Una festa dedicata a quella moltitudine immensa del popolo di santi, conosciuti e perlopiù nascosti, presenti nelle pieghe della vita di ciascuno di noi. Una celebrazione che «ci fa guardare quella Terra Santa che ci aspetta, qui e in ogni parte del mondo, e lassù»; quella terra promessa che «tanti uomini e donne, in modo concreto hanno creduto e praticato testimoniando il Vangelo». Così il vescovo Antonio Napolioni nella Messa della solennità di Tutti i Santi presieduta nella mattinata di sabato 1 novembre in Cattedrale. Liturgia che è stata concelebrata dai canonici de+l Capitolo della Cattedrale insieme al rettore don Gianluca Gaiardi e al vicario episcopale per la Pastorale don Antonio Bandirali.
Proprio la terra è il sostantivo chiave della liturgia eucaristica e dell’omelia del vescovo. Quella della realtà che viviamo nella quotidianità «chiamati ad abitarla e santificarla come i santi, quelle creature umane che Dio ha voluto come i migliori rappresentanti del suo amore». Quella terra che si interseca con le vicende umane della storia e del presente, «come quella benedetta dalla rivelazione del Signore» e oggi afflitta dalla faticosa tregua tra Israele e Palestina, che monsignor Napolioni ha visitato di recente con gli altri vescovi della Lombardia.
Quella patria nel cielo, «quella patria comune», verso la quale, come pellegrini, affrettiamo il passo speranzosi sul cammino. A volte «come una carovana litigiosa», eppure in viaggio su quel solco tracciato dai santi, a volte come le parole chiave del Giubileo 2025 che tornano nelle letture del giorno. «Del Salmo – la sottolineatura del vescovo – abbiamo detto: “Del Signore è la terra e quanto contiene il mondo con i suoi abitanti”. E noi ci industriamo a moltiplicare le bandiere, a erigere muri, a schierare eserciti, fili spinati, come se la terra debba essere mia e mai nostra. Ma è del Signore. E allora come è importante diventare santi, abitando la terra con le nostre diversità riconciliate accolte». I santi di ieri e oggi, come alcune delle persone incontrate dal vescovo durante la breve visita in Terra Santa e condivise con i l’assemblea dei fedeli in chiesa.
Come i padri Rami e Bassan, uno israeliano l’altro palestinese, entrambi genitori che hanno visto morire le proprie figlie nel corso di anni di sanguinose guerre: «insieme hanno unito le loro lacrime, hanno scoperto che il sangue delle loro figlie è lo stesso. E lo raccontano perché ci si converta non più alla violenza, ma al dialogo». O le figure di suor Cecilia e suor Lourdes, le missionarie comboniane messicane «che con un sorriso straordinario si prendono cura delle donne beduine e dei loro bambini nel deserto, tra le capanne, ignorando i giorni che li separano dal momento in cui arriveranno delle ruspe».
La festa di Ognissanti «sprigiona una infinita bellezza», perché offre «ragioni di speranza e di consolazione. Perché tanti uomini e donne hanno compiuto il loro viaggio terreno assecondando la volontà di Dio. Come il palestinese nell’unico villaggio cristiano della Cisgiordania a dare lavoro ai giovani affinché non lascino quella terra. O come don Benedetto, un giovane prete napoletano, che nella città nuova di Gerusalemme guida la piccola comunità cattolica di cultura ebraica. «Sono segni di riconciliazione, di dialogo, di speranza, che non possono essere affrettati, non possono essere forzati, ma sono davanti a noi come l’unico cammino da compiere».
E allora non resta altro da fare come cristiani, sostiene il vescovo, «di metterci in cammino verso la Terra Santa accogliendo i santi di ieri, di oggi e di domani come amici e modelli di vita», come nel brano delle Beatitudini del Vangelo.
Infine una domanda: «Io con chi sto camminando, chi sto seguendo ora? A quale santo mi affido per essere trasformato nel profondo del cuore e guardare la realtà con occhi di fede, di speranza e con gesti di amore?»




