Adeguamento liturgico in Cattedrale, don Gaiardi: «Cenacolo di storia, di arte, di religione»

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Di seguito l’intervento che don Gianluca Gaiardi, incaricato diocesano per i Beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto, ha proposto in Cattedrale nel pomeriggio di domenica 6 novembre, prima della Messa di Dedicazione del nuovo altare.

 

Permettetemi una breve introduzione al luogo in cui ci troviamo, prima della celebrazione che stiamo per vivere.  A distanza di un anno dalla felice inaugurazione del Museo diocesano, proprio qui dopo i primi vespri della solennità di S. Omobono, la direttrice dei musei vaticani e amica carissima, dottoressa Barbara Jatta, ricordava l’esaltante definizione del celebre critico d’arte Roberto Longhi che ha chiamato  la nostra cattedrale  “la Cappella Sistina della Val Padana”.

In questa occasione mi piace invece usare le parole  che papa Paolo VI rivolse agli artisti nella sua illuminata omelia nel lontano 1964, in pieno Concilio: “Ci premerebbe, prima di questo breve colloquio, di sgombrare il vostro animo da certa apprensione, da qualche turbamento, che può facilmente sorprendere chi si trova, in una occasione come questa, nella Cappella Sistina. Non c’è forse luogo che faccia più pensare e più trepidare, che incuta più timidezza e nello stesso tempo ecciti maggiormente i sentimenti dell’anima. Ebbene, proprio voi, artisti, dovete essere i primi a togliere dall’anima la istintiva titubanza, che nasce nell’entrare in questo cenacolo di storia, di arte, di religione, di destini umani, di ricordi, di presagi”. (omelia agli artisti di papa Paolo VI, 7 maggio 1964)

La lezione conciliare, per quanto repressa da decenni di ermeneutica a ribasso, ha dotato la cultura cristiana di uno sguardo nuovo, restituendole l’umiltà di imparare dalle cose del mondo. Il cattolicesimo vive nel continuo affanno del rincorrere un mondo che persiste nel sorpasso, mettendolo nella pericolosa tentazione del rancore, del risentimento, quando non della regressione integralista.

La Cattedrale così come la vediamo ora è frutto continuo di sovrapposizioni, smantellamenti, adattamenti, rielaborazioni e ricostruzioni. In una parola di “stratificazioni”: le più significative quelle dei dettami tridentini dell’arcivescovo Carlo Borromeo che volutamente non abbiamo cancellato come successo in altre cattedrali a noi vicine. Abbiamo raccolto il testimone di chi ci ha preceduto, soprattutto nei decenni più recenti, personalità illuminate come il vescovo Enrico Assi e mons. Franco Voltini hanno discusso e operato per il desiderio di un nuovo adeguamento liturgico secondo i dettami del Concilio Vaticano II. Nel 2018 la svolta, con la partecipazione e la vincita del bando nazionale promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana. Preziosa occasione per portare la discussione oltre gli angusti confini diocesani (il mio personale ringraziamento a don Valerio Pennasso). Le lunghe discussioni per la realizzazione di un documento preliminare di progettazione, l’apertura di un concorso che ha raccolto l’interesse di oltre 200 progettisti: architetti, liturgisti e artisti, ci ha portato alla proclamazione del gruppo vincitore. Oggi ci complimentiamo con l’architetto capogruppo Massimiliano Valdinoci, coadiuvato dagli architetti Maicher Biagini, Annalisa Petrilli, Carla Zito e Francesco Zanbon, con Goffredo Boselli che in qualità di liturgista ha sapientemente accompagnato la progettazione, il maestro Gianmaria Potenza che ha modellato e forgiato gli elementi preminenti, la professoressa Francesca Flores d’Arcais che in qualità di storica dell’arte ed esperta medievalista ha accompagnato la riflessione e lo studio. Del progetto ora vediamo la realizzazione grazie a chi si è sporcato le mani.

L’arte “contemporanea” è sicuramente un laboratorio di ricerca umana, intenso e vivo, colto e creativo, variegato e multiforme, irriducibile a schematizzazioni di comodo. Un altare prodotto dalla più aggiornata e raffinata cultura del design lascerebbe presumibilmente perplessi, mentre la bigiotteria smaltata che riproduce la finta magnificenza degli altari barocchi poteva essere immediatamente riconosciuta come oggettiva evocazione del sacro cristiano. L’arte è una trincea lungo la quale spesso si  combattono conflitti molto vasti: in questa occasione sono certo di poter dire che non abbiamo eseguito una semplice operazione di allineamento del gusto.

L’adeguamento liturgico della nostra Cattedrale nasce da un progetto architettonico colto, in armonia con un programma artistico e iconografico coerente con l’insieme. Vorrei farvi gustare la raffinatezza con la quale sono stati progettati gli elementi architettonici sui quali emergono i poli liturgici. Le proporzioni delle linee, la scelta dei preziosi materiali che si armonizzano con i precedenti inserti, un accostamento delicato, fluttuante. Un gesto di committenza consapevole e forte che ha posto le condizioni per una presenza artistica “contemporanea” non puramente tollerata come debito necessario allo spirito dei tempi, ma proprio come gesto fondatore della qualità teologica e liturgica dell’opera complessiva. Chi avrà occhi per vedere, con reale sensibilità spirituale e con effettiva competenza culturale, potrà vedere da sé, con grande immediatezza emotiva, la forza che il linguaggio usato ha saputo stare nel perimetro di una logica tutt’altro che facile come quella della nostra Cattedrale. Chi ha studiato la storia di questo edificio conosce che nei secoli le diatribe per le scelte che la committenza fece degli artisti e le critiche che talvolta ne seguirono. Noi ora contempliamo l’insieme come armonioso, e non come frutto di confronti e compromessi.

Gli interventi artistici che questa Cattedrale non semplicemente ospita e contiene, ma da cui riceve forma e sostanza e che ha saputo generare, sono una dimostrazione di come anche l’arte “contemporanea” abbia risorse espressive e mezzi formali per comunicare spiritualità, generando le forme di un’”arte sacra” svincolata dalla pura mimesi storica, anzi rinnovandone l’incanto, l’efficacia e l’inventiva. Vorrei accompagnarvi a gustare la semplice leggerezza con la quale il maestro Potenza  ha ricamato con stilemi contemporanei la tovaglia liturgica che Boselli ha interpretato come tovaglia e sudario che si posa sull’altare-mensa: “l’immagine del sudario che ha avvolto il corpo di Cristo e che dopo la resurrezione è rimasto piegato sul sepolcro ha guidato la fase ideativa. Si è immaginato che tale sudario, dispiegato, avvolgesse l’altare come una tovaglia, impreziosita da filigrana. Ciò è diventato una “tovaglia marmorea” a forma di croce per testimoniare che l’altare è al tempo stesso “tavola del Signore” (1Cor 10,21) e luogo del memoriale pasquale”.

Quadrato, cerchio, rettangolo, le forme geometriche che costituiscono la base degli elementi grafici così come li definì nel suo celebre libro  Kandisky “Punto linea e superficie”, sono recuperati anche nel fronte dell’ambone, luogo preminente per la proclamazione della Parola di Dio e che si srotola come pergamena bronzea. Il segno della Parola di Dio si incide nel bronzo con grafemi di un celato alfabeto. La cattedra, sede del magistero episcopale, richiama la celebre cattedra ravennate di Massimiano. Il candelabro del cero pasquale, posto accanto all’ambone si erge come colonna di fuoco e luce che illumina le notti del popolo eletto nel deserto.

Permettetemi di concludere citando ancora una volta le parole di scusa che Paolo VI rivolse agli artisti nel suo magistrale discorso: “Vi abbiamo fatto tribolare, perché vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità. Noi – vi si diceva – abbiamo questo stile, bisogna adeguarvisi; noi abbiamo questa tradizione, e bisogna esservi fedeli; noi abbiamo questi maestri, e bisogna seguirli; noi abbiamo questi canoni, e non v’è via di uscita. Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci ! E poi vi abbiamo abbandonato anche noi. Non vi abbiamo spiegato le nostre cose, non vi abbiamo introdotti nella cella segreta, dove i misteri di Dio fanno balzare il cuore dell’uomo di gioia, di speranza, di letizia, di ebbrezza. Non vi abbiamo avuti allievi, amici, conversatori; perciò voi non ci avete conosciuto”. (omelia agli artisti di papa Paolo VI, 7 maggio 1964)

In questa occasione possiamo invece dire di aver ritessuto trame, annodato i fili dell’amicizia, di esserci conosciuti. Un presente di cui oggi diventiamo i testimoni che si aggiunge alla ricca eredità che consegniamo alle generazioni future.

 

 


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