Don Giovanni Fiocchi, da 19 anni “fidei donum” in Albania

«Porto dentro di me la speranza di concludere la costruzione anche della chiesa di Puka, come segno visibile dell’impegno di tanti in questi anni»

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In occasione della Giornata missionaria mondiale, che si celebra domenica 22 ottobre, proponiamo la lettera di don Giovanni Fiocchi, sacerdote cremonese “fidei donum” in Albania da 19 anni. Don Fiocchi, classe 1959, originario di Cassano d’Adda, ordinato prete nel 1983, dopo essere stato vicario a Cremona nella parrocchia Ss. Nazario e Calso in S. Giuseppe al Cambonino (1983/1990) e a Rivolta d’Adda (1990/1998), ha ottenuto dal vescovo Nicolini di partire per offrire il proprio ministero alla Chiesa albanese.

Meno di due ore d’aereo. Circa mille chilometri in linea d’aria. 24 ore in macchina. Sono queste le distanze fisiche e temporali tra Cremona e l’Albania. Ho perso il conto di quante volte possa averle percorse in 19 anni di presenza come “fidei donum”. Così come di tanti altri particolari non ho tenuto il calcolo e mi sarebbe impossibile riassumerli nello spazio che ho a disposizione.

Ma se mi guardo indietro e ritorno ai tanti momenti vissuti (cosa rischiosa che anche Gesù ci sconsiglia di fare…) credo sia davvero valsa la pena di partire e di venire qui, restandoci per un tempo non breve, nonostante l’improvvisazione o l’apparente azzardo di questa decisione.

Il 13 dicembre 1998 sono arrivato a Scutari, primo giorno della mia esperienza di “fidei donum”. Fisicamente ero stato in Albania per 6 giorni in tutto, durante il mese di agosto precedente, a rendermi conto direttamente della realtà in cui avevo chiesto di poter svolgere per un certo tempo la mia vita sacerdotale. Il vescovo Giulio Nicolini aveva accettato la mia proposta dopo averla vagliata per circa un anno, ma io in realtà non conoscevo la mia futura “sposa” se non dai racconti di qualche testimone o dagli articoli di riviste e giornali. “Vista e piaciuta”.

Partivo da una esperienza di 15 anni come vicario parrocchiale in due parrocchie.

Partivo da una Chiesa ancora carica di slancio missionario, che poteva permettersi, dato il numero di ordinazioni sacerdotali, di privarsi di uno o più sacerdoti per donarli ad altre realtà di Chiesa senza troppi problemi di sostituzione.

Partivo da una società ancora non colpita dalla crisi economica e lavorativa e forse anche per questo ancora sazia e un po’ indifferente, alle prese con i primi segni di intolleranza nei confronti dei nuovi immigrati, ogni giorno più numerosi. Partivo accompagnato dalla vicinanza e dalla solidarietà di tanti che consideravano con ammirazione questa scelta, per tanti aspetti alternativa nei confronti della vita parrocchiale che mi si prospettava vista l’età e gli anni di ordinazione.

Andavo verso una nazione e una società che si manteneva ancora celata e per tanti aspetti misteriosa dopo i decenni di isolamento totale, nonostante qualche anno trascorso in un nuovo clima di apertura e di libertà più apparente che reale, che sarebbe sfociata nella “guerra civile” del 1997. Andavo verso una Chiesa che usciva da una lunga e feroce persecuzione, che sarebbe stata riconosciuta da lì a pochi anni con la proclamazione di 38 martiri in pochi anni su una popolazione di forse 500.000 cattolici. Una Chiesa di cui si conosceva l’estremo bisogno di personale per affrontare l’emergenza di una evangelizzazione interrotta per quasi 50 anni, a cui pensavo sarebbe stato utile un prete a disposizione per le necessità che avrei incontrato. Andavo verso un popolo che ancora non conoscevo, ma di cui sapevo la condizione economica spesso disperata e intuivo le necessità umane e spirituali ancora non soddisfatte.

Ho trovato un paese sorprendente, in cui coesistevano aspetti diversissimi e a volte in aperta e incomprensibile opposizione tra di loro, tra tradizioni ancestrali e voglia di recuperare il più rapidamente possibile il tempo perduto, non di rado pronto ad accettare tutto ciò che poteva far dimenticare un doloroso passato, ma senza riuscire a selezionare, nella massa di proposte e sollecitazioni che si riversavano da oltre confine ciò che fosse veramente valido da ciò che invece portava nuove e peggiori malattie sociali e spirituali. Una sfida continua nel tentare di comprendere ciò che sarebbe comunque sfuggito ad ogni classificazione stereotipata.

Ho trovato un popolo fatto di tante storie concrete, di gente in ricerca di un modo per poter uscire dalle pesanti condizioni a cui li aveva condannati la loro storia secolare, carico di tanti valori che la tradizione aveva conservato ma anche bisognoso di compleatrsi e di integrare con nuove speranze ciò che avevano ereditato e conservato nei secoli passati. Un popolo che deve fare ogni giorno i conti non solo con le conseguenze dei decenni di isolamento a cui li aveva costretti il regime comunista, ma ancor più con il distacco subito dalla storia durante i secoli di appartenenza all’impero ottomano come provincia estrema e remota da utilizzare, ma non da sviluppare. Un popolo ansioso di muoversi e di spostarsi, possibilmente all’estero, ma ancorato alle consuetudini e modi di relazionarsi fortemente propri. Un popolo che oggi si distingue nel panorama mondiale per la sua accoglienza, la tolleranza, l’esaltazione dei valori della nazione, ma che conserva gelosamente il nocciolo profondo della propria cultura ancora quasi nascosto e inaccessibile al viaggiatore frettoloso. Un popolo che può essere amato in tempi brevi, ma che richiede la pazienza e la discrezione dei tempi lunghi per poterlo conoscere ed apprezzare nella sua realtà più autentica e sincera.

Ho trovato una Chiesa che mi ha accolto a braccia aperte, in particolare nel vescovo mons. Massafra che per primo mi ha aiutato ad aprire gli occhi e a pormi nel giusto atteggiamento di servizio, ma anche una Chiesa che chiedeva e chiede di essere amata e rispettata per quello che è, aiutata a crescere gradualmente, senza illudersi di poter avere magiche ricette o di portare l’ultima novità pastorale in un ambiente che ancora deve prepararsi e formarsi per le sfide di questo XXI secolo. Ho scoperto in particolare quella Chiesa che vive nelle zone più marginali nelle montagne di Puka, le zone forse meno incoraggianti da un punto di vista economico e sociale, ma che spesso hanno conservato ancora incontaminato il sottofondo culturale di una cultura antica e saggia che sa imparare a sopravvivere anche nelle condizioni più difficili.

Che cosa mi posso aspettare ora, dopo 19 anni di presenza in questa Chiesa albanese? Personalmente non posso fare progetti, ma una speranza che porto dentro di me è di concludere la costruzione anche della chiesa di Puka, la cittadina centrale in cui svolgo da anni il mio servizio, come segno visibile dell’impegno di tanti in questi anni.

Il sogno che è rimasto nel cassetto è di arrivare a una missione diocesana di più ampio respiro, che coinvolga sacerdoti, religiosi, laici e tutte le persone di buona volontà che accettano di camminare con questo popolo e con questa Chiesa ancora per un po’. Certo sono stati tanti, impossibile ricordarli uno per uno, coloro che in questi anni mi hanno affiancato e si sono resi partecipi di questa missione: a tutti va la mia personale gratitudine e per tutti sono certo che il Signore sa dare la giusta ricompensa. Ma credo vi possa essere ancora spazio per aprire e farsi carico di una presenza più continuativa che possa garantire un servizio e una testimonianza di evangelica fraternità a questa Chiesa sorella che il Signore mi ha fatto incontrare e che, mi auguro, possa essere conosciuta ed amata ancora da tanti.

don Giovanni Fiocchi

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