Terzo giorno in Terra Santa, mercoledì 29 ottobre, per i vescovi Lombardi, e tra loro il vescovo di Cremona mons. Antonio Napolioni. A caratterizzare la giornata, dopo una tappa al villaggio di Taybeh, la preghiera nel pomeriggio nella Basilica del Getzemani, un momento che le comunità parrocchiali di tutta la Lombardia sono state invitate a vivere in comunione con i propri pastori.
Il testo della preghiera al Getsemani
Martedì 28 ottobre, invece, la prima tappa era stata nel Deserto di Giuda, nel villaggio dei beduini di Jahalin, in Cisgiordania, a poche centinaia di metri in linea d’aria da Betania. L’occasione per l’incontro con le Suore Comboniane, il cui operato guarda in ai bambini più piccoli, dai 3 ai 5 anni, e le donne, come hanno raccontato suor Lourdes Garcia e suor Cecilia Sierra (presenti in loco con altri cinque consorelle), entrambe di origine messicana, che hanno accolto i vescovi lombardi in perfetto italiano, insieme al capo del villaggio, Jihan Frenhat. Una testimonianza mossa dalla passione per questa realtà destinata a scomparire secondo i progetti di sviluppo dell’insediamento che sovrasta la collina. Con il progetto «Fili di Pace» offrono un filo di speranza garantendo alle donne corsi di formazione: insegnano inglese, ebraico, qualche nozione di pronto soccorso, la fabbricazione del sapone con latte di capra e olio d’oliva, e soprattutto a cucire e a ricamare, per tenere viva la tradizione del ricamo palestinese, riconosciuto come patrimonio dell’umanità.
Nel loro “laboratorio” ciascuna ha mostrato la propria creazione: borse, tovaglie, astucci, scialli e le preziose saponette. Hanno offerto tè e caffè, regalando sorrisi e sguardi intensi. «Qui – spiegano le suore – un tempo si riunivano solo gli uomini, oggi sono le donne a occupare questo ambiente durante il giorno, per il loro lavoro, mentre gli uomini vengono la sera. E i beduini sono orgogliosi delle loro mogli e figlie; questo è l’unico villaggio in cui consentono a una comitiva di uomini di restare in compagnia delle loro donne».
Non è mancata una sosta all’asilo con i più piccoli, l’altra faccia dell’opera delle suore. Sono stati proprio i beduini a chiederci la scuola, come via di riscatto per i loro bambini. Una di loro è la moglie del capo villaggio, Ahmad Frehnat, e parla con grande orgoglio del proprio lavoro: «Questo asilo è l’unica possibilità per questi bambini di avere una prima istruzione e poter iniziare la scuola quando avranno 6 anni».
E i bambini sono stati protagonisti anche degli incontri del pomeriggio di martedì 28 ottobre.
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Anzitutto i piccoli dell’Istituto Effatà, a Betlemme, uno dei lasciti più belli del celebre viaggio nel 1964 di Paolo VI, che volle fortemente quest’opera pensata per i bambini audiolesi, una problematica particolarmente diffusa in questa zona per motivi genetici. Erano soprattutto femmine quelle che hanno accolto i vescovi, incantati davanti a canti e balli ritmati alla perfezione, nonostante tutte abbiano problemi di udito e alcune di loro siano quasi completamente sorde. Ad accompagnare un percorso che è insieme di istruzione e di riabilitazione sono alcune suore Dorotee. Il racconto della superiora, italiana, è fatto di luci e ombre. Il conflitto che dura da quasi 80 anni e la nuova fase di crisi iniziata dopo il 7 ottobre non possono non farsi sentire: “Avevamo oltre 200 studenti – ha spiegato la superiora, madre Carmela, italiana – che ora sono molto diminuiti. Le difficoltà di movimento dai territori della Cisgiordania sono diventate troppo grandi, così come troppi, per una popolazione sempre più povera, sono i 600 euro all’anno che chiediamo come retta, una cifra che peraltro non copre certo le nostre spese”.
Bambini, loro malgrado, erano anche le vittime dei due gesti di violenza che ne hanno interrotto precocemente le vite. Un dolore atroce che ha portato però due padri a incrociare le loro strade, nel segno della riconciliazione. È la storia toccante che i vescovi hanno potuto ascoltare nel pomeriggio, sempre a Betlemme, dopo avere concelebrato la Messa nella Basilica della Natività, presieduta dall’arcivescovo di Milano e Metropolita di Lombardia, mons. Mario Delpini, e dove non è mancata una visita alle grotte di Santa Caterina dove è conservata la memoria di San Girolamo e del suo discepolo, Eusebio da Cremona.
Rami, 76 anni, ebreo che vive a Gerusalemme da sette generazioni, ha accanto Bassam, palestinese ma no dei suoi amici più cari. «Ciò che ci rende così vicini – ha raccontato – è il fatto che abbiamo pagato lo stesso prezzo a una violenza insensata». Rami ha perso la figlia 14enne in un attentato terroristico palestinese: “Si chiamava Smadar (che significa grappolo d’uva), era vivace, una studentessa eccellente, suonava il pianoforte. C’è voluto tempo ma poi ho iniziato a chiedermi che cosa potevo fare dell’odio che sentivo dentro. La prima risposta è la vendetta, è la scelta che fanno in molti. Ma poi capisci che il potere del dolore è più forte dell’energia nucleare. Puoi usarla per portare altro dolore o per portare pace. Con l’associazione dei Parents Circle incontriamo ragazzi israeliani e palestinesi e diciamo loro che il nostro sangue ha lo stesso colore, le nostre lacrime sono amare allo stesso modo, il nostro dolore è lo stesso».
Lo stesso dolore di Bassam, che ha passato sette anni nelle carceri israeliane e ha sempre visto gli ebrei come un nemico da studiare così da sconfiggerlo meglio: «Per questo – ha detto –a un certo punto della mia vita mi sono messo a leggere cose sulla Shoah, convinto che fosse un’invenzione. Da lì qualcosa è cambiato, ho iniziato a frequentare ebrei che si opponevano all’occupazione israeliana e ho incontrato i Parents Circle senza immaginare che un giorno ne avrei fatto parte anch’io». In un giorno del 2007 la figlia Bassam, 10 anni, è stata uccisa appena uscita da scuola da un soldato israeliano. «Per provare a salvarla è stata portata nello stesso ospedale in cui è morta la figlia di Rami, alcuni anni prima. Ci conoscevamo già, ma da quel giorno abbiamo cominciato a frequentarci di più e a portare insieme la nostra testimonianza: se noi possiamo chiamarci fratelli chiunque lo può fare».









































