Sabato 15 aprile il patriarca di Antiochia dei Siri, sua beatitudine Ignace Youssef III Younan, ha fatto tappa a Cremona incontrando in un’udienza privata il vescovo Antonio Napolioni.
Nell’occasione abbiamo incontrato il patriarca, residente in Libano, per un’intervista in cui gli abbiamo chiesto di raccontarci la situazione dei luoghi in cui vive e presta il proprio ministero.
Una delle sfide più grandi è quella del rimanere. Da anni il Medio Oriente (Siria e Iraq in particolare) si stanno svuotando della presenza cristiana. Come aiutare famiglie e giovani a rimanere nonostante le difficoltà?
«È vero che in Siria e in Iraq come anche in Libano i cristiani devono affrontare una sfida molto grave, quella di rimanere radicati alla terra degli antenati, terra del vicino Oriente, terra del Vangelo, luogo d’origine di discepoli apostoli. Noi è da 2000 anni che siamo lì e cerchiamo di aiutare le famiglie da un punto di vista sociale ed economico, cerchiamo sempre di rispondere ai bisogni di coloro che sono in difficoltà economiche, specialmente adesso in Siria e in Libano. In Iraq la situazione si sta stabilizzando ma rimane la tendenza a lasciare il Paese perché molti hanno già lasciato e vogliono riunire altrove le loro famiglie. Siria e Libano in questo momento stanno vivendo una crisi tremenda sociale ed economica. Cerchiamo specialmente di incoraggiare le nostre gioventù a rimanere fedeli alla fede a Cristo malgrado non sia facile perché oggi, con i mezzi di comunicazione i giovani sono aperti a tutto ciò che avviene nel mondo vivono l’angoscia, l’inquietudine per il futuro, e spesso scelgono di andarsene.
Quest’anno ad esempio c’è la Giornata mondiale della gioventù in Portogallo, noi non possiamo mandare dei giovani perché abbiamo il timore che vadano solamente per cercare di andarsene. Questa è per noi una occasione mancata di testimonianza cristiana ma cerchiamo di promuovere dei raduni, delle riunioni locali e nazionali. Nella nostra Chiesa abbiamo un Vescovo particolarmente responsabile per la gioventù che va dove lo chiamano per fare questi incontri, ne abbiamo bisogno per la nostra chiesa Siro Cattolica Antiochena, che ha la sua sede patriarcale a Beirut da circa 115 anni.
Il resto è in mano del Signore, come sarà l’avvenire non lo conosciamo, cerchiamo di continuare a vivere nella speranza».
Nonostante cerchiate di mantenere in patria i giovani e le famiglie, sappiamo che tanti sono fuggiti all’estero, riuscite a mantenere i contatti con queste famiglie che se ne sono andate?
«Da noi non c’è una grande comunità diocesana, normalmente noi abbiamo i preti che conoscono la loro parrocchia, dove ci sono i bisogni sia sociali che spirituali di famiglie, quindi cerchiamo di seguire queste situazioni. Purtroppo, a causa degli eventi che hanno avuto luogo nei paesi, da circa più di 20 anni in Iraq, da 12 anni in Siria e anche da tanti anni in Libano, non c’è solamente il disagio ma ci sono problemi di crisi famigliari, con famiglie che non interpretano l’amore come lo interpretano qui. Come Chiesa cerchiamo di aiutare dove c’è bisogno».
Esistono forme di collaborazione tra le chiese con la comunità musulmana?
«Noi viviamo già da 14 secoli con questa situazione, confrontandoci con i musulmani che sono diventati la maggioranza. Sappiamo che non era facile vivere la fede cristiana in questo contesto. Non basta dire che non c’è sempre stata tolleranza solamente con le parole, ma anche con le azioni. Stiamo cercando di convivere in quanto cittadini di un unico Paese e stiamo quindi annunziando questa nostra missione di essere rispettosi di tutti, di amare chi ha fedi diverse e di cercare come collaborare e cooperare sul piano sociale e civile con i musulmani. Noi abbiamo specialmente questa situazione nella quale c’è una maggioranza musulmana e minoranze cristiane. A livello ufficiale noi ci incontriamo, ci scambiamo degli auguri per le feste e alle volte abbiamo incontri interreligiosi, ma solamente sul piano della convivenza di cittadinanza».
Cosa vuol dire per lei la parola pace? È possibile il perdono?
«Il perdono è un atteggiamento, una virtù che nasce dall’accettare gli altri, di accettare la volontà del Signore nella nostra vita e dato che tutti noi siamo umani possiamo essere soggetti all’errore e anche purtroppo alle tentazioni del peccato. Dobbiamo vivere lo spirito del perdono accuratamente in queste situazioni dove i cristiani del vicino Oriente sono stati oppressi, perseguitati, cacciati dalle loro terre e non è facile. Mi ricordo di una bambina di 9 anni dopo la sradicazione delle nostre comunità dalla Piana di Ninive in Iraq, da dove la sua famiglia è stata cacciata nella notte del 6- 7 agosto 2014 dalle forze dei cosiddetti Isis o Daesh. Lei Ha detto: “Io sono pronta a perdonare tutti questi uomini”. Erano nella tenda dove avevano avuto rifugio dopo la loro sradicazione e questa bambina ha espresso davvero lo spirito dei cristiani. Noi, come Gesù che ha perdonato coloro che l’hanno messo sulla Croce, siamo sempre pronti a perdonare. D’altro canto, perdonare non vuol dire tacere, non dire la verità, dobbiamo dire la verità e non usare quel linguaggio cosiddetto politicamente corretto, noi dovremmo sempre dire la verità con carità. Siamo cittadini come gli altri, abbiamo il diritto di vivere nel nostro Paese con la dignità di veri cittadini. Non accettiamo la violenza da nessuno perché questo è contro il comandamento di Gesù. Quindi viviamo cercando, come capi di chiese, di accettare ciò che succede perché è permesso dal Signore, d’altro canto dovremmo essere sempre chiari e dire che ognuno ha il diritto di vivere la sua fede, ognuno ha il diritto di convivere con gli altri cittadini nella pace ma sempre invitare gli altri che non sono della nostra fede alla carità».