Nuove zone pastorali, tra incognite e attese. Intervista a don Codazzi

Riconfermato al coordinamento delle parrocchie di Cremona, diventate la nuova zona pastorale 3

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Intervista a don Pierluigi Codazzi, vicario zonale della città di Cremona. Oltre alle preoccupazioni per equilibri da consolidare, si guarda al futuro credendo al ruolo dei laici. La prossimità alla gente resta l’obiettivo, ma i sacerdoti vanno coinvolti.

Don Codazzi, cinque nuove Zone pastorali in Diocesi: quali riflessioni o reazioni suscita la riforma?
«La prima impressione (non per la città, ma pensando alla Diocesi) è un naturale smarrimento. Le novità vanno a toccare in qualche modo un sistema consolidato da decenni, che non è soltanto strutturale dal punto di vista organizzativo: propone un’idea di comunità (che si pensava di fatto autosufficiente nella celebrazione, nell’annuncio e nella carità). Il tema di un ripensamento dell’idea dei territori comporta un analogo ripensamento dell’idea di comunità cristiana. Questa cosa personalmente mi impressiona molto».

Intravede difficoltà operative? Che le nuove Zone siano un limite più che una risorsa?
«No: intravedo che, pur senza averne paura, qualcosa stia effettivamente cambiando. E avrà bisogno di molti anni per trovare una sua maturazione. Non si tratta solo di inventare una sovrastruttura attuando il tema dell’interparrocchialità nella Zona, ma un modo diverso (che a noi oggi sembra più complesso) di articolare e di leggere la vicinanza alle persone della comunità, tenendo conto della nuova mobilità dei fedeli e della diversa consistenza numerica dei sacerdoti. Il tema di fondo è comprendere cosa significhi essere comunità oggi: deve rimanere saldo il riferimento della celebrazione, dell’annuncio e della carità».

Ma di questa riforma c’era bisogno oppure no?
«C’era bisogno certamente, per vari motivi che sono stati già ampiamente spiegati da tutti i punti di vista. Sono i motivi legati ai cambiamenti della vita delle persone, allo spopolamento dei nostri paesi, come anche il numero dei preti. La cosa che a me sta a cuore è che a tutti sia data la possibilità di poter vivere una buona esperienza di fede. Questo è il mandato. Quindi non vorrei che per scarsità di proposte (o anche di persone) nei territori ci fosse la difficoltà di vivere una buona esperienza di vita cristiana (e questo era il rischio che oggettivamente stavamo correndo). Questa mi pare la motivazione autentica. Se ve ne sono altre, non sono certamente quelle prioritarie».

C’è chi legge l’interparrocchialità e la graduale riorganizzazione in unità pastorali come un indebolimento dell’autentica “esperienza di vita cristiana”, in ragione della diminuita presenza di sacerdoti… È così?
«Il futuro presuppone come condizione “sine qua non” il fatto di poter scoprire e formare figure laicali che oggi non abbiamo, o solo in parte (penso all’accolitato). Figure che possano comunque avere una funzione anche parziale di riferimento per le comunità cristiane. Soprattutto all’annuncio della Parola, o nella preghiera e nell’esercizio della carità. Su alcuni aspetti bisognerà necessariamente formare persone idonee. Il problema non è quello di accentrare, quanto piuttosto di avere figure anche laicali che possano condurre dinamiche parrocchiali che oggi non abbiamo così chiare. Questa è la paura: abbiamo un modello pastorale tramandato per generazioni e oggi non abbiamo una sufficiente capacità, fantasia e creatività per guardare a quello che sarà non tra un anno o due, ma tra 20/30 anni…».

Questa è l’unica paura che hanno i sacerdoti, o ne ravvisa altre?
«L’altra paura, come sempre quando ci si mette insieme, è la perdita di autonomia. Non penso ai cambiamenti nelle dinamiche di potere – se così possiamo dire – nelle comunità cristiane, ma soprattutto nella fatica di gestire comunitariamente il rapporto con le persone. Il rischio è che la frammentazione da una parte consegni poco in termini di opportunità di relazione, dall’altra possa consentire una vicinanza alle persone impagabile. Bisognerà stare attenti che i nuovi equilibri non perdano di vista da una parte la qualità delle proposte comunitarie, dall’altra la vicinanza alla gente. Entrare nelle case, conoscere le situazioni è fondamentale rispetto allo stesso tema della comunità cristiana».

Come cambia il ruolo dei Vicari Zonali? Pensando al numero delle parrocchie nelle nuove Zone sembra davvero necessario un grande sforzo…
«Penso soprattutto alla necessaria grande fraternità tra i sacerdoti che saranno chiamati a ricoprire l’incarico di moderatori delle future Unità Pastorali. Questo sarà un passaggio importante. Penso non un ulteriore sovrastruttura, ma una comunione più intensa. Se il Vicario Zonale un tempo poteva pensare di arrivare ovunque, oggi può cercare di arrivare attraverso un servizio mediato in una condivisione e comunione con alcuni confratelli. Occorrer stare attenti, perché le sovrastrutture possono diventare pericolose. Occorre grande equilibrio per individuare ciò che compete alla comunità parrocchiale, all’interparrocchialità, alla Zona, e infine alla Diocesi. Occorre la pazienza di costruire un modello che non continui ad aumentare i carichi. Ci vorranno, credo 10/15 anni, non meno».

A proposito di carichi strutturali… Il futuro ci consentirà di conservare tutte le strutture utilizzate in Diocesi? Come immaginare la situazione tra un decennio?
«Io ho appena costruito una chiesa nuova… Dovrei essere l’ultimo a parlare… Penso ad un diverso utilizzo, e a diverse figure laicali da coinvolgere. Elementi di grande valore ma anche di rischio. Bisogna formare laici non nel modello clericale, ma delle opportunità nuove legate a nuove ministerialità. Penso alla carità, o alla vicinanza ai malati e anziani… Ciò permetterebbe di ripensare anche l’utilizzo di spazi e strutture con dinamiche diverse rispetto al passato. Faccio qualche esempio: gruppi famiglia che si ritrovino in spazi dedicati, o la formazione dei fidanzati; penso a momenti di residenzialità temporanea per gruppi di giovani, come di diceva qualche tempo fa. Oppure alla possibilità di attivare spazi (non troppo lontani dal proprio territorio) in cui vivere esperienze significative o momenti di condivisione o ritiro. Soluzioni diverse da quelle attuate oggi nelle parrocchie, dove si pretende che tutti facciano tutto. Certo rimane il problema degli anziani che restano sul territorio, e che potrebbero avvertire una sorta di abbandono. Su questo dovremo essere molto attenti. Anche nelle piccole chiese o comunità, dove non può esserci la celebrazione eucaristica, se c’è qualche laico che prega il rosario o il vespro potrebbe comunque non lasciare sole le persone».

In una battuta: di cosa hanno oggi bisogno i preti della nostra Diocesi?
«Di essere protagonisti, insieme ai laici, di un pensiero. Il pensiero di una comunità che ha bisogno di essere amata, come è sempre stato in passato, ma anche ripensata con alcune scelte».

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