voto, vergine insomma quale la descrive l’Apostolo, santa nell’anima e nel corpo; e non scoperta di recente né per caso, ma eletta dall’eternità, conosciuta in antecedenza dall’Altissimo e preparata per lui, custodita dagli angeli, prefigurata dai padri, promessa dai profeti.

Dalla “Omelia in lode alla Vergine Madre”, Om. 2,1-2. 4 di S. Bernardo, abate

Immagine: Annunciazione, Bernardino Gatti, Chiesa di S. Sigismondo, Cremona.