«Di fronte alla morte un nuovo sguardo sulla relazione con Dio». Intervista a don Rubagotti, guarito dal Covid-19

Il parroco di Casalmaggiore riflette sul male, la Chiesa, il ruolo dei sacerdoti e la tecnologia, in «queste circostanze che danno avvio a un nuovo tempo della nostra vita ecclesiale»

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“Per una didattica dell’essere Chiesa”. Oppure “Nuova evangelizzazione dai letti di ospedale”. O ancora “Come fare Pasqua guardando al Covid-19”. Sono solo alcuni dei titoli che si potrebbero attribuire a questa intervista-fiume al parroco di Casalmaggiore, don Claudio Rubagotti, da pochi giorni rientrato alla sua abituale dimora dopo tre settimane di ricovero perché positivo al virus.

Tra riferimenti biblici e conciliari, passando attraverso le memorie dei suoi compagni di viaggio in questa avventura che non esita a definire «del tutto nuova», don Rubagotti riflette sul suo rapporto con Dio e con la comunità, con uno sguardo esteso a quanto la Chiesa può e deve essere oggi, in questo tempo di sofferenza.

Si è Chiesa partendo dal singolo prete, come ama definirsi, che rivedendosi per la seconda volta di fronte alla morte, realizza i vuoti e i pieni della sua esistenza.

E lo fa partendo dalla Parola di Dio e in particolar modo dal libro sapienziale di Giobbe, sinonimo del giusto per eccellenza che, perseguitato e afflitto, non perde mai la fede in Dio e afferma, nel tempo del dolore, «io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero». Come a dire che il giusto e Dio si riconosceranno anche dopo aver percorso il buio del dubbio e della domanda: «Fammi sapere, perché mi sei avversario?». È il tema filosofico-teologico della teodicea, della giustificazione del male nel mondo nonostante la presenza di un Dio creatore buono.

«In questo tempo – riflette don Claudio – sospeso ho pensato che lo incontrerò da straniero. Lo straniero è colui che ha l’odore diverso dal tuo. Io e Dio, due odori diversi. Impegnato a far del bene, o almeno a provarci, stando in mezzo alla gente, ho trascurato il sole. Amo citare l’immagine di Ambrogio di Milano e Atanasio di Alessandria “La luna che vive di luce riflessa”. La Chiesa brilla finché guarda il suo Sole. A volte io mi sono dimenticato chi era la luna e chi il sole. In questi anni non ho acquisito l’intimità di avere il suo modo di guardare, il suo profumo. Il suo battito di cuore. Ho vissuto senza l’idea di abbandonarmi a Lui».

Il ricovero di don Claudio, avvenuto il 3 marzo scorso presso l’Ospedale Oglio-Po, è stato solo il punto di partenza in questa revisione del suo rapporto con Dio. Il clou è arrivato il 12 marzo, quando, in procinto di essere dimesso, ha visto la morte.

«Ho avuto un tracollo. E ho visto la morte. E come uomo di fede ho rivissuto il mio rapporto con Dio, mi sono posto davanti a Lui. Non era la prima volta. Già dodici anni fa mi era capitato. Eppure non è stato un tornare indietro, ma un affacciarmi nuovamente, adesso, davanti al medesimo mistero, che non è la morte, ma il mio stare davanti a Dio».

E scherza, come sempre ama fare, sul suo abituale disordine, con un proposito nei tempi grigi per il tempo a venire: «Mai più disordine, mai più scatoloni. E invece… Ho pensato a me, che mi sarei presentato a Lui “tra gli scatoloni” e ho compreso la grandezza di Dio e la mia pochezza».

E, citando Lettera ai Romani, dice: «Come scrive San Paolo, “io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”. Anche le omissioni sono male. Anche il non curare l’amore è male. Anche il non curare il tuo ordine è male».

E continua: «Il 12 marzo ho vissuto un momento forte, intenso, di sguardo reale sulla morte a colui che è Dio. Morire a Dio. Dio come il totalmente altro di fronte a me che sono una creatura».

Un secondo aspetto che don Rubagotti ha voluto affrontare è stata la sua umanità.

«Quando una persona è abituata a essere fonte di benedizione e la sua presenza è gradita o addirittura attesa, sia per il ministero che rappresenta che per il suo carattere socievole, riconoscersi ora come fonte di malattia, fonte di problemi, cambia la prospettiva su sé e sul mondo. Ci si mette in un’ottica mai considerata prima. Tu diventi protagonista di male. Ti percepisci come una persona che procura del male, oserei dire non più fonte di benedizione ma di maledizione. Questo ribalta la vita. L’uomo di fede è disposto a soffrire con gli altri, a condividere l’emergenza, ma non è disposto a essere considerato male per gli altri».

Eppure, anche in questa dichiarazione don Rubagotti riscopre la visione teologico-pasquale dell’essere uomo nel suo tempo, ma non del suo tempo.

«La vera vittima è Cristo e il suo sacrificio non è mai fine a se stesso. Noi partecipiamo a questo elemento redentivo. La sofferenza, anche quella dell’essere “untore”, è vista come liberazione. La sofferenza è Resurrezione».

Riprendendo l’immagine di papa Francesco, che definisce «uomo sofferente, avvolto da un tempo inclemente in una piazza San Pietro deserta ma riempita dal grido sgraziato dei gabbiani e dalle sirene delle ambulanze, di fronte a un crocifisso grondante sangue e lacrime del cielo», torna all’idea centrale della fede cristiana: «Non chiedo mai “perché, Signore, il male?”. Quando vivo il male penso sempre che il Signore l’ha vissuto con me, per me. Allora se Lui ha vissuto lo scandalo della morte, se Lui è stato considerato la causa del male e pertanto è stato crocefisso, questo diventa fonte di salvezza anche per la mia vita. Quello che noi tutti vorremmo evitare, lo scandalo della croce, è la salvezza per tutti noi».

Due ultime considerazione ci avviano alla chiusura di questa riflessione.

La prima: come essere Chiesa in questo momento e da questo momento in poi?

«Quando si dice che la Chiesa non è in mezzo alla gente, ebbene, noi siamo tutti qua, a dare il conforto dell’uomo religioso anche per chi non crede e il conforto della fede per chi crede. La Chiesa fa sentire la sua voce. Mi rendo conto che siamo sempre in tensione tra ministero ordinato e popolo di Dio. La Chiesa non sono solamente i preti che sono presenti, ma anche i tanti infermieri che in questo tempo hanno accudito i malati sino alla morte e il popolo di Dio che esercita il suo ministero in questa presenza».

«Bisogna stare attenti – continua – che questo modo di comunicare diventi una modalità normale. L’Eucaristia è con la comunità poiché la Chiesa è il corpo di Cristo. Ma in quanto fatto di carne non possiamo e non dobbiamo pensare di entrare in un tempo di tecnocrazia, in cui si delega alla tecnologia il nostro essere comunità».

È molto netto il giudizio di don Rubagotti su questo tema. «La tecnica, laddove c’è una difficoltà, è utile. Ma questa non dev’essere l’unica modalità di fare Chiesa. E non perché lo dice il prete, ma perché lo dice l’esperienza cristiana, che è guardare avanti con gli occhi fatti di carne. In questo tempo il pericolo è di entrare nella tecno-oligarchia, come già avviene in alcuni stati dell’estremo oriente. Questa è una reale minaccia per il presente».

E giunge accorato un appello alla sua chiesa, dalla quale, ci tiene a sottolinearlo, non si è mai sentito abbandonato. «Ho sentito la Chiesa diocesana e le parrocchie di Casalmaggiore come respiro di sostegno, che mi stanno aiutando ancora a sentirmi parte attiva nonostante tutto. In particolare un grazie va ai miei sacerdoti, don Arrigo in primis, per aver mantenuto vivi gli ambienti e aperte le chiese. E un pensiero speciale a don Cesare, che sta combattendo contro la malattia».

Nonostante ciò, secondo don Claudio «è auspicabile che, a partire da queste circostanze, che non sono una fase, ma danno avvio a un nuovo tempo della nostra vita ecclesiale, la Chiesa faccia delle scelte. Aspettiamo un’indicazione che la Chiesa italiana deve essere autorevole nel dare». Il desiderio è che possa essere concordato, a livello nazionale, un piano di vicinanza della Chiesa con il popolo di Dio, sia quello che desidera ricevere l’Eucaristia, sia chi sta perdendo un famigliare e vorrebbe essergli accanto.

«Occorre legittimare il fatto che, con le dovute protezioni, si possa andare nelle chiese a pregare e si possa celebrare l’Eucaristia. Che il prete possa essere messo in sicurezza e stare accanto a un famigliare che ha perduto un caro. Occorre pensare che lo stesso famigliare che voglia assistere il suo amato malato lo possa farlo. Perché non è forse Chiesa anche il famigliare che chiede di stare accanto al morente? Sento l’urgenza della voce dei nostri Vescovi come senso del popolo di Dio. La Chiesa ha sempre trovato modalità per essere, nella storia, casa tra le case».

E conclude: «Noi siamo popolo di Dio e questo popolo deve giocare la sua carta. Compagno di viaggio in questo viaggio di dolore ma anche di speranza».

Sara Pisani
TeleRadio Cremona Cittanova
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