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Nella comunione dei Santi

  Questi giorni dei santi e dei morti ci richiamano alle profondità di noi stessi, alla serietà dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, altrimenti la vita si disperde e si dissolve nelle banalità quotidiane. Abbiamo bisogno di soste in cui ritrovare il coraggio di interrogarci su Dio non superficialmente e non banalmente. Vorrei a partire dalle pagine che abbiamo letto oggi e proporre alcune riflessioni.

  La prima è suggerita dal libro del Deuteronomio: “Ascolta Israele: il Signore Dio nostro è l’unico Signore”. Mi pare sia importante prendere coscienza di questa unicità del Signore. Dio è l’Unico e il Sommo. Che senso dò a queste parole? Il cardinale Martini ha avuto il coraggio di fare una Cattedra dei non credenti, in cui credenti e non credenti si confrontavano. Si disse che in noi c’è l’incredulo che anela credere e c’è il credente che è pieno di dubbi. Com’è bello trovarsi in questa comune povertà, ma anche nella ostinata ricerca di senso, di un puro volto di Dio.

  In certe giornate sono immerso in una tempesta di dubbi, pare che qualcosa in me debba esplodere, non riesco a capire; ma di una cosa non dubito, c’è in me la forza di una certezza assoluta: Dio è il solo e l’unico possibile senso alla vita. Se Lui non c’è, la vita manca del suo fondamento e Dio è il fondamento stesso del significato di tutta la creazione. Posso dubitare che ci sia, ma quello di cui non dubito è che la vita possa avere un senso se Lui non c’è. Un senso pieno, un senso totale, un senso dove il cuore trovi la sua pacificazione e tutte le realtà umane trovino un punto di consistenza in ciò che vale. Se Dio non c’è, è inutile creare vita e dare vita, gli idoli non tengono, è fatica inutile vestire d’eterno l’effimero; ma per vivere abbiamo bisogno di eterno, allora diamo veste d’assoluto a quello cui basta tendere la mano e aspettare qualche giorno o cent’anni e assistiamo al crollo degli idoli mitizzati. Certi personaggi mitizzati si invocavano addirittura con il nome di “Padre”; ora les dieux sont morts, gli dei se ne vanno, non durano. Sono convinto che è difficile essere davvero atei. Ci sono piuttosto gli idolatri. Ognuno per vivere è costretto a inventarsi qualcosa di assoluto. Dio è l’Assoluto. Se non c’è un assoluto nella vita non c’è nulla di assoluto né valori, né doveri diritti, né significati. Vestiamo il nulla perché non possiamo sopportarlo e allora lo copriamo. Tanta cultura non è che il tentativo vano di rivestire il vuoto che si crea nell’esistenza dell’uomo.

  In un’alta pagina della Gaia Scienza, Nietzsche dice: “Dio è morto, ma la gente non se ne accorge”, e fa questa ipotesi: quante chiacchiere per riempire il vuoto, sia pure chiacchiere universitarie, ma sempre chiacchiere. Abbiamo letto la parola del Deuteronomio dove si dice: “Ascolta Israele, perché tu sia felice: il Signore Dio nostro, il Signore è uno solo. Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima … Questi precetti che ora ti do ti siano fissi nel cuore”. Io penso che quest’unicità di Dio, questo sentire che Dio solo è l’assoluto, è iscritto nel cuore stesso dell’uomo, è la nota ontologica costitutiva della creatura.

  In questi giorni, se rientriamo nel profondo di noi interrogandoci, ci accorgiamo che nulla ruota attorno a noi stessi, ma tende verso un polo ignoto che è fuori di noi. Le cose più alte dell’uomo, le amicizie, gli amori, tutti dicono all’uomo il bisogno di Dio. In una pagina altissima

  Simone Weil dice: “Siamo come il bambino che grida la sua fame e se anche qualcuno gli dice che forse non c’è pane per la sua fame: il bambino grida lo stesso perché che ci sia o non ci sia del pane, questo può essere incerto, ma che io abbia farne e bisogno di pane, questa è certezza assoluta “. S. Agostino diceva: “Io sono un fìlo d’erba che ha sete”. L’uomo è ontologicamente tensione verso, è come l’ago magnetico che tende a un polo ignoto nascosto che è anche dentro di lui, perché se non fosse dentro non sarebbe orientato verso una meta che è oltre. È il comandamento ribadito nell’Antico e nel Nuovo Testamento e che è il cuore della Bibbia: “Ama il Signore Dio tuo, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutto te stesso”.

  Se amare vuol dire “tensione verso”, io posso dire che davvero in me tutto tende verso Dio. È il mio essere stesso di creatura che anela verso questa pienezza assoluta. Sono un grido verso Dio con la speranza del cuore che sospira; e quando il cuore sospira, in fondo dice: Cerco il Tuo volto.

  Simone Weil in un testo dell’ “Attesa di Dio” dice: “Quando Elettra non pensa più che Oreste sia vivo e che Oreste non sia più da nessuna parte, non per questo si riconcilia con l’ambiente, ma tutto ciò che desidera è di non esistere più dal momento che Oreste non esiste più” .

  È difficile essere non credenti coerenti, vuol dire accostarsi all’uomo crocifisso, a qualcuno che dalla vita non ha avuto nulla, con le mani vuote e il cuore vuoto, e dirgli: “La tua sofferenza è inutile, è sterile, è vana”.

  Un terzo pensiero vorrei aggiungere. Dio è ignoto. Dio è oltre le cose dell’uomo, è nascosto, ma non è contro il cuore dell’uomo. L’Apostolo Giovanni nella sua lettera dice: “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”, è più grande, ma mai contro di noi. Ci sono tante immagini di Dio che sono più piccole del nostro piccolo cuore.

  Dio è oltre, è più in alto, c’è una trascendenza positiva, bella come la luce che trascende ogni cosa e il fiore si tende verso la luce come le braccia dell’arante. Questa è una luminosa grande pacificazione per cui Giovanni dice: “Davanti a Dio diamo pace ai nostri cuori, perché se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. “.

  Allora Dio diventa la speranza ultima della vita, l’ultimo orizzonte dell’uomo ed è bello pensare i nostri morti in questa luce, in questo orizzonte di pienezza per cui

  anche loro sono in cammino, tutti siamo in cammino, ed un cammino che non si arresta mai. È un cammino che va, secondo il pensiero del più grande spirito religioso della Chiesa antica greca, Gregorio di Nissa, “di cominciamento in cominciamento, di ripresa in ripresa, in cominciamenti e in riprese senza fine”, fino al punto, dice Paolo, in cui “Dio sarà tutto in tutte le cose”, allora saremo nella perenne e piena vita e come diceva Bernanos, “nella dolce pietà di Dio come in un eterno mattino, in un sabato senza tramonto”. In questa prospettiva, in questa visione di speranza meravigliosa vorrei leggervi la grande pagina, che ho sintetizzato, della mistica inglese Giuliana di Norwich. Io ho bisogno di rileggerla spesso, a me e agli amici che sono talvolta nella sofferenza e nell’angoscia profonda:

“Dio ha pietà e compassione di noi.

E così il nostro buon Signore rispose

a tutte le domande e alle incertezze che posso avere,

dicendo in modo profondamente pacificante:

“Io, voglio fare che tutto sia bene.

Io farò che tutto sia bene.

Io posso fare che tutto sia bene.

Io so fare che tutto sia bene.

E tu vedrai da te stessa che tutto sarà bene.

In queste cinque parole Dio vuole che siamo permeati

di quiete e di pace.

Poiché come la Santa Trinità ha fatto tutte le cose

a partire da nulla, ugualmente la Santa Trinità

può volgere al bene tutto ciò che non è bene.

Questo è ciò che Dio mi ha mostrato in questa parola

che ha detto: Tu vedrai da te stessa che ogni sorta di cose

sarà bene!

La speranza nel Dio che amiamo, nel Dio del Vangelo, nel Dio più grande del nostro cuore, ha questi orizzonti ultimi e sconfinati; che questa speranza sia salda in noi, con tutti quelli che custodiamo nel cuore e con quelli che sono saliti più in alto, che ci hanno amato e, che, come dice la preghiera di Newman, ritroveremo e ameremo per sempre, nella divina pienezza del compimento in cui Dio sarà tutto in tutte le cose.

Saluto alla fine della Messa

  Domani sarà la domenica in cui ricorderemo i Santi e i nostri morti. Per dare davvero una nota festiva leggiamo e ricordiamo l’alta pagina di Agostino, un ricercatore instancabile di assoluto, che ci ha consegnato le sue Confessioni in cui ci introduce tutti:

  Ci hai fatto per Te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto fino a quando non riposa in Te e ha scritto ancora: Tardi ti ho amato, o bellezza antica e sempre nuova, tardi ti ho amato e ci ha lasciato anche una pagina, quella dell’ “Alleluia del Pellegrino” che ci indica gli orizzonti ultimi del cammino della speranza cristiana.

Dio vuole che noi cantiamo Alleluja e lo cantiamo

nella verità del cuore senza stonature in colui che canta.

Cantiamo Alleluja, fratelli, con la voce e con la vita,

con la bocca e con il cuore.

Questo è l’Alleluja gradito al Signore.

O felici Alleluja del cielo!

Qui cantiamo Alleluja, ma lo cantiamo nell’affanno

e nel travaglio, lassù lo canteremo nella pace.

Qui lo cantiamo nella tentazione e nei pericoli,

nella lotta e nell’angoscia, lassù lo canteremo

nella sicurezza e nella comunione vera.

O felici Alleluja del cielo!

Dove non ci sarà più né angoscia, né discordia,

dove non ci sarà più nessun nemico,

dove non perirà più alcun amico.

Lassù canteremo Alleluja ed anche quaggiù

cantiamo Alleluja. Ma qui lo cantiamo

nella preoccupazione, lassù nella pace sicura.

Qui come morituri, lassù vivi per sempre.

Qui nella speranza, lassù nel possesso raggiunto.

Qui l’Alleluja della strada, lassù l’Alleluja della Patria!

Cantiamo dunque, fratelli. Cantiamo Alleluja

non per indurre al riposo, ma per alleviare la fatica.

Canta come cantano i viandanti.

Canta e cammina, non per cullare l’inerzia,

ma per sostenere lo sforzo.

Canta e cammina e camminando avanza,

avanza nel bene, avanza nella fede retta,

avanza nella vita pura senza smarrirti,

senza indietreggiare, senza fermarti.

Canta e cammina.

  Signore, noi ti chiediamo che questa pagina sia vera nel nostro quotidiano, in ogni istante della nostra vita e nel nostro camminare, per cristo nostro Signore.

(Dal libro “Di cominciamento in cominciamento , di don Michele Do)

Immagine: Chiesa di S. Sigismondo, Bernardino Campi, Gloria del Paradiso, Affresco nella Cupola

SEPARATE… MA NON DIVISE: TREDICESIMO CAPITOLO

“Meditando i misteri del S. Rosario noi impareremo,

sull’esempio di Maria, a diventare anime di pace,

attraverso il contatto amoroso e incessante con Gesù

e coi misteri della sua vita redentrice”.

Paolo VI, Esort. apost. 7 ottobre 1969

  Il Rosario è una preghiera particolarmente cara alla famiglia religiosa a cui apparteniamo. L’Ordine Domenicano, infatti, fin dal suo nascere l’ha promossa in mezzo ai fedeli, dando poi un forte contributo al suo perfezionamento lungo il corso della storia, specialmente nel secolo XV quando il Beato Alano de la Roche riordinò il Rosario donandogli la sua struttura fondamentale fatta di quindici misteri intercalati dalle dieci ‘Ave Maria’.

  È nota la semplicità del Rosario, preghiera accessibile alle persone di ogni condizione ed età. Esso, come il Vangelo di cui è mirabile sintesi, cela, sotto la semplicità delle sue formule, possibilità inesauribili di meditazione e di contemplazione dell’Amore di Dio, Verità che sperimentiamo quotidianamente.

  Ogni giorno, ci riuniamo per la recita comune di una terza parte del S. Rosario, cioè per la meditazione di cinque misteri; è l’incontro di famiglia della Madre con le sue figlie, che si stringono attorno a Lei per ripeterle con accento sempre nuovo il loro affettuoso saluto ‘Ave Maria’, e per contemplare con Lei i misteri della salvezza.

  Ella però non è solo la Madre della nostra piccola comunità; la sua maternità si estende su tutta la Chiesa, e in modo particolare su ogni singolo membro che forma il Corpo Mistico di suo Figlio Gesù.

  Per questo, ogni giorno, durante la recita del Rosario, abbiamo da offrire alla sua materna intercessione le grandi intenzioni che riguardano i bisogni della Chiesa con le necessità di tante persone che si raccomandano alle nostre preghiere.

  Ogni forma di preghiera, anche la più semplice, impone una certa ascesi che impegna in un esercizio di buona volontà per poter cogliere i frutti preziosi che l’orazione offre.

  ‘I beni materiali – afferma S. Gregorio – attirano subito e quando si posseggono ci deludono perché non ci colmano; i beni dello spirito ci annoiano a prima vista, ma quando poi se ne fa l’esperienza piacciono sempre più’.

  Così a volte capita per la preghiera del Rosario: prima di avere familiarità con essa ci sembra lunga e monotona, solo penetrandola con amore diventa soave ed invitante.

  Suor Teresa ha fatto questa esperienza agli inizi della sua vita religiosa: “Ho cominciato piuttosto annoiata – confessa con sincerità – a recitare insieme alle Sorelle una terza parte, ma era troppo per me; ma ora che ho preso confidenza con la ‘corona’ trovo che alla fine della giornata sono passati nella mia meditazione, fra i ritagli di tempo libero, tutti i venti misteri del Rosario. E se al momento di andare a riposare mi accorgo che manca qualche decina di ‘rose mistiche’ per completare il mazzo, me ne dispiaccio!”.

 Ufficio divino e Rosario sono due preghiere che vanno d’accordo, l’una e l’altra aiutano a tenerci deste in quella contemplazione incessante del nostro Redentore e del suo mistero d’amore per il Padre e per gli uomini suoi fratelli.

 “L’Ufficio divino – asserisce suor Vincenza – mi introduce durante l’anno a penetrare i misteri della salvezza. Nel Rosario medito con Maria gli stessi misteri, e gli orizzonti che questa Madre apre alla mia anima ogni giorno in questo contatto di preghiera con Lei è difficile descriverli”.

 ‘Veramente il santo Rosario – come ha affermato Paolo VI – ci abitua a studiare Cristo dal migliore punto di osservazione, cioè da Maria stessa… Esso ci fissa in Cristo, nei quadri della sua vita e della sua teologia, non solo con Maria, ma altresì, per quanto a noi è possibile, come Maria, che è certamente quella che più di tutti lo ha pensato, lo ha capito, lo ha amato, lo ha vissuto’.

 Il Rosario è inoltre una preghiera che favorisce le attrattive interiori dello Spirito. Infatti, fra i misteri ciascuna di noi ha le sue preferenze.

 Suor Candida lo dice spesso: ”A me piacciono i misteri dolorosi. Vorrei portare sempre nella mente e nel cuore le sofferenze di Gesù. La Madonna mi aiuta molto in questo. Traggo dalla loro meditazione quotidiana la gratitudine per quello che ha fatto Gesù per salvarci e tanta forza per accogliere con amore quelle molteplici piccole sofferenze e umiliazioni di cui è intessuta la vita religiosa, orientata a conformarci sempre più al divino Crocifisso”.

 “L’agonia di Gesù nell’orto del Getzemani – rivela suor Cristina – è il mistero che medito più volentieri, mi dà le dimensioni del peccato, come rifiuto all’amore di Dio. Sono profondamente convinta che Gesù, nella sua Chiesa, continua a soffrire per questo rifiuto che si rinnova, perciò non mi stanco di chiedere a Maria di aiutarmi a consolarlo”.

 Suor Maria Amata invece preferisce il secondo mistero gaudioso: “Approfitto per chiedere alla Madonna di continuare le sue caritatevoli visite: La mando a prendere le anime del Purgatorio per portarle in Paradiso, La invito ad andare a confortare il Santo Padre, a visitare chi soffre e anche a santificare, con la sua presenza, tutti i bambini nascosti nel seno delle loro mamme, come ha fatto con Giovanni Battista”.

 I misteri gloriosi aprono un varco nel Cielo, ci infondono speranza e gioia insieme.

 “Quando giungo alla ‘ascensione di Gesù’ – rivela suor Paola – cerco di immergermi nel desiderio ardentissimo che deve aver provato la Madonna di raggiungere al più presto il Figlio. Le chiedo di infondere anche in tutti noi, pellegrini sulla terra, un po’ di questa nostalgia di vedere il volto di Gesù!”.

 “Le mie predilezioni – manifesta suor Diana – sono per il ‘sì’ di Maria all’Annuncio dell’Angelo; tutto in un certo senso ha avuto inizio da quel sì…Poi ho tanto desiderato di ripeterlo anch’io sempre e che sia ripetuto dai miei fratelli, perché Gesù continui a vivere in noi come è vissuto in Lei”.

 Io, invece, ritorno volentieri alle nozze di Cana e quando mi giunge notizia di giovani coppie in difficoltà ripeto con la Madre di Gesù: “In quella famiglia non hanno più vino, non hanno più gioia, si sta spegnendo l’amore…” e attendo con fiducia che Maria anticipi l’ora del miracolo dell’unità ritrovata, della concordia ristabilita, della fedeltà riconfermata.

 Maria è nostra maestra. Alla sua scuola impariamo, nel silenzio e nel raccoglimento, le sue lezioni di umiltà, di disponibilità e di vita d’unione con Dio. Non fa meraviglia, quindi, se amiamo tanto il Rosario. e se durante il giorno, nei ritagli di tempo libero, le nostre mani cercano spontaneamente la Corona che portiamo appesa al fianco: essa ci aiuta a tener desto quel ‘rapporto tra cielo e terra’ a cui siamo state chiamate.

B. V. MARIA DEL ROSARIO

Madre santissima e vergine intatta,

gloriosa regina dell’universo,

intercedi per noi presso il Signore!

   Mentre la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine la perfezione, con la quale è senza macchia e senza ruga (cfr Ef 5,27), i fedeli si sforzano ancora di crescere nella santità debellando il peccato; e per questo innalzano gli occhi a Maria, la quale rifulge come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti. La Chiesa pensando a Lei con pietà filiale e contemplandola alla luce del Verbo fatto uomo, con venerazione penetra più profondamente nell’altissimo mistero dell’incarnazione e si va ognor più conformando col suo Sposo. Maria infatti, la quale, per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per così dire e riverbera i massimi dati della fede, mentre viene predicata e onorata chiama i credenti al Figlio suo, al suo sacrificio e all’amore del Padre. A sua volta la Chiesa, mentre persegue la gloria di Cristo, diventa più simile alla sua eccelsa Figura, progredendo continuamente nella fede, speranza e carità e in ogni cosa cercando e seguendo la divina volontà. Onde anche nella sua opera apostolica la Chiesa giustamente guarda a Colei, che generò Cristo, concepito appunto dallo Spirito Santo e nato dalla Vergine per nascere e crescere anche nel cuore dei fedeli per mezzo della Chiesa. La Vergine infatti nella sua vita fu modello di quell’amore materno, del quale devono essere animati tutti quelli, che nella missione apostolica della Chiesa cooperano alla rigenerazione degli uomini.

  Maria, perché Madre santissima di Dio, che prese parte ai misteri di Cristo, per grazia di Dio esaltata, dopo il Figlio, sopra tutti gli angeli e gli uomini, viene dalla Chiesa giustamente onorata con culto speciale. Già fino dai tempi più antichi infatti la beata Vergine è venerata col titolo di «Madre di Dio», sotto il cui presidio i fedeli imploranti si rifugiano in tutti i pericoli e necessità. Soprattutto a partire dal Concilio di Efeso il culto del popolo di Dio verso Maria crebbe mirabilmente in venerazione e amore, in preghiera e imitazione, secondo le di Lei profetiche parole: «Tutte le generazioni mi chiameranno beata, perché grandi cose mi ha fatto l’onnipotente» (Lc 1,48). Questo culto, quale sempre fu nella Chiesa, sebbene del tutto singolare, differisce essenzialmente dal culto di adorazione, prestato al Verbo incarnato e così come al Padre e allo Spirito Santo, e singolarmente lo promuove. Infatti le varie forme di devozione verso la Madre di Dio, che la Chiesa ha approvato entro i limiti della sana e ortodossa dottrina e secondo le circostanze di tempo e di luogo e l’indole e carattere proprio dei fedeli, fanno sì, che mentre è onorata la Madre, il Figlio, per il quale esistono tutte le cose (cfr Col 1,15-16) e nel quale «piacque all’eterno Padre di far risiedere tutta la pienezza» (Col 1,19), sia debitamente conosciuto, amato, glorificato, e siano osservati i suoi comandamenti.

  Il Sacrosanto Concilio deliberatamente insegna questa dottrina cattolica, e insieme esorta tutti i figli della Chiesa, perché generosamente promuovano il culto, specialmente liturgico, verso la beata Vergine, abbiano in grande stima le pratiche e gli esercizi di pietà verso di Lei, raccomandati lungo i secoli dal Magistero della Chiesa.

  I fedeli a sua volta si ricordino che la vera devozione non consiste né in uno sterile e passeggero sentimentalismo, né in una certa quale vana credulità, ma bensì procede dalla fede vera, dalla quale siamo portati a riconoscere la preminenza della Madre di Dio, e siamo spinti al filiale amore verso la Madre nostra e all’imitazione delle sue virtù.

  La Madre di Gesù, come in cielo glorificata ormai nel corpo e nell’anima è immagine e inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante Popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore (cfr 2 Pt 3,10).

  Tutti i fedeli effondano insistenti preghiere alla Madre di Dio e Madre degli uomini, perchè Essa, che con le sue preghiere aiutò le primizie della Chiesa, anche ora in cielo, esaltata su tutti i beati e gli angeli, nella Comunione dei Santi interceda presso il Figlio suo, finchè tutte le famiglie dei popoli, sia quelle insignite del nome cristiano, sia quelle che ancora ignorano il loro Salvatore, in pace e concordia siano felicemente riunite in un solo Popolo di Dio, a gloria della santissima e indivisibile Trinità.

Dalla Costituzione dogmatica “Lumen Gentium” del Concilio Ecumenico Vaticano II sulla Chiesa.

San Domenico e le sue Monache – parte seconda

LA MISSIONE DELLE MONACHE

NELL’ORDINE DEI FRATI PREDICATORI

1. Il monastero di Prouille

Nel 1207 il vescovo Diego “per accogliervi alcune nobildonne che i parenti, a causa della loro povertà, affidavano agli eretici per essere mantenute ed educate fondò un monastero tra Fanjeaux e Montréal, nella località chiamata Prouille. Quivi fino ai nostri giorni, le serve di Cristo prestano gradito servizio al loro Creatore con gran fervore di santità ed eccelsa purezza, conducendo una vita salutare per loro, esemplare per gli uomini, gioconda per gli angeli, grata a Dio” (Giordano 27).

Fondato il monastero, Diego ne affida la cura a Domenico. Nell’estate del 1208 parte per la Spagna; ritorna nella sua diocesi. Era sua intenzione ritornare presto in Francia per riprendere la sua lotta contro l’eresia; si proponeva anche di portare il denaro necessario per la costruzione di un nuovo monastero (Giordano 28).

Ma la morte non gli permise di attuare il suo progetto.

Domenico intanto si dedica con generosità alla formazione spirituale di quella comunità femminile. Si preoccupa anche di far pervenire loro alcune donazioni per assicurare una certa tranquillità economica.

La vita interna della comunità di Prouille è organizzata secondo il modello dei monasteri cistercensi. La comunità era nata in un ambiente cistercense. Diego è entusiasta del sistema di vita dei monaci di Cîteaux. Domenico è pure grande amico dei cistercensi e spesso li ha compagni nella predicazione. A quell’epoca i cistercensi erano i principali educatori di monache.

Intorno al 1212-1213, Domenico pensa di incorporare la comunità di Prouille all’Ordine di Cîteaux. Allora non esisteva ancora l’Ordine dei frati predicatori: era naturale che pensasse di incorporare quella comunità all’Ordine dei cistercensi. L’Ordine di Cîteaux però da un po’ di tempo aveva vietato queste incorporazioni, perché la cura pastorale dei monasteri impegnava troppo le loro forze. Così la comunità di Prouille non fu accettata e non divenne monastero cistercense (110).

E Domenico continuò ad aver cura di quella comunità.

Nel 1213 rifiutò la proposta dell’episcopato con la scusa di “dover curare – diceva – la tenera piantagione di Prouille, che gli era stata affidata” (Atti Tolosa 3).

Dopo la fondazione dell’Ordine dei frati predicatori, Domenico elabora anche una propria Regola per le monache di Prouille, che così diventano parti integranti dell’ Ordine. Il 30 marzo 1218 il Pontefice Onorio III “riconosce quel monastero istituito secondo la Regola di sant’Agostino e sotto la guida dei frati predicatori” (111).

2. Le monache di Madrid

Al 1218 risale anche la fondazione del monastero di Madrid. Solo dopo un anno però vi viene introdotta la vita regolare per interessamento di fra Mamés, fratello di Domenico, che rimane alla guida della comunità.

A queste suore nel 1220, forse dopo il capitolo generale, Domenico invia una lettera; è l’unica sua lettera che ci è pervenuta. In essa il Santo raccomanda di “osservare tutte le regole dell’Ordine”. In particolare raccomanda di “osservare rigorosamente il silenzio in ogni luogo, in coro, nel refettorio e nei dormitori”; di osservare “fedelmente la clausura”; e “di non trascurare gli atti di penitenza e le preghiere notturne in coro”. Raccomanda poi “l’ubbidienza alla priora” e di “non accettare novizie, senza il consenso dell’intera comunità”.

Infine delega al fratello, fra Mamés, tutte le facoltà necessarie per regolare gli altri problemi, compresa “la destituzione della priora”, sempre però col consenso della maggioranza delle suore (112).

3. La fondazione di S. Sisto a Roma

Nel 1219 il pontefice Onorio III, riprendendo un progetto del suo predecessore Innocenzo III, affida a Domenico il delicato compito di riformare la vita poco esemplare delle monache di Roma, sparse in sette monasteri. Gli dona il chiostro e la chiesa di S. Sisto per riunire tutte le monache e per organizzarvi la vita regolare.

Tutto doveva avvenire liberamente. La realizzazione del progetto era affidata completamente alle capacità persuasive di Domenico. Il Santo, come era sua abitudine, si dedica con grande zelo a quel compito; incontra però non poche difficoltà. Quelle suore erano abituate a girovagare per Roma e a frequentare le case dei parenti; non erano affatto abituate a una disciplina claustrale. Domenico visita i vari monasteri; istruisce quelle suore, le esorta e le invita a una condotta più coerente con la loro vocazione religiosa.

All’inizio incontra una netta opposizione. Ma poi con la sua bontà, la sua capacità persuasiva e la sua tenacia riesce a vincere ogni resistenza; trasferisce quelle suore in S. Sisto e chiude le porte della clausura.

Vi trasferisce anche un gruppo di suore di Prouille per insegnare a quella nuova comunità le regole e le osservanze dell’Ordine.

Alla comunità di S. Sisto Domenico dà la Regola di sant’Agostino integrata da alcune norme. La base è la Regola data alle suore di Prouille. Il testo si ispira alle prime Consuetudini dei frati predicatori, alle quali vengono aggiunte altre norme che regolano la clausura, la preghiera, il lavoro e gli uffici del monastero (113).

Questa Regola, detta di S. Sisto, ebbe un grande successo. Gregorio IX si fece promotore della sua diffusione; fu scelta da molti monasteri. Le stesse suore di Prouille, nel 1236, dichiareranno, con evidente anacronismo, che fin dalla loro “conversione” avevano scelto di servire il Signore sotto la Regola delle monache di S. Sisto di Roma (114).

Delle prime monache di S. Sisto fa parte suor Cecilia Cesarini, che sarà una delle suore inviate a Bologna, quando sarà fondato il monastero di sant’Agnese. Abbiamo così una continuità ideale tra i primi monasteri dell’Ordine; da Prouille vengono inviate suore a S. Sisto, da S. Sisto a Sant’Agnese.

4. Diana di Andalò e il monastero di Sant’Agnese a Bologna

Nell’estate del 1219, il Santo aveva incontrato a Bologna Diana di Andalò, una giovane patrizia bolognese conquistata all’ideale di Domenico da Reginaldo d’Orléans. Diana si lega subito con filiale affetto al padre dei frati predicatori. A lui affida la direzione della propria anima e nelle sue mani fa voto di ubbidienza; gli manifesta pure il desiderio di formare una comunità e quindi di fondare un monastero.

Domenico condivide pienamente quel suo desiderio. Quando ritorna a Bologna l’anno seguente, raduna la comunità dei frati per studiare con loro come realizzare una Casa di monache, che “si dica e sia dell’Ordine”.

Dopo aver ascoltato il parere dei frati, dice “di volersi consultare col Signore”, come era sua abitudine. Passa la notte in preghiera; e il giorno seguente la decisione è già presa. Raduna di nuovo la comunità e comunica: “È necessario, fratelli, che venga costruita una casa per le suore, anche se per questo sarà necessario sospendere la costruzione del nostro convento”.

Dovendo poi allontanarsi da Bologna, affida a un comitato di quattro religiosi il compito di cercare il terreno adatto e procedere all’esecuzione dell’opera. I quattro sono Paolo di Ungheria, priore del convento, fra Guala, fra Ventura e fra Rodolfo, economo della comunità. Si mettono subito all’opera; trovano il terreno adatto; ma incontrano una difficoltà imprevista: il vescovo, Enrico della Fratta, si oppone, perché – dice – il monastero verrebbe costruito “troppo vicino alla città”.

Diana se ne rammarica: teme che l’opposizione del vescovo sia stata provocata dall’intervento della sua famiglia, che non approva la sua idea di entrare in monastero e cerca in tutti i modi di creare ostacoli. Essa però non si scoraggia. Si ritira in casa; e sotto le ricche vesti mette un cilicio: prega e osserva un rigoroso silenzio.

Nel maggio del 1221 incontra ancora Domenico e gli conferma la propria decisione di entrare in un monastero, nonostante l’opposizione dei parenti; forse gli manifesta anche un suo ardito piano.

Infatti nella speranza di superare tutte le difficoltà e realizzare più facilmente il suo progetto, ha escogitato un suo piano. Il 22 luglio, con la scusa di fare una gita sulle colline di Bologna, si reca con alcune amiche a Ronzano, dove si trova il romitaggio delle canonichesse di S. Marco di Mantova. Appena vi giunge, attua il suo piano: domanda di entrare nel monastero per una visita; ma, quando è dentro, domanda l’abito religioso. La reazione dei parenti è immediata. Corrono a Ronzano e la trascinano con forza a casa. Per la violenza dei rapitori, Diana ci rimette una costola. In casa rimane segregata e strettamente sorvegliata.

Quando, alla fine di luglio, Domenico ritorna a Bologna, dopo la predicazione nel Veneto, viene a conoscenza del fatto; e ne è molto amareggiato. Nonostante sia molto stanco e ammalato desidera ugualmente incontrare la sua figlia spirituale. Con l’intervento del suo amico, il cardinale Ugolino, ottiene di poter far visita alla reclusa. La incoraggia a perseverare nella vocazione e le assicura la sua assistenza con la preghiera.

Ma ormai Domenico è arrivato al traguardo; si sta per chiudere la sua giornata terrena. Il progetto del monastero sarà realizzato due anni dopo dal suo successore, Giordano di Sassonia (115).

5. Le suore predicatrici

Domenico, fondatore di monasteri, dopo l’approvazione dell’Ordine, elabora anche delle Regole adatte alle suore, che considera collaboratrici nella sua opera di evangelizzazione. Egli si preoccupa sempre di designare

alcuni frati, perché non venga mai a mancare loro l’assistenza spirituale. Dell’ Ordine dei frati predicatori queste suore sono parti integranti; sono anch’esse “predicatrici”. Da alcune lettere di Giordano di Sassonia appare chiaro il suo pensiero: le monache partecipano all’identico fine dell’Ordine dei frati; esse fanno parte dell’unico Ordine dei predicatori.

Giordano, come è noto, è il più fedele interprete del pensiero di Domenico e il più attento esecutore dei suoi progetti. A parte lo studio “assiduo” e la predicazione, la vita delle monache non è diversa da quella dei frati. Esse hanno le medesime osservanze regolari; il medesimo spirito di preghiera, le medesime solennità liturgiche; lo spirito di povertà; il dovere del silenzio; la medesima ubbidienza al Maestro Generale
dell’ Ordine… Fanno parte dunque della medesima famiglia. Le monache partecipano anche al lavoro apostolico dei frati, mediante la preghiera e la penitenza. Non solo: esse annunciano anche la parola di Dio, mediante la testimonianza di una vita evangelica.

Sono dunque vere “predicatrici”; partecipano non solo alla medesima vita; ma anche alla medesima missione dei Frati (116). Anche oggi, – come diceva il beato Giordano a proposito delle prime suore di Prouille – esse “prestano gradito servizio al Creatore, con gran fervore di santità e purezza, conducendo una vita salutare per loro, esemplare per gli uomini, gioconda per gli angeli, grata a Dio” (Giordano 27).

Da “Domenico di Guzman. L’uomo il santo l’eredità”, Alfonso d’Amato, o.p.

Immagine: Prouille, Francia

San Domenico e le sue Monache – parte prima

8° CENTENARIO

DELLA MORTE DI S. DOMENICO

In occasione di questo Giubileo desideriamo condividere con tutti i nostri fedeli e amici alcuni articoli riguardanti la vita delle Monache Domenicane fondate da S. Domenico nel 1207 .

Un viaggio che, attraversando la storia e approfondendo il carisma, desideriamo aiuti tutti coloro che leggeranno queste pagine di conoscere il grande dono che Dio ha fatto alla Sua Chiesa con S. Domenico.

IL SERVIZIO DELLA PAROLA

  L’idea originale di san Domenico è stata quella di offrire alla Chiesa un Ordine di Predicatori. Egli mette a disposizione di essa delle comunità di monache e di frati la cui vocazione è quella di «portare la Parola». Portare la Parola prima di tutto attraverso una preghiera permanente, come una donna porta un bambino nel suo grembo, tra le sue braccia, o sulla sua schiena. Ma portarla anche così come l’araldo, correndo, porta un messaggio importante a tutti coloro la cui vita dipende da esso.

  All’interno dell’Ordine dei Predicatori trovano il loro posto varie categorie di persone, passiamone in rassegna alcune:

 I Frati Predicatori

  I Domenicani sono votati al servizio della Parola…

  Mettersi al servizio della Parola equivale a mettersi al servizio del Signore Gesù, poiché Egli è la Parola di Dio. Ed è anche mettersi al servizio dell’uomo, per donargli la Parola.

  I Frati Predicatori amano la Parola poiché amano il Signore e vogliono assomigliarli. A questo proposito, le loro Costituzioni dedicano un intero capitolo al ministero della Parola, e invitano i frati a dedicarsi con tutte le loro forze a quella che è la ragione stessa della loro vocazione. Ma il servizio della Parola non si realizza soltanto nell’atto di predicare. Esso si estende a tutta l’esistenza delle persone e delle Comunità che costituiscono l’Ordine.

I Frati conversi

  I frati conversi, che oggi chiamiamo «frati cooperatori», termine che ricorda i «coadiutori» della Compagnia di Gesù, sono per vocazione dei muti al servizio della Parola di Dio.

  Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza vitale che questa grande vocazione riveste per l’Ordine dei Predicatori e per ogni suo convento.

  Essa ricorda continuamente, a quelli che hanno la missione di annunciare, che devono vivere ciò che hanno il compito di annunciare. Essa ricorda che l’umiltà e la costanza nella preghiera sono altrettanto utili alla salvezza delle anime che gli studi e le migliori tecniche oratorie.

  Nell’Ordine dei Predicatori ci sono vari modi per servire la Parola di Dio. Alcuni sono chiamati a prendere la parola e parlare pubblicamente, facendolo in molteplici maniere, altri sono chiamati a fare di tutto affinché questa parola sia recepita e ascoltata. Tutti i frati, chiunque essi siano, sono al servizio gli uni degli altri. Nessuno più degli altri. E sono tutti a servizio della Parola di Dio e della salvezza delle anime.

  In questo Ordine completamente dedicato al servizio della salvezza delle anime, tutti hanno il loro ruolo, tutti sono indispensabili, quelli che custodiscono la Parola, e quelli che custodiscono il silenzio. Entrambe le vocazioni sono necessarie.

La vocazione delle Monache Domenicane

Parlare senza dire una parola

  La vocazione delle monache domenicane, fin dalla fondazione del monastero di Prouille nel 1207 da parte di Diego di Osma e di san Domenico, è di servire la Parola nel silenzio e nella penitenza. La loro vocazione non è, come nelle altre famiglie monastiche, di vivere al femminile ciò che vivono gli uomini dal canto loro. Da questo punto di vista, la vocazione delle monache contemplative domenicane è originale, anche se il loro modo di vivere assomiglia a quello di tutte le contemplative. La loro vocazione specifica è quella di servire la Parola di Dio, ed esse amano chiamarsi «sorelle predicatrici». Ma la servono alla loro maniera, che non è quella dei frati. Attraverso la loro osservanza della clausura, con il loro silenzio, la significativa quantità di tempo trascorso in coro nella celebrazione dei salmi e nella preghiera personale, il loro lavoro manuale, esse sono prima di tutto delle contemplative. La loro missione è quella di sostenere la predicazione dei frati e di supplicare il Signore affinché apra i cuori di coloro ai quali essi si rivolgono. Come gli scalatori in cordata, esse si occupano di assicurare quelli che si assumono dei rischi ed escono alla ricerca della pecora perduta. Presso di loro, i frati trovano il conforto e il sostegno spirituale di cui hanno bisogno. Essi condividono con le loro consorelle le proprie gioie e le proprie fatiche, affinché esse portino a compimento ciò che loro hanno così imperfettamente cominciato.

  San Domenico ha voluto questa alleanza tra la contemplazione della Parola e la predicazione della preghiera. E la vitalità dell’Ordine dei Predicatori dipende sempre dall’armonia di questa comunione. Se le monache, o se i frati, per diverse ragioni, non volessero più onorarla, il servizio della Parola ne soffrirebbe e l’Ordine dei Predicatori non sarebbe più fedele all’intuizione del suo fondatore. Verrebbe a perderci così tanto che non sarebbe più lo stesso.

Da “Domenicani. I Frati Predicatori” di Guy Bedouelle e Alain Quilici

Immagine: Monache Domenicane, miniatura di Scuola lombarda (fine sec. XV), Biblioteca di S. Domenico, Bologna.

SEPARATE… MA NON DIVISE: DODICESIMO CAPITOLO

Ivi nella preghiera s’acquista quell’occhio il cui limpido sguardo ferisce di amore lo Sposo e la cui trasparente purezza permette di vedere Dio…

Ivi Dio concede in ricompensa ai suoi atleti la mercede desiderata per il lavoro della lotta,

cioè la pace che il mondo non conosce

e il gaudio nello spirito santo…

questa è la parte migliore che Maria ha scelto

e che non le sarà mai tolta”.

(Istr. Venite Seorsum, 2)

  La nostra preghiera liturgica ha come sua necessaria compagna la preghiera intima, personale, quella fatta nel silenzio del cuore.

  Se la preghiera liturgica ci richiama in Coro più volte al giorno, la preghiera intima ci impegna continuamente in un incessante colloquio con la presenza divina che non abbandona mai la nostra anima. È una preghiera semplice, fatta più di amorosa attenzione del cuore che di parole.

  La nostra vocazione è di rimanere in continuo contatto con il Signore. Il Santo Padre Paolo VI ce lo conferma esprimendo il pensiero della Chiesa su questa attività interiore che abbiamo scelto, come Maria di Betania, la quale se ne stava ai piedi del Maestro per ascoltarlo: “Che cosa vuol fare la Chiesa se non creare LA possibilità di dire ‘Padre nostro’, di parlare con il Signore? Voi avete dato a questo ascolto della Parola del Signore e a questa risposta la vostra esistenza per intero, senza riservare niente. Avete dimenticato tutto il resto per avere solo questa possibilità in tutta la sua intensità, nella sua misura maggiore. La Chiesa vede nelle anime contemplative quelle che realizzano questo suo programma, parzialmente si capisce, ma nella forma più alta”.

  Questa vita di ascolto e di comunione con l’Ospite divino nel piccolo cielo dell’anima è dunque ‘l’unica cosa necessaria’ alla quale dobbiamo attendere con tutte le nostre forze non solo per noi stesse ma anche per la Chiesa; nel suo cuore noi dobbiamo ‘essere l’Amore’, secondo la felice espressione di S. Teresa di Gesù Bambino.

  Benché tutta la giornata della claustrale debba svolgersi nell’unione e nel colloquio personale con Dio, tuttavia sono fissati due tempi della giornata per la meditazione: uno al mattino e uno alla sera. Sono due appuntamenti ordinati ad alimentare quel fuoco divino che nelle nostre anime non deve spegnersi mai. Questo tempo lo trascorriamo in Coro, alla presenza di Gesù eucaristico. Presenza che riempie il prezioso raccoglimento in cui siamo avvolte, aiutandoci a polarizzare la nostra attenzione su di Lui. Questo mistero attira particolarmente suor Elena: “La bontà infinita di Dio, ecco il tema preferito delle mie meditazioni! Guardo l’Altare… lì a pochi passi c’è Lui, Gesù, così palpitante di vita nella Sua Presenza sacramentale”.

  “Mi sento attirata dalla presenza di Gesù nel tabernacolo – confessa suor Daniela – e spesso occupo il tempo della meditazione restando fissa con lo sguardo su di Lui, con lo sguardo dell’anima fatto di silenziosa adorazione più che con lo sguardo degli occhi”.

  Alla presenza eucaristica di Gesù si unisce la sua presenza operante nella parola viva della S. Scrittura, alla quale, attraverso i vari momenti della giornata monastica, attingiamo abbondantemente; in primo luogo nella recita del breviario, tutto intessuto di Parola divina, poi nelle letture della Messa e nella “lectio divina” personale. Occorre solo l’umile e semplice disponibilità ad ascoltare per lasciarsi condurre in questo colloquio che lo Spirito Santo suscita nell’anima.

  Suor Paola afferma di trovare nella lettura attenta del racconto della Passione di Gesù il tema preferito delle sue meditazioni: “Mi attira la contemplazione dell’Umanità sofferente di Gesù; la descrizione della sua passione e morte mi offre lo spunto per mettere in più vivo contatto la mia anima col Salvatore e mi spinge ad esprimerGli il mio amore, la mia gratitudine. Traggo da questi incontri un aiuto grande per la giornata, quando mi trovo a tu per tu con la sofferenza, le piccole contraddizioni, quando giunge la prova interiore…allora quello che ho meditato diventa vita: Gesù che vuole continuare in me il suo mistero di redenzione”.

  Lo sguardo interiore dell’anima per diventare più luminoso e penetrante ha bisogno di essere purificato, per questo chi cammina nelle vie della preghiera si trova ad attraversare periodi in cui la presenza sensibile del Signore si sottrae. La fede si fortifica e soprattutto cresce la fiducia in Colui che ci conduce e ci medica per renderci più capaci di amare. A volte, però, Gesù chiede ai suoi intimi il sacrificio della privazione della sua presenza sensibile per offrire una gioia più pura: la gioia di donare questa consolazione agli altri.

  “Non di rado, nel tempo della meditazione – confessa umilmente suor Miriam – Gesù mi lascia al buio; questo mi fa soffrire e mi dà gioia allo stesso tempo. Una gioia simile a quella provata dalla Madonna quando accettava la privazione della vicinanza fisica di Gesù, durante la sua vita pubblica, perché tanti fratelli gustassero la gioia della sua Presenza”.

  “Anch’io penso spesso alla Vergine – soggiunge suor Cristina – e ricorro a Lei quando l’ansietà e la dissipazione, nonostante i miei sforzi per rimanere raccolta, mi impediscono di essere a completa disposizione del Signore. Allora depongo nel Cuore di Maria tutto quello che mi preoccupa. Più di una volta ho sperimentato, grazie al suo materno aiuto, la gioia di sentire la mia anima inondata di pace e di silenzio, libera di rimanere in ascolto non solo per il tempo della meditazione, ma anche durante il giorno”.

  Le prove del Signore e le difficoltà della nostra povera natura portata a disperdersi, non ci arrestano nel cammino della preghiera personale. Anzi ci sembra sempre poco quel che Gesù ci chiede per acquistare questo tesoro che ci fa iniziare nella fede quella vita di unione con Dio che formerà in cielo la nostra beatitudine.

  L’orazione è il mezzo indispensabile, che conduce a questa unione da cui dipende tutta la santità di vita che ognuno è chiamato a raggiungere. La vita cristiana infatti consiste in un rapporto intimo personale con Dio: “Questa orazione – scrive Santa Caterina da Siena a conferma di questa verità – è una madre che nella carità di Dio concepisce le virtù, e nella carità del prossimo le partorisce. Ove manifesti tu l’amore, la fede, la speranza, l’umiltà? Nell’orazione. Perché la cosa che tu non amassi non ti cureresti di cercarla; ma chi ama, sempre si vuole unire con quella cosa che ama, cioè con Dio” (Lettera alla nipote Eugenia).

SEPARATE… MA NON DIVISE: UNDICESIMO CAPITOLO

 

 

L’Angelo si fermò… tenendo in mano un turibolo d’oro

e gli fu data gran copia d’incenso.

E salì il fumo degli aromi dalla mano dell’Angelo al cospetto del Signore”.

Dalla Liturgia

  Il decreto del Concilio Vaticano II sulla Liturgia e la sua applicazione nella Istitutio Generalis dell’Ufficio divino, hanno posto in luce uno dei contenuti più belli del nostro Battesimo: partecipe del sacerdozio di Cristo, il battezzato diventa capace di fare della sua vita un atto di culto a Dio, che si attua non solo nell’offerta di se stesso in comunione con il Sacrificio di Gesù, ma anche nella partecipazione alla preghiera liturgica della Chiesa.

  «Quando mi appresso alla celebrazione della Liturgia delle Ore, – confida Suor Candida – avverto la grandezza del mio Battesimo, che mi ha offerto la possibilità di congiungermi a Gesù, di prestargli la mia piccola e povera persona, perché Egli continui ad esprimere sulla terra il suo amore, la sua lode, la sua adorazione e supplica al Padre».

  Infatti ‘in questo sta la dignità della preghiera cristiana, che partecipa dell’amore del Figlio Unigenito per il Padre e di quell’orazione, che Egli durante la sua vita terrena ha espresso con le sue parole e che ora, a nome e per la salvezza di tutto il genere umano, continua incessantemente in tutta la Chiesa e in tutti i suoi membri’ (IG 7).

  La Chiesa consapevole di questo preziosissimo dono, ricevuto dal suo Signore, chiama tutti i suoi figli a prenderne coscienza. Ma perché questa lode sia veramente incessante essa chiede ad alcuni suoi membri, come i Sacerdoti e i Religiosi, un impegno di fedeltà quotidiana alla preghiera liturgica. Ai Contemplativi soprattutto è richiesta la dedizione assidua al compito della lode. La Chiesa li privilegia del dono della solitudine, del silenzio, della vita comune, di un lavoro sereno e ordinato, perché essi possano dare alla celebrazione della Liturgia delle Ore sempre il primo posto: l’adesione profonda dello spirito per mettersi in sintonia con Cristo orante; il tempo indispensabile per santificare i momenti salienti della giornata; l’espressione del canto; la silenziosa meditazione e tutto quanto può rendere splendente e bella sopra ogni altra cosa la lode di Dio.

  Le nostre Costituzioni ci esortano a imitare S. Domenico come lui imitò Cristo e perpetuare quindi il suo spirito di orazione e il fervore: ‘Celebrava infatti con molta devozione tutto il divino Ufficio’. E soggiungono: ‘Elette all’ufficio della lode divina, le monache, insieme con Cristo, rendono gloria a Dio per l’eterno disegno della sua volontà e l’ammirabile dispensazione della sua grazia; supplicano il Padre delle misericordie per tutta la Chiesa e per la necessità e la salvezza di tutto l’universo … Perciò la solenne celebrazione della Liturgia costituisce il fulcro e l’anima di tutta la nostra vita e trova in essa il primo fondamento della sua unità’ (Cost. n. 80).

  Il luogo dove ci riuniamo per pregare è designato con il nome di Coro quasi a significare un atteggiamento che si ripete diverse volte al giorno: un coro di voci che si uniscono per lodare e invocare il Signore. La sua disposizione stessa, gli stalli che ospitano le monache, tutto è ordinato a raccogliere una comunità in preghiera. La presenza di Gesù in mezzo a noi al momento della celebrazione dell’Ufficio divino è quanto mai intensa non solo per la custodia dell’Eucarestia, ma anche per la sua promessa: ‘Quando due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro’ (Mt 18, 20).

  Il suono della campana scandisce l’orario monastico. Il suo primo richiamo nel mattino è per invitarci a iniziare la giornata lodando il Signore: ‘Svegliatevi arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora’ (Sl 56). Tutto il creato attende la voce dell’uomo che si fa suo interprete nella lode e nel ringraziamento davanti a Dio. È un andare incontro a Cristo Signore, cantando; il Risorto, di cui la creazione che si ridesta al nuovo giorno, dopo il sonno della notte, è uno smagliante segno.

  La celebrazione delle Lodi prepara al Sacrificio Eucaristico dove l’incontro con il Risorto diviene pieno ed efficace. È nella Messa che la Liturgia delle Ore trova il suo centro di irradiazione, poiché essa ‘estende alle diverse ore del giorno le prerogative del mistero Eucaristico: la lode e il rendimento di grazie, la memoria dei misteri della salvezza, le suppliche e la pregustazione della gloria celeste!’ (IG 12).

  Dopo la partecipazione della Messa, prima di iniziare il lavoro, si svolge la celebrazione dell’Ora Terza, con la bella invocazione allo Spirito Santo per tutta la Chiesa che ogni giorno chiede: ‘Si rinnovi il prodigio di quella Pentecoste che rivelò alle genti la luce del tuo regno’ (Inno di Terza).

  A mezzogiorno la Comunità si ritrova per cantare l’Ora di Sesta, con la quale chiediamo il dono della pace per tutta l’umanità immersa nella più frenetica attività. È l’ora in cui ‘sul Golgota, vero agnello pasquale, Cristo paga il riscatto per la nostra salvezza’ (Inno di Sesta).

  Alle tre pomeridiane, quando il giorno comincia a segnare la sua parabola discendente, le monache tengono viva la fiamma della loro lampada con il canto dell’Ora di Nona, l’ora in cui Gesù ha dato compimento alla sua grande immolazione sul legno della croce.

  All’imbrunire, la grande ora liturgica dei Vespri ci raccoglie nel Coro illuminato per cantare a Cristo che ha compiuto il Sacrificio vespertino con le mani distese sulla croce, e rendere grazie per ‘l’ammirabile disegno di salvezza’ che si è realizzato nell’oggi che sta per chiudersi.

  «Quel che mi attira nella celebrazione dei Vespri – asserisce suor Gina – è il cantico del Magnificat: il grazie di Maria al Signore, che Lei ha innalzato a nome di tutta l’umanità. Mi piace richiamare alla mente i benefici ricevuti durante la giornata e raccogliere insieme tutti quelli che la bontà divina ha effuso sulla Chiesa e fare della preghiera dei Vespri un prolungato inno di ringraziamento».

  La Liturgia delle Ore chiude il suo ciclo quotidiano di preghiera con la celebrazione di Compieta.

  Nella nostra famiglia domenicana, in cui l’Ufficio divino è considerato come principale fonte di contemplazione, anche Compieta ha un particolare risalto. Preceduta dall’esame di coscienza, viene celebrata in canto.

  Più che una preghiera che chiude il giorno, Compieta, è un grido d’amore quanto mai intenso; è una vigilante preparazione non tanto al riposo della notte, quanto al momento solenne della morte, al passaggio alla Liturgia della terra a quella del Cielo. «Quanti fratelli, in questa notte, saranno chiamati all’incontro finale con Dio? – si chiede spesso a compieta suor Licia – Prego fervidamente per loro, perché il Signore li accolga fra le braccia della sua misericordia».

  A conclusione di Compieta si intona il canto dell’antifona Salve Regina, che si svolge processionalmente.

  Con la benedizione di Maria, impartita dalla monaca che presiede la preghiera liturgica, ogni voce si spegne per lasciar parlare nel silenzio solo il cuore, che offre a Gesù Eucaristico il suo saluto che non è un addio, ma un arrivederci. Le monache portano nel segreto della loro cella il balsamo attinto nella celebrazione liturgica; poche ore di riposo in vista dell’appuntamento a mezzanotte.

  L’attesa vigilante del ritorno del Signore è uno dei contenuti della liturgia che trova una delle sue più significative espressioni nella celebrazione dell’Ufficio delle Letture, accompagnato dai cantici vigiliari, nel cuore della notte. È proprio dei contemplativi testimoniare nella Chiesa questa dimensione di vigilanza.

  Nel nostro Ordine è tenuta in grande onore la preghiera notturna, tanto cara a S. Domenico, il quale – come testimoniano i suoi contemporanei – ‘aveva l’abitudine di trascorrere la notte in preghiera’.

  «Ogni volta che mi viene affidato il compito di svegliare le Sorelle per l’alzata notturna – afferma con entusiasmo suor Alberta – mi sembra di dire con il mio bussare, alla porta di ogni sorella: ‘Ecco lo Sposo che viene, andiamogli incontro!’ (Mt 25,6)».

  Suor Teresa è particolarmente compresa del momento in cui tanti fratelli vivono nella notte: «Rivedo le città avvolte nel buio, mentre molti dormono, altri vegliano nelle loro case o negli ospedali soffrendo, altri ancora, i più infelici, staranno approfittando delle tenebre per consumare delitti premeditati, il mio salmodiare diventa un’ardente implorazione per tutti».

Vieni Consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo…

Sopraggiunse il fuoco divino, che non brucia ma illumina,

che non consuma ma risplende:

trovò i cuori dei discepoli come vasi mondi *

e infuse loro i doni dei carismi.

Li trovò concordi nella carità e li illuminò inondandoli di grazia divina.

E infuse loro i doni dei carismi.

  Il Cristo che ha ricevuto lo Spirito senza misura, elargì doni agli uomini, e non cessa di donare: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto» (Gv 1,6) e «nulla si sottrae al suo calore» (Sal 18, 7). Egli «ha un fuoco in Sion e una fornace in Gerusalemme» (Is 31, 9). Questo è il fuoco che Cristo è venuto a portare sulla terra, e che apparve sopra gli apostoli in lingue di fuoco, affinché lingue di fuoco predicassero una legge di fuoco. Di questo fuoco Geremia dice: «Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa» (Ger 20,9).

  In Cristo lo Spirito Santo abitò pienamente e sensibilmente; egli poi effuse su tutti parte del suo Spirito, per cui «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1 Cor 12, 7). E aggiunge: Vi sono diversità di carismi e diversità di ministeri e di operazioni, ma uno solo è lo Spirito (cfr. 1 Cor 12, 4-6). Per queste differenti effusioni di carismi, lo Spirito Santo viene chiamato ora fuoco, ora olio, ora vino, ora acqua. Fuoco perché infiamma di amore e una volta acceso non cessa di ardere, cioè di amare ardentemente: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12, 49).

  Lo Spirito Santo è olio a motivo di diverse proprietà. Fa parte della natura dell’olio, infatti, il rimanere a galla su tutti gli altri liquidi; così la grazia dello Spirito Santo, che con l’abbondanza della sua bontà supera i meriti e i desideri di quanti lo pregano, è più preziosa di tutti i doni e di tutti i beni. L’olio è anche medicina perché calma i dolori; così lo Spirito Santo è veramente olio perché è il consolatore. Inoltre, per sua natura, l’olio non si amalgama con niente; così lo Spirito Santo è sorgente purissima cui non si può unire niente di estraneo.

  Comprendiamo quindi perché lo Spirito Santo sia designato ora come fuoco, ora come olio. Due volte esso fu dato agli apostoli: prima della passione e dopo la risurrezione. Osserva quanto sia grande in essi la fonte dell’ardore: non basta versare olio se non è riscaldato, e non basta avvicinare il fuoco se non si alimenta con l’olio. Ardenti di questo fuoco, gli apostoli «se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati» (At 5,41). Questo poi è il linguaggio del principe degli apostoli: Se anche dovete soffrire per il Cristo, beati voi (cf 1 Pt 3,14). «A voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui» (Fil 1, 29).

  Lo Spirito Santo è «il vino che allieta il cuore dell’uomo» (Sl 103,15) e non si versa in otri vecchi. Lo Spirito Santo è acqua: «Chi ha sete – esclama il Signore – venga a me e beva» (Gv 7,37). Lo Spirito Santo è più dolce del miele: preghiamolo dunque in spirito di umiltà, perché effonda nei nostri cuori una rugiada di benedizione, uno stillicidio di doni spirituali, e un’abbondante pioggia di grazia per purificare le nostre coscienze; infonda l’olio della letizia e il fuoco del suo amore nei nostri cuori, cioè Gesù Cristo, che il Padre consacrò e nel quale infuse la pienezza della consacrazione e della benedizione, perché a questa pienezza potessimo attingere. A lui onore e gloria per tutti i secoli. Amen.

Dai “Discorsi” di Pietro di Blois, sacerdote

Immagine: Beato Angelico, Pentecoste, Armadio degli argenti, Firenze, Museo di S. Marco.

SEPARATE… MA NON DIVISE: DECIMO CAPITOLO

La celebrazione della Messa Conventuale sia il centro della Comunità.

Infatti il memoriale della morte e della Risurrezione del Signore

è il vincolo della carità fraterna e la fonte prima dell’ardore apostolico”.

Dalle Costituzioni delle Monache dell’Ordine dei Predicatori

  Tanti, fermandosi pensosi davanti all’edificio silenzioso e impenetrabile del Monastero, forse si chiedono: come si svolgerà la vita fra quelle mura? O meglio: quali motivi sostengono la vita quotidiana delle creature che lì si sono volontariamente richiuse, per spendervi un’intera esistenza?

  Il Concilio Vaticano II, prima di iniziare a trattare sulla vita della Chiesa in mezzo agli uomini, ha sentito il bisogno di fissare lo sguardo sulla fonte della vita, Dio, e l’ha trovato vivente e operante nella Liturgia. Riconoscendo nell’azione sempre attuale di Gesù, Eterno Sacerdote, il punto di partenza e il termine a cui converge ogni realtà umana e divina, ha offerto a tutta la Chiesa cattolica uno dei suoi più belli e ricchi documenti: Sacrosantum Concilium (cf.).

  Ebbene, innanzitutto noi pur così nascoste e sconosciute, sentiamo di appartenere alla Chiesa, anzi essa ci ha indicato il nostro posto nella vita del Corpo Mistico: nel suo Cuore. Viene di logica conseguenza che la liturgia è la realtà che sostiene tutta la vita contemplativa.

  È la liturgia che, allo spuntare del giorno, con la celebrazione della Messa ci offre l’Eterno Sacerdote Gesù nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione, il quale come Sole vivo s’innalza sulla nostra giornata per illuminarla e vivificarla.

  Tutta la nostra vita di religiose votate alla contemplazione nella preghiera e nella silenziosa immolazione trova la sua ragion d’essere, la sua fecondità apostolica nel mistero che ogni giorno si rinnova sull’Altare. La Chiesa ha confermato questo nostro vitale inserimento nel mistero pasquale in una sua Istruzione dedicata alle claustrali: «Il ritirarsi dal mondo per dedicarsi nella solitudine ad una vita di più intensa preghiera non è altro che una maniera particolare di vivere ed esprimere il mistero pasquale di Cristo, che è una morte per la risurrezione» (VS, 1). Queste ultime parole rivelano il segreto della nostra gioia: la certezza cioè che il nostro ‘morire quotidiano’ sostenuto da Gesù e associato alla sua Passione è fonte di pienezza di vita divina per le nostre anime e insieme causa di risurrezione per tanti fratelli che vivono nelle tenebre del peccato.

  “Come Io con le mani distese e con il Corpo ignudo sulla croce offersi spontaneamente me stesso a Dio Padre per la divina riconciliazione, così anche tu” (Imit. 4,8). «Le ripeto spesso queste parole, dichiara Suor Teresa, le richiamo alla mente e al cuore prima della Messa in modo da dispormi ad offrire tutto. Come ha fatto Lui ‘fino alla morte’ e come ho promesso nel giorno della Professione». È necessario infatti accettare di morire fino in fondo a tutto ciò che è peccato ed egoismo per partecipare alla sua vita di Risorto.

  «Ogni volta che ‘muoio’ durante il giorno – soggiunge Suor Beatrice – sperimento il fluire più intenso della Vita in me stessa; mi vedo come un piccolo canale sotterraneo che trasmette, nel nascondimento, la vita divina nella Chiesa. La Messa mi dà le dimensioni della mia vocazione claustrale: simile al chicco di grano che muore, per produrre una spiga di salvezza per innumerevoli fratelli».

  La presenza di Maria, la Madre dell’Eterno Sacerdote, è particolarmente sentita al momento della Messa, sia per la partecipazione viva che essa ebbe al mistero del Calvario, sia per il desiderio di venire aiutate da Lei ad attingere al massimo i benefici della redenzione. «Mi chiedo spesso – rivela Suor Albina –: Se la Madonna fosse al mio posto chissà con quanto amore parteciperebbe alla Messa! Così quasi sempre mi trovo unita a Lei, come alla creatura più consapevole del mistero d’amore che si sta per celebrare. Convinta che Gesù continua ad annunciarmi la sua Parola, ascolto con attenzione le letture della S. Scrittura, chiedendo a Maria di aiutarmi a conservare in cuore tutte le cose che ho udito, per meditarle durante il giorno. Al momento della consacrazione mi trovo accanto alla Croce con Lei, adorando il mistero di Gesù che morendo ci dona la gioia di risorgere con Lui per vivere come figlia di Dio».

  Mentre la celebrazione Eucaristica assorbe il nostro spirito in Cristo, essa ci fa sperimentare profondamente il legame che ci unisce tra noi e con tutta la Chiesa. «Un solo battesimo, una sola vocazione, una sola Professione religiosa, quindi una sola offerta: sono queste – afferma Suor Elide – le realtà che mi portano ad immergere la mia comunità nel Calice durante l’elevazione. Qui, riunite insieme, sento come non mai che formiamo una piccola rappresentanza della grande Chiesa».

  Tutto nella celebrazione Eucaristica è ordinato all’incontro sacramentalmente vivo con Gesù. La Messa non è solo la ritualizzazione del Sacrificio di Cristo, ma anche la Cena del Signore in cui l’Agnello immolato si fa nostro pane, nostro cibo. Gesù si dona a noi ogni giorno per realizzare, con un tocco tutto singolare per ciascuna, il suo programma di amore.

  La Comunione diventa con Gesù che ‘dimora in noi’ un incontro anche con i fratelli perché essi sono figli dello stesso Padre e membra vive del Corpo Mistico di Cristo. È alla mensa comune che il Padre fa di noi monache riunite insieme una comunità di sorelle, e ci dice che quello che realmente siamo ai suoi occhi per il mistero di redenzione operato da Gesù: figlie nel Figlio, come tralci di un’unica vite che traggono vita da una medesima linfa che li vivifica.

  Dalla comunione eucaristica attingiamo l’amore soprannaturale che ci rende forti e generose nel rinnegare ogni egoismo che ci può ostacolare l’esercizio della carità fraterna. Infatti, solo camminando nell’amore scambievole, possiamo avere la consolante certezza ‘di essere passate dalla morte alla vita’ (1 Gv 3,14). Solo unite nella carità ci è dato di rispondere pienamente alla missione che la Chiesa ci ha affidato, cioè di tenere accesa la fiamma dell’amore nel Cuore del Corpo Mistico. Con l’adesione comunitaria al programma che la nostra Regola monastica quotidianamente ci propone da svolgere, la nostra giornata monastica diviene una S. Messa!

  ‘La Messa è finita andate in pace’, dice il Celebrante. Sì, la Messa all’Altare è terminata, ma Gesù è entrato in ciascuna di noi per continuarla, per fare della nostra comunità una comunione di anime che concelebrano lo stesso S. Sacrificio durante le ordinarie occupazioni della giornata. I nostri servizi, simili nella loro semplicità alle povere sostanze del pane e del vino che vengono presentate al Padre al momento dell’offertorio, divengono materie preziose per Dio e la sua Chiesa. La nostra umile esistenza vivificata dallo spirito d’Amore diventa in tal modo ‘un perenne sacrificio, un’offerta viva in Cristo a lode della gloria del Padre’ (IV Pregh. Euc.).

SEPARATE… MA NON DIVISE: NONO CAPITOLO

…ti farò mia sposa per sempre:

nell’amore e nella misericordia,

ti farò mia sposa fedele”.

(Os 2, 21-22)

  ‘Vennero le nozze dell’Agnello ed egli preparò la sua Sposa’ (Ap 19, 7). Sì, veramente Gesù ha preparato la novizia per il giorno della sua Professione Solenne (definitiva) con cui la unisce per sempre a sé con i voti di castità, povertà e obbedienza, come uno Sposo prepara la Sposa per il giorno delle nozze.

  Una preparazione che Egli ha iniziato nella profondità dell’anima da tempo, dal giorno del battesimo quando, innestando quel piccolo tralcio in sé, Vite divina, già ne preparava lo sviluppo e i frutti. Allora l’anima non se ne poteva rendere conto. La consapevolezza si ha con la chiamata, e si fa più consistente quando, dopo l’entrata in monastero, con la Prima Professione (temporanea), si apre un periodo di intensa formazione. La novizia, illuminata dalla luce dello Spirito Santo, in questo tempo, non solo può rendersi conto dell’importanza dei consigli evangelici che formeranno il programma di tutta la sua vita, ma può arricchire il suo ‘sì’ di una carica più intensa d’amore perché temprato dalla prova.

  ‘Tutta la vita (dei religiosi) è posta al servizio di Dio, e ciò costituisce una speciale consacrazione che ha le sue profonde radici nella consacrazione battesimale e ne è un’espressione più perfetta’ (Decr. Perfectae caritatis, n. 5).

  Questa verità che il Concilio ha messo in luce dona alla Professione religiosa il suo valore più alto e più vitale.

  È il battesimo infatti, che operando la nostra morte al peccato, ci ha fatto risorgere per vivere con Cristo, configurati a Lui nel condurre una autentica vita di figli di Dio. La vita religiosa, caratterizzata dall’impegno specifico di abbracciare i consigli evangelici, ci dona la gioia di seguire Gesù più da vicino, di rivestirci di Lui al punto che Egli si stabilisce in noi per continuare ad essere il Religioso del Padre: vergine e casto, perché il Padre è il suo unico amore; povero, perché ha scelto il Padre come sua unica porzione; obbediente, perché la volontà del Padre è il respiro e l’alimento di tutta la sua Anima.

  In tal modo fare Professione religiosa è accettare di vivere il battesimo in pienezza; realtà che invece di farci sentire estranee ai nostri fratelli, che non hanno ricevuto questa speciale chiamata, ce li fa sentire uniti nell’unico cammino che conduce alla piena conformazione a Cristo. Se c’è una differenza, essa è dovuta alla liberalità divina che eleggendoci ci ha affidato il compito di servire i nostri fratelli; nel nostro caso, come contemplative, di servirli con una vita di intensa comunione con Cristo, pregato per attirare su di loro la grazia di essere membra vive e operanti dell’unico Corpo Mistico.

  Suor Leandra così esprime questa verità: «Vedo la mia Professione religiosa come il dono di consacrazione a Dio ricevuto nel battesimo portato alla sua massima espressione; mi dona la gioia grande di vivere nel cuore del mistero della Chiesa, e mi fa sentire solidale con tutti i fratelli».

  «Alla vigilia della mia Professione – racconta suor Giulia – cioè della mia consacrazione definitiva, mi è stato chiesto se avessi pensato bene alla gravità dell’impegno che stavo per assumere: stare legata a Gesù per sempre coi voti, con la determinazione di rimanere in clausura per tutta la vita. Beh – risposi con semplicità, e forse con un po’ di ingenuità, – forse che una ragazza che si sposa non si lega per sempre e irrevocabilmente ad un uomo?… E non deve seguirlo ovunque egli andrà? Quando c’è l’amore, questo non è un problema. Io amo Gesù e desidero stare nella Sua casa».

  Suor Marietta non nasconde il suo pensiero; attendeva il giorno della Professione come la celebrazione delle sue nozze. «Domani sarò tua sposa per sempre: questo – essa dice – è stato l’ultimo saluto a Gesù prima di addormentarmi. L’indomani, accompagnata spiritualmente dalla Madonna alla quale avevo affidato l’incarico di prepararmi alle ‘nozze dell’Agnello’, pronunciai con tutta serenità il mio ‘prometto obbedienza’, guardando con gioia il volto della Madre Priora, che accoglieva la mia Professione con le mie mani tra le sue. Ero certa che Lui era là, al posto della Madre. ‘Sono un Dio nascosto’, sembrava ripetermi Gesù; dammi la gioia di scoprirti sempre! Gli risposi con una silenziosa preghiera».

  Maria è la dolce Madre che ci ha sostenute nella fedeltà a rispondere all’invito divino, e che ci ha attirate a sé col suo esempio e la sua continua intercessione, affinché i lineamenti di suo Figlio si riproducessero efficacemente nella nostra vita. Man mano che si approssimava il giorno della nostra Professione, abbiamo sentito il bisogno di stringere ancor più i nastri rapporti filiali con Lei, perché il nostro sì riflettesse la fedeltà e la generosità del suo fiat‘.

  La formula di Professione viene pronunciata durante la celebrazione della S. Messa, al momento dell’offertorio: questo è molto significativo. La monaca inserisce la propria immolazione in quella di Cristo: la Professione, infatti, è un’oblazione, un olocausto, il cui valore di glorificazione del Padre e di redenzione delle anime deriva dalla sua unione all’offerta di Cristo compiuta sul Calvario e perennemente rinnovata nel sacrifico della Messa.

  Questa unione a Cristo nel suo mistero pasquale di morte e di risurrezione è la realtà viva che sostiene ogni religiosa nella pratica dei consigli evangelici. Unita a Lui e da Lui sorretta abbraccia con fiducia e con gioia i sacrifici e le rinunce che i voti comportano, avanzando in tal modo nella conformazione alla Sua crocifissione e morte, nella speranza di essere un giorno partecipi della Sua risurrezione.

  Già da ora si realizza attraverso la pratica dei voti questo aspetto di morte e di vita proprio del mistero pasquale, riattuato ogni giorno nella celebrazione eucaristica .

  Il voto di castità, mentre ci fa sperimentare le purificazioni del cuore, ci permette di penetrare più profondamente nei misteri d’amore racchiusi nel Cuore dello Sposo divino, ci dona la consapevolezza di svolgere una maternità spirituale delle anime non meno bella ed esaltante di quella naturale. Il voto di povertà, se da una parte ci chiede un continuo distacco da tutto, dall’altra ci offre la consolante prospettiva di possedere sempre più il Signore come ‘unica cosa necessaria’ e di richiamare nel segreto, con la nostra silenziosa testimonianza, tanti fratelli che si attaccano ciecamente ai beni della terra. Il voto di obbedienza mette in croce il nostro egoismo con tutte le sue disordinate attrattive; se chiede i sacrifici più grandi dona in cambio la gioia più piena: camminiamo nella libertà dei figli di Dio, perché per mezzo della sottomissione alla sua volontà, manifestata dalle Regole e dai superiori, come Gesù facciamo ‘sempre quello che piace al Padre’.

  Per la pratica dei consigli evangelici tutta la nostra vita diventa l’annuncio della morte del Signore, la proclamazione della sua risurrezione nell’attesa della sua venuta.

Dalle Costituzioni delle Monache dell’Ordine dei Predicatori:

L’obbedienza con cui ‘ci innalziamo interiormente al di sopra di noi stessi’ è utilissima per acquistare la libertà interiore propria dei figli di Dio e ci dispone a donarci con carità.

Rinunciando a nozze terrene ma amando ciò che in esse è prefigurato, seguiamo l’Agnello che ci ha redento con il suo sangue, in maniera che con la nostra oblazione diventiamo sue collaboratrici nell’opera della rigenerazione degli uomini.

Noi abbiamo deciso di essere povere nello spirito e nella realtà, cooperando in tal modo al ministero dei nostri fratelli che si sforzano di strappare gli uomini dalla schiavitù delle ricchezze per volgerli all’amore dei beni celesti”.