“Il suo insegnamento più grande” Papa Francesco “ce lo ha dato sacrificando” per la sua missione “forse qualche giorno in più che gli sarebbe stato dato di vivere se si fosse riguardato, se avesse rinunciato al suo desiderio di stare tra la sua gente nel momento del nuovo inizio pasquale, tra i diseredati, gli ultimi, i carcerati, l’urbi et orbi sull’orlo del baratro. Cristo sulla terra dunque sino all’ultimo respiro”. Lo scrive in una nota padre Virginio Bebber, superiore della comunità camilliana di Cremona e presidente nazionale Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari), richiamando le parole che il Pontefice affidò all’associazione durante l’udienza concessa nel giorno del suo 60° anniversario, il 13 aprile di due anni fa.
Per un attimo “abbandonò la traccia del discorso preparato per trasmetterci tutta la sua preoccupazione per la sorte di quanti, sofferenti nella tenaglia della malattia, non hanno possibilità di accedere alle cure, alle medicine di cui hanno bisogno. Perché non hanno i mezzi economici per poterlo fare. Le vere vittime di quella che definì ‘povertà della salute’, di quella ‘cultura dello scarto’ che ha evocato dall’inizio del suo Pontificato. E non esitò ad equiparare questa forzata privazione ad una ‘eutanasia nascosta e progressiva’ cui sono praticamente condannati i più fragili, gli anziani indigenti”.
Per noi, annota Bebber, “quel momento è stato come sentire l’eco della nostra voce espandersi oltre i confini di casa ed acquisire quella forza che solo Papa Francesco ci poteva dare. Ci chiese la responsabilità di una ‘nuova evangelizzazione’, non solo declamata, ma intessuta, giorno dopo giorno di gesti concreti, capaci di essere testimoni e protagonisti della nascita di un nuovo umanesimo. Lo ha testimoniato personalmente, fino alla fine. Ci guardò fissi negli occhi. Uno ad uno mentre pronunciava quelle parole”.
Il Papa, ricorda ancora il presidente Aris, “ci fece capire che la prima forma di civiltà è il rispetto per chi soffre. Ci chiese di ‘accompagnare’ le persone che accogliamo nelle nostre strutture ‘con una cura integrale, che non trascuri l’assistenza spirituale e religiosa dei malati, delle loro famiglie e degli operatori sanitari’”. In questo, “disse accorato, le istituzioni sanitarie di ispirazione cristiana dovrebbero essere esemplari. E ci pose una sfida che ancora oggi ci impegna, ci invitò a chiederci come si sarebbero comportati i nostri santi fondatori”. Lui, conclude Bebber, “lo ha fatto sino all’ultimo respiro che gli era rimasto nel corpo martoriato dalla malattia”.