Il medico di Lampedusa a Cremona: «Noi siamo la porta, voi la casa»

Drammatica testimonianza del dott. Pietro Bartolo, lunedì 9 ottobre ospite delle Acli

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«Noi a Lampedusa siamo la porta, voi la casa». Questo l’intenso messaggio che Pietro Bartolo, medico dell’isola degli sbarchi, ha rivolto ai cremonesi che nel pomeriggio di lunedì 9 ottobre hanno ascoltato la sua testimonianza nell’affollato auditorium delle Acli. Un racconto davvero drammatico, accompagnato da immagini crude e un video che ha chiuso l’incontro con un vero pugno allo stomaco, lasciando la sala nel più assordante silenzio. Chi doveva intervenire dopo non ha voluto aggiungere nulla.

Tanta commozione tra i presenti e lo sguardo che a tratti cercava di evitare le fotografie proiettate sullo sfondo. Scene a cui non si può fare l’abitudine, tanto che lo stesso dott. Bartolo, a un certo punto, ha chiesto di procedere oltre con le slide: neppure lui aveva la forza di raccontare la storia che c’era dietro quei volti, ai più rimasti ignoti.

Storie che, purtroppo, non sono l’eccezione in quel tratto di Mediterraneo. Ma non per questo ci si può abituare. Lo ha ribadito con forza il medico siciliano, dal cui racconto emergevano chiari volti e nomi, rimasti scolpiti nel suo cuore, anche se conosciuti solo per pochi istanti.

Come quella donna, già nel sacco funebre, strappata alla morte per la caparbia di un professionista che esegue fino alla nausea ispezioni cadaveriche, con quella delicatezza e attenzione che permettono di riconoscere, nell’esame delle tante salme, quel battito che ancora flebile continua a dare speranza.

O quel parto avvenuto su un barcone, senza nulla, neppure un filo da pesca e una forbice per tagliare il cordone ombelicale: ma i lacci delle scarpe e un coltello da cucina hanno potuto fare il miracolo.

Eh sì, perché tante volte lo sguardo – confessa il dott. Bartolo – va al Cielo, sapendo che in quel piccolo ambulatorio a volte è necessario fare anche l’impossibile. Questi sono i momenti che danno speranza.

Parentesi di chiarore in una tempesta che è disseminata di naufragi, corpi stesi senza vita lungo il modolo. E quelle 367 bare schierate, una accanto all’altra, con 368 corpi: sì perché nessuno ha voluto staccare dalla madre quel neonato ritrovato ancora legato al cordone ombelicale.

In questa tragedia sono le donne a pagare di più. Tutte abusate dagli sfruttatori, che utilizzano ogni metodo per evitare che rimangano incinte: in quello stato varrebbero ancora meno, neppure buone per la prostituzione.

E poi le torture, arrivando persino a scuoiare vivi. E ancora foto a dimostrarlo. Questa la cruda realtà, di cui nessuno parla raccontando gli sbarchi e le tragedie del mare.

Tutto è ancor più difficile per quanti sono di colore: non sono neppure considerati essere umani. Le donne, poi, ancora di meno. E invece il medico di Lampedusa ci tiene a ribadirlo: «Siamo tutti uguali!» E mostra la foto di un bimbo del Mali appena nato: «Bianco come noi». E il sangue dopo un parto: «Rosso come il nostro».

Non ci sono differenze – ribadisce con insistenza il dott. Bartolo – e se la prende con chi classifica i profughi, ritenendo di serie B i migranti per motivi economici: «Morire di fame non è diverso da morire di guerra. Pensarlo è disumano!».

I cosiddetti viaggi della speranza sono esperienze estenuanti, che durano in media due anni. Ma ce ne possono volere anche sette. I barconi oggi hanno lasciato il posto a gommoni senza chiglia da poche decine di euro. E le conseguenze sono chiare vedendo le fotografie di questi natanti affondati per il peso degli assiepati passeggeri. Lo capisce anche chi sta per partire, tanto che in molti cercano di rifiutarsi di salire: ma gli scafisti sparano a chi non sale a bordo. Quanti sono sbarcati a Lampedusa con ancora in corpo le pallottole delle pistole.

Tra i racconti più tragici quello di una inaspettata sorpresa. L’arrivo di un barcone, i controlli sanitari di routine prima di dare il via libera allo sbarco. Ma il clima a bordo non è il solito. Poi qualcuno indica la stiva. La discesa dal boccaporto di 70 centimetri per 70 e i piedi che affondano in quelli che sembrano cuscini, ma in realtà sono cadaveri. Tutti giovanissimi. Le pareti grondanti di sangue. L’estremo tentativo di trovare una via di fuga, sino a consumare unghie e polpastrelli. Avrebbero dovuto uscire da quel nascondiglio una volta lasciato il porto, ma l’instabilità della barca ha fatto decidere agli scafisti che da lì non si dovevano muovere. Bastonate, percosse, sino a ostruire il passaggio. Sono bastati 15 minuti perché tutti morissero soffocati.

Un racconto che non si ferma qui. Tra i compiti del dott. Bartolo c’è quello delle autopsie. Un lavoro duro, ma necessario «Per dare una identità e una dignità a queste persone». Vanno tutti spogliati, catalogati gli indumenti, contati i denti, esaminate cicatrici e tatuaggi, poi le impronte digitali e le foto. Ma questo non sempre è possibile e allora occorre prelevare il dna, tagliando un dito o un orecchio. E quanti bambini hanno dovuto subire questa ultima violenza, anche se necessaria.

Nella relazione del dott. Bartoli non mancano gli affondi, per raccontare la verità sino in fondo smentendo tanti luoghi comuni e falsità. E non sono mancate neppure le rassicurazioni di tipo sanitario: in oltre 25 anni di servizio con il compito di sanità marittima mai alcun caso di malattia infettiva importante è giunto sulle coste italiane.

La «Malattia dei gommoni», come la definisce il medico di Lampedusa, è invece la più frequente, data dalle ustioni provocate da quel mix di acqua e gasolio che invade le barche, inzuppa i vestiti, lasciando segni perpetui se non addirittura portando alla morte. E i più colpiti sono donne e bambini: per proteggerli dal mare sono fatti sedere al centro del gommone, mentre gli uomini prendono posto sui lati. Eppure è proprio quello il posto più insidioso.

Duro ascoltare un’ora di questo racconto. Ma ancor più difficile è certamente trovarsi in queste situazioni. Il pensiero è andato anche ai pescatori di Lampedusa che ogni volta accorrono con le loro imbarcazioni per cercare di portare in salvo più vite possibili. Ma insieme ai superstiti raccolgono anche i cadaveri. E a volte non si può fare altro che abbandonare qualcuno in mare: non si possono portare via tutti, il rischio concreto è quello di affondare. E c’è chi che dopo queste esperienze ha deciso di non scendere più in mare a pescare.

«Sono persone normali, che rischiano la vita». Ripete instancabile il dott. Bartolo. E aggiunge: «A volte chiediamo loro: perché partite sapendo che potreste non arrivare? La loro risposta è: questo “forse” vale una vita migliore».

Tanti però hanno lasciato il loro sogno in fondo al mare.

L’incontro – moderato da Carla Bellani, presidente delle Acli Cremonesi – si è chiuso con un video, che il medico di Lampedusa ha voluto mostrare pur consapevole della durezza delle immagini. Una barca sul fondo del mare e un sub che estrae, uno dopo l’altro, i cadaveri che fluttuano nell’acque. Poi l’immagine dall’elicottero: una massa che galleggia. Corpi senza vita.

Il video è senza audio e in sala è il più assoluto silenzio, rotto solo dai singhiozzi che a tratti si fanno vera disperazione tra alcuni dei migranti ospiti in città. Anche loro hanno preso parte a questo incontro, ma alla fine tutto il loro dolore è affiorato. In molti hanno dovuto lasciare la sala. Non era un documentario: era la loro vita. E quella di tanti come loro che non ce l’hanno fatta.

 

Pietro Bartolo, da sempre in prima linea nel soccorso ai migranti nel poliambulatorio di Lampedusa, si è meritato numerose onorificenze, tra cui il titolo di cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica Italiana conferitogli dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il premio Sérgio Vieira de Mello (Cracovia 2015) e il premio Don Beppe Diana. È protagonista di Fuocammare, documentario del 2016 diretto da Gianfranco Rosi, premiato con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, che ha per oggetto l’isola di Lampedusa e gli sbarchi di migranti che la interessano.

Vincendo un’iniziale riluttanza, ha pubblicato il libro “Lacrime di sale”, scritto insieme alla giornalista Lidia Tilotta. Un testo che alterna racconti autobiografici a storie di migranti che sbarcano sull’isola. Una scelta motivata dallo stesso dott. Bartolo che, non volendo tradire il rapporto di fiducia con il quale era venuto a conoscenza di tante storie, nella consapevolezza di dover comunque far conoscere questa verità troppo taciuta, ha deciso, quasi per pareggiare i conti con i protagonisti di queste vicende, di mettere a nudo anche se stesso e la sua famiglia.

Il titolo “Lacrime di sale” richiama il segno che le lacrime lasciano sul viso di chi, in mare per lungo tempo, ha il viso coperto dalla salsedine. Segni visti tante volte sulla faccia del padre, grande pescatore dell’isola, e in questi ultimi anni rivisti con ancor più evidenza sui volti di colore delle persone sbarcate a Lampedusa.

 

L’incontro del 9 ottobre a Cremona è stato promosso nell’ambito della campagna “Ero straniero. L’umanità che fa bene”, cui a Cremona hanno aderito: Acli, Arci, Articolo 32, Asgi, Associazione Immigrati Cittadini, Associazione Donne Senza Frontiere, Caritas, Cisvol, Forum Provinciale Terzo Settore, Cooperativa Nazareth, Cooperativa Non Solo Noi, Git Banca Etica, Legambiente, Libera, Movimento Federalista Europeo, Coordinamento Democrazia Costituzionale.

 

Photogallery dell’incontro

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