Don Lodigiani e la sua comunità kazaka figlia delle deportazioni

Esistono solo le strutture essenziali per la Chiesa Cattolica, uscita solo 25 anni fa dalla clandestinità

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Don Livio Lodigiani, classe 1951, originario della parrocchia di S. Ilario in Cremona, dove ha iniziato il suo ministero come vicario, nel 1996 ha lasciato la diocesi di Cremona per spendersi come “fidei donum”. Attualmente si trova in Kazakistan. Di seguito la sua testimonianza, scritta in occasione della Giornata missionaria mondiale del 22 ottobre.

Si chiamano Talgar, Issyk, Janashar, Basargheldy, Turghen… sono i nomi di alcune cittadine e villaggi delle mie due parrocchie attorno ad Almaty, da 30 a 80 km di distanza dalla grande città dove abito. Sono cazaki per la maggior parte, come in tutto il Paese, musulmani; poi russi, perciò ortodossi; poi in percentuali minori tedeschi, polacchi, ucraini, coreani e di tante altre nazionalità. Molti di loro sono “figli o nipoti delle deportazioni” sovietiche. Figli o nipoti di gente che ha sofferto incredibili vessazioni e fatiche e che ora, come allora, affronta con dignità la fatica del vivere. Perché per molti qui la vita è grama: stipendi da fame o disoccupazione, povertà. In cifre sommarie: più di centomila abitanti di un centinaio di etnie diverse. Di questi, circa trecento sono battezzati, sono polacchi, tedeschi, coreani… Ma non mancano russi e cazaki: per il Signore le differenze etniche non sono ostacoli a che uno possa sperimentare e desiderare la misericordia dell’abbraccio di Cristo alla propria vita.

In quattro di questi paesi c’è una chiesetta, cioè una casa, acquistata o regalata da chi, dopo l’indipendenza dall’Unione Sovietica, ha preferito tornare nella sua patria. Una casa adattata a chiesa, una casa ormai vecchia e un po’ malandata, dove il prete non può abitare.

Per questo grazie, anche alla generosità di molti amici che da anni mi seguono con preghiere e offerte (a proposito, è esemplare per me la fedeltà del gruppo missionario di S. Pietro a Cremona e della S. Vincenzo di S. Daniele Po), ho avviato alcuni progetti per migliorare e recuperare spazi di incontro anche dopo la Messa: catechismo e convivialità.

Ieri è caduta la prima neve, siamo sotto le montagne, fortuna che avevamo già comperato il carbone e ingaggiato i “fuochisti” che per 6 mesi dovranno caricare le stufe per scaldare, ogni giorno, perché non ghiacci l’acqua nei tubi. A Talgar, forse, riusciremo a fare l’allacciamento del gas. Una bella spesa, ma ci farà risparmiare ogni anno il costo di 6 tonnellate di carbone.

Occorre abbandonare l’idea nostra di vita parrocchiale per entrare un po’ nell’immagine di una chiesa uscita 25 anni fa dalla clandestinità, dove in molti posti il prete passava ogni tanto, si fermava in una casa e lì, di sera e di notte, celebrava Messa, predicava, confessava, sposava… tutto in pochi giorni.

Non ci sono strutture, se non quelle essenziali. Anche la vita liturgica è essenziale, anche se molti vecchi e adulti conservano ancora una fede grande e una ricca preghiera personale.

Ma tutti, vecchi e giovani, tutti cercano, hanno fame e sete di rapporti veri. D’altra parte proprio così ci ha fatti il buon Dio e quello che vale per la mia gente, vale esattamente anche per me.Tutto è affidato, tutto rimanda, nasce o rinasce da un rapporto personale. Così si va a trovare le persone nelle loro povere case dove si incontrano i loro guai, i loro bisogni e le loro attese. E si ascolta, si aiuta, si condivide, giocando con i bambini, cucinando spaghetti all’italiana o traducendo in Italiano diagnosi pesanti da inviare ad amici medici specialisti perché “leggano” e, se possibile, aiutino.

A volte gli adulti o i giovani che incontro nelle famiglie non sono battezzati, o da tempo non vengono più in chiesa, ma si respira un’umanità nel rapporto che mi aiuta ad amare il loro destino ed aff dare le loro vite alla Sua misericordia. Verrà il tempo e per qualcuno già è arrivato, in cui le domande verranno fuori, e soprattutto la domanda di “conoscere” Cristo. Anche se questo non può essere l’esito di un programma, ma solo il miracolo della libertà di un uomo che, lieto, si apre e si affida ad altri uomini che l’hanno incontrato e camminano con lui.

Queste mie parrocchie sono proprio una periferia povera, in tutti i sensi, povera eppure ricca dell’umanità salvata, già salvata a dispetto dei peccati e delle fragilità che pure abbondano. E mi dico: serve a me incontrarla, ne vale la pena perché loro, così poveri, mi ricordano che: “Questa povertà è necessaria perché descrive ciò che abbiamo nel cuore veramente: il bisogno di Lui” (papa Francesco).

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