Emergenza acqua: non solo una questione di stagione

I beni idrici rappresentano una risorsa strategica che nel terzo millennio scatenerà conflitti tra le nazioni. La riflessione del teologo cremonese don Bruno Bignami

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Pur se le piogge arrivate abbondanti (più sull’ovest della regione e in montagna che sulla Bassa) hanno fatto tirare un grosso sospiro di sollievo, la siccità sta colpendo duramente il nostro Paese, e in particolare l’Emilia Occidentale, con le province di Parma e Piacenza. Lo stato di emergenza è stato dichiarato e le preoccupazioni, anche per i prossimi mesi, aumentano. Per ora il settore più colpito è l’agricoltura, ma subito a ruota potranno subire limitazioni crescenti anche tanti altri usi civili, oltre che industriali. Vogliamo però allargare lo sguardo. Senza dimenticare che 1,2 miliardi di persone non hanno accesso ad acqua potabile; 2,5 miliardi di uomini non dispongono di strutture igie­nico-sanitarie adeguate e di reti fognarie; 5 milioni di persone muoiono ogni anno per carenza d’acqua e tra questi 1,8 sono bambini. Si prevede che entro il 2050 altri 2 miliardi e 800 milioni di persone soffriranno per scarsità d’acqua.

Per approfondire questo aspetto proponiamo un estratto del libro “Terra, aria, acqua e fuoco” (Edb, Bologna 2012), del sacerdote cremonese don Bruno Bigna­mi, teologo morale.

 

Ivano Fossati cantava nel 2008: «E intanto la guerra dell’acqua è già cominciata in qualche modo e da qualche parte. Per qualcuno sopra questa Terra una vita decente è rimandata ancora».

La storia dell’umanità, per la verità, ha già conosciuto un susseguirsi di conflitti intorno all’acqua. E il futuro non promette di meglio: la diminuzione della disponibilità di acqua pro capite rappresenterà una fonte di instabilità politica ed economica.

Nel corso della storia umana l’inquinamento dei pozzi o delle falde acquifere è stato utilizzato come strumento di sterminio di massa delle popolazioni. Mettere le mani sull’acqua potabile significava di fatto avere potere di vita o di morte sulle persone.

Le guerre in Europa spesso si sono combattute sui fiumi e per il dominio delle loro acque.

Nel terzo millennio l’acqua sarà la risorsa strategica in grado di scatenare tensioni e conflitti tra le nazioni. Alcune situazioni nel mondo sono già esplose.

Il ricatto della sete si era realizzato nel maggio 1975, quando Siria e Iraq avevano ammassato le loro truppe ai rispettivi confini. I tentativi della Lega araba di evitare un conflitto erano falliti: l’unica strada sembrava quella del ricorso alle armi. Alla fine, una mediazione dell’Arabia Saudita evitò la guerra. Oggetto della contesa fu la costruzione della diga di Tabqa, in Siria. Attraverso questa struttura, il corso dell’Eufrate arrivava in Iraq con una portata d’acqua di 197 metri cubi al secondo, invece dei normali 920. Il governo iracheno aveva considerato insostenibile questa riduzione che metteva in ginocchio non solo l’agricoltura, ma lo stesso approvvigionamento idrico della capitale e delle principali città. Ci sono volute innumerevoli riunioni dei governi di Ankara, di Damasco e di Baghdad per giungere al compromesso, secondo il quale la portata del fiume in territorio iracheno dovesse essere di 500 metri cubi al secondo. Proprio quella disputa mise in luce che Siria e Iraq potevano essere sottoposte al ricatto dell’acqua da parte della Turchia.

Un altro conflitto si sta consumando intorno al Nilo, fiume che ha reso possibile lo sviluppo della civiltà faraonica. Il Nilo è cardine dell’economia e dell’agricoltura egiziane, indispensabile sorgente di vita per milioni di contadini e insostituibile fonte di energia per le industrie del paese: dai deserti della Nubia alle coste del Mediterraneo. Ma l’Egitto (120 milioni di abitanti, che si prevede raddoppieranno nel 2020) non è il solo ad abbeverarsi al grande bacino idrico del fiume. Duecentocinquanta milioni di africani in nove Paesi affacciati sul Nilo Bianco e sul Nilo Azzurro si contendono la preziosa risorsa. In gioco ci sono 84 miliardi di metri cubi di acqua all’anno e un fiume lungo 6.700 km. A Entebbe (Uganda), il 14 maggio 2010 solo quattro Stati (Uganda, Tanzania, Etiopia e Ruanda) hanno firmato l’Accordo quadro di cooperazione del Nilo: Kenya, Repubblica Democratica del Congo e Burundi non si sono presentati, mentre Egitto e Sudan si sono opposti alla firma del trattato. Questi ultimi intendono difendere strenuamente un vecchio accordo coloniale del 1929 (successivamente emendato nel 1959) tra Egitto ed Inghilterra, per il quale all’Egitto sono garantiti 55,5 miliardi di metri cubi d’acqua e al Sudan ne vanno 18,5 che, sommati insieme, fanno l’87% del totale. Nel trattato coloniale l’Egitto aveva diritto di veto su eventuali lavori a monte. Mantenere lo status quo è questione di vita o di morte per l’economia e l’agricoltura egiziana, ma il tutto avviene a scapito degli altri governi rivieraschi. Sudan, Etiopia, Tanzania, Uganda hanno in cantiere progetti di dighe per l’utilizzo delle acque del Nilo a proprio vantaggio. Si preannunciano tempi duri, in cui si cercherà di far prevalere la legge del più forte. Come sempre, semplicemente.

In Medio Oriente, poi, sono diventate famose le contese per il fiume Giordano. Dal suo controllo dipende il presente e il futuro di almeno quattro paesi che sono stati al centro di scontri internazionali nell’ultimo mezzo secolo: Israele, Giordania, Libano e Siria. Il 37% dell’acqua consumata in Israele proviene dal Giordano e dal lago di Tiberiade, a sua volta alimentato da questo fiume che segna il confine tra la Cisgiordania e la Giordania, per sfociare nel Mar Morto. Le falde della Cisgiordania rappresentano infatti il 38% delle risorse idriche di Israele. Il rimanente 25% è rappresentato da sorgenti che si trovano sia in territorio cisgiordano che israeliano. Inoltre, la guerra del 1967, che condusse all’occupazione israeliana della Cisgiordania e delle alture del Golan, fu un’occupazione delle risorse d’acqua dolce della regione. La situazione attuale è la seguente: Israele consuma l’82% dell’acqua della Cisgiordania, mentre i palestinesi ne utilizzano tra il 18 e il 20%. Inoltre i pozzi dei palestinesi non possono superare i 140 metri di profondità, mentre quelli israeliani possono raggiungere anche 800 metri. Oggi Israele controlla le falde idriche in Cisgiordania, attribuendo agli israeliani 350 litri di acqua al giorno, ai coloni quantità ancora superiori, e ai palestinesi non più di 80 litri. Se si considera che, per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono necessari almeno 80- 100 litri al giorno pro capite, la situazione è chiara: Israele asseta il popolo palestinese per difendere il proprio dominio. Così la gestione dell’acqua può diventare un criterio per valutare l’ingiustizia, che divide gli uomini in categorie meritevoli o meno di vita, a seconda delle appartenenze etniche. Nel 2005, la costruzione del Muro aveva già distrutto 50 pozzi e 200 cisterne, proprietà di palestinesi. Anche la conquista del Libano del Sud (1982) può essere vista come una forma di controllo delle fonti che Israele considera vitali, oltre che creare una zona di sicurezza tra gli estremisti sciiti dell’Hezbollah, che hanno le basi nel Sud del Libano, e lo stato ebraico. In territorio sotto il controllo israeliano scorrono i fiumi Hasbani e Litani, che proprio sul suolo libanese, si gettano nel Giordano.

Neppure l’India è in pace a motivo dell’acqua. La costruzione di dighe attraverso lo sbarramento dei due fiumi sacri, il Gange e il Narmada, ha provocato enormi proteste da parte dei contadini e delle donne che si sono visti distruggere i mezzi di sussistenza e minacciare i luoghi sacri. La gente della valle del Narmada non si oppone solo alle evacuazioni, rese obbligatorie dalle dighe, ma sta combattendo una battaglia per la custodia della loro cultura religiosa e della loro civiltà.

I casi di guerra si moltiplicano. L’accaparramento dell’acqua finisce per giustificare conflitti di prevaricazione o per scatenare proteste in nome dell’acqua, il cui significato simbolico è riconosciuto da molte culture. Osserva lo scrittore Erri De Luca: «Prima che si scatenino guerre per la sete, si può stabilire che le fonti appartengono alla comunità del mondo, come le nuvole, la neve, il vento, gli oceani, le maree» a tutti.

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