Il vescovo Antonio al clero bresciano: «Non è bene che il prete sia solo!»

Mercoledì 7 settembre, nella cattedrale della città lombarda, mons. Napolioni ha presieduto la celebrazione penitenziale nella giornata dedicata al Giubileo dei sacerdoti

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Mercoledì 7 settembre il vescovo Napolioni ha presieduto, nella Cattedrale di Brescia, una celebrazione penitenziale in occasione del Giubileo del clero bresciano. Alle 9.30 il presule ha dettato la meditazione dal titolo «Evangelii Gaudium: una provocazione alla nostra pastorale», quindi alle 11.15 c’è stato il passaggio dei presbiteri per la porta della Misericordia e a seguire la concelebrazione Eucaristica nel corso della quale sono stati ricordati il 70° di ordinazione sacerdotale di mons. Bruno Foresti, vescovo di Brescia dal 1983 al 1998, e il 30° di ordinazione episcopale di mons. Vigilio Mario Olmi, vescovo ausiliare dal 1986 al 2003 e primo collaboratore dello stesso mons. Foresti e del suo successore Giulio Sanguineti.

Mons. Napolioni ha offerto ai sacerdoti presenti un vero e proprio esame di coscienza a partire da alcune pagine bibliche – soprattutto il discorso di congedo di Paolo ai presbiteri di Efeso tratto dagli Atti degli Apostoli – e dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium di Papa Francesco senza tralasciare altri documenti magisteriali e interventi di Pontefici come Paolo VI e Benedetto XVI.

Il Vescovo ha esordito ricordando che la «carità pastorale, cuore della nostra identità e missione, è una meta, non si improvvisa, nè può darsi per scontata. È un principio dinamico, di cui sperimentare la concretezza esistenziale, coi suoi momenti fecondi e coi suoi drammatici ingorghi e cadute. Ce lo dice la gente, con il suo modo di considerarci, spesso di criticarci, eppure di volerci ancora…».

Insistendo sul prete come «testimone e ministro della misericordia di Dio» mons. Napolioni ha ricordato che il fondamento teologico dell’impeto missionario sta «nell’iniziativa d’amore di Dio, nella teologia della grazia preveniente, gratis data, perennemente all’opera nella natura e nella storia, negli uomini e nelle comunità». Da qui la domanda della fede: «l’essere credenti ci rende capaci di adattamento e cambiamento, in una relazione aperta con la differenza, che altrimenti ci infastidisce o ci fa paura».

Il presule ha poi stigmatizzato alcune tentazioni della vita del prete come il funzionalismo o la superficialità spirituale frutto di un quotidiano grigio o schiacciato dalla sconfitta: «La conformazione a Cristo pastore richiede un viaggio alle proprie profondità umane, affettive, spirituali».

Decisivo è il contatto reale con la gente, in una pastorale «che non privilegia l’organizzazione rispetto alle persone, che non si ammala per l’ansia di arrivare a risultati immediati. Una pastorale ben fatta, perchè umile e fiduciosa, “fa bene al pastore”! Fare il bene per amore del bene, non per altre convenienze».

Quel senso di smarrimento e sconfitta di cui soffre la Chiesa d’Occidente può e deve essere superato dalla gioia del credere come affermava Benedetto XVI e dalla “mistica” del vivere insieme, «di mescolarci, incontrarci, prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio». Un’esperienza costante di «corpo a corpo» tra preti e con i fedeli che allontana da quei sottoprodotti umani quale la gelosia e la calunnia, la divisione e la violenza che ostacolano la corsa del Vangelo.

Riprendendo l’invito di papa Francesco nell’Evangelii Gaudium di essere “Evangelizzatori con Spirito” mons. Napolioni ha ricordato tre urgenze: anzitutto l’incontro personale con l’amore di Gesù che salva, poi il gusto spirituale di rimanere vicino alla vita della gente fino ad arrivare a toccare la miseria umana e infine sapere abbracciare anche l’esperienza del fallimento «imparando a riposare nella tenerezza delle braccia del Padre in mezzo alla nostra dedizione creativa e generosa».

Quindi, dopo aver ribadito l’attualità e centralità della parrocchia – «famiglia di famiglie» -, il presule ha ricordato la necessità di un rapporto corretto e dinamico tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune, in particolare tra preti e sposi.

«Non è bene che il prete sia solo – ha concluso -, esistenzialmente e pastoralmente, e tanto meno che debba avere “la sintesi dei carismi e dei ministeri”. Credere nel valore del discernimento comunitario è veramente necessario e fruttuoso: trovarsi insieme a leggere la Parola e i segni dei tempi non può essere esercizio episodico in qualche occasione straordinaria, ma stile abituale di affronto della realtà».

Leggi la meditazione integrale del vescovo Antonio

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