Giornata Mondiale contro l’AIDS: a Cremona c’è una casa che dà un volto alla speranza

Sabato 1 dicembre la Messa a Casa Speranza, l’opera che dal 2001 accoglie e assiste i malati

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Un giardino curato, una struttura ordinata  e pulita e un andirvieni di infermieri, operatori, suore, parenti e medici accoglie chi entra a Casa Speranza, in via Borgo Loreto a Cremona. Così è stato ieri, pochi minuti prima che iniziasse la Santa Messa nel giorno dedicato alla lotta mondiale contro l’Aids.

Difficile muoversi tra le tante persone presenti, tutte lì per un motivo: chi è ricoverato, chi è venuto a trovare un parente, chi ci lavora, chi è amico di quest’opera -discreta ma grandissima -che dal 2001 ha aiutato centinaia di persone ad affrontare una malattia impietosa e, a volte, anche la morte. Eppure il messaggio dato durante l’omelia da don Gianpaolo Maccagni, vicario episcopale per il Clero e il Coordinamento pastorale, non ha avuto toni foschi.

“Quando sono arrivato qui oggi”, ha esordito, “ho letto subito l’insegna fuori dal cancello: ‘Casa della speranza’. Se a Cremona ci fosse un negozio che vende la speranza ci sarebbe il pienone, perché la speranza è un bene raro ormai e la gente sarebbe disposta a dare qualunque cosa per averne. Qui però non siamo in un negozio”. E allora – ha proseguito – “perché chiamare ‘Casa della speranza’ un posto dove si accolgono tante fragilità? Non è ironico. Tutto quello che vendono fuori, sono inganni. Noi invece abbiamo capito che la speranza non è data dalle cose, ma dall’accogliere le persone. Quando uno si sente preso a cuore, quando non è un numero ma un volto e la sua storia viene accolta, esce dalla paura: torna a vivere.  E capite che questo non si può comprare, lo si può solo accogliere come dono. Un dono insperato. Cosa fa alzare il capo? Qualcuno che guarda te, che ti regala il suo tempo. La speranza ha un nome: è il fratello, volontario, infermiere, il volto che si è preso cura di te. E questa èuna cosa che puoi fare anche tu”, dice rivolto ai dieci pazienti oggi in cura nella struttura. Ma, conclude, “non è tutto. All’ingresso troviamo una stanza dove non c’è qualcosa, ma Qualcuno. Un pezzo di pane. Oggi inizia l’Avvento e ci ricorda che Dio non ha promesso miracoli o effetti speciali, ma che si è dato a noi, che ci fa compagnia. E’ la presenza di un Dio che dice “io non ti mollo, sono con te, per me hai un destino meraviglioso”. Dio-con-noi. Dio non si concepisce solo, ma è presenza che ci accompagna. Questo luogo può essere speranza per tanti altri. Buon cammino di Avvento a tutti! Siamo annunciatori del fatto che Cristo Gesù è la nostra speranza, non dimenticatelo”. Alla fine della celebrazione sono intervenuti brevemente don Antonio Pezzetti, che ha ringraziato i tanti amici presenti che negli anni non hanno mai smesso di supportare l’opera, e il dottor Giuseppe Carnevale, medico infettivologo tra i primi a veder nascere e volere quest’opera, che ha fatto il punto dell’evolversi del virus HIV nel mondo. Proprio con lui abbiamo avuto la possibilità di scambiare due parole a margine della messa.

“Chi è ospite oggi della Casa della Speranza, vive un’esperienza di accompagnamento. Non è sempre facile, certo; qui entrano pazienti con Aids conclamato, che hanno avuto percorsi di vita diversi. Molti l’hanno presa per via sessuale, l’età è molto variabile: si va dai 30 anni agli 80 e più. E i pazienti provengono non solo dal cremonese ma anche da province limitrofe o dall’estero (ci sono un africano e un brasiliano)”, racconta. “Non possiamo fare miracoli, ma cerchiamo di curare la persona dal punto di vista fisico (con la possibilità di essere seguiti dal punto di vista farmacologico in maniera costante) e umano. Ecco perché l’impegno maggiore è quello di dare un aiuto nella quotidianità, nelle piccole cose di tutti i giorni: la pulizia personale, la cura dell’alimentazione, piccoli momenti di impegno o svago dove non sentirsi solo malati ma persone. In tutto questo opera uno straordinario personale infermieristico e medico, insieme ad alcune suore e 4 educatori. Si cerca di riallacciare i rapporti famigliari (i parenti possono venire a visitare i loro congiunti) anche se a volte la situazione è talmente compromessa che i pazienti sono stati abbandonati e isolati da tutti. Ci sono poi persone in carrozzina o anziane il cui rientro in società è più difficile. Ma, come recita il nome dell’opera, non ci facciamo abbattere dalle fatiche perché si continua a sperare, sempre”.

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