Ricordo del vescovo Bolognini, Marchesi: “Uomo dotato di prudenza produttiva”

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Da ragazzino di Antegnate poi entrato in Seminario, a giovane prete novello inviato a perfezionare gli studi a Roma: mons. Mario Marchesi, oggi vicario giudiziale dopo essere stato vicario generale della Diocesi dal 2003 al 2016, ricorda alcuni momenti e incontri con il vescovo Danio Bolognini, in occasione del 50° anniversario della morte.

 

Mons. Mario Marchesi

Dopo aver esaminato molto del materiale che si trova pubblicato su di lui, alla morte e negli anni successivi, quindi già disponibile anche a voi, penso che basti limitarmi, per quello che potrà servire, a richiamare alcuni ricordi personali, quelli che mi sono sembrati emblematici di qualche suo tratto personale.

Il 5 novembre 1955, nella parrocchia di Antegnate fu grande festa in onore della Madonna del Rosario, in ricordo dei 250 anni di un fatto singolare. Avevo 17 anni, senza una concreta presenza di vocazione presbiterale. Era domenica. Pioveva a dirotto, come nei due giorni precedenti. Nel pomeriggio, in chiesa vi erano diversi fedeli, forse per la celebrazione dei vespri. Senza preavviso, a un certo punto arrivò il vescovo, che vedevo per la prima volta. Fatti sedere i presenti, incominciò a spiegare che era di passaggio e si era fermato per onorare la Vergine. Poi fece andare il discorso sul simulacro della Madonna con il “vestito” e disse che sarebbe stato bene cambiarlo con una statua vera. Di quel momento mi sono rimaste impresse nella memoria la robusta figura dell’uomo, in piedi rivolto alla gente, e la lunga discussione che ne derivò, con lui, calmo, pacato nel discorrere; ascoltava senza scomporsi, insistendo sulle ragioni per il cambiamento. Se ne andò chiedendo alla gente di pensarci insieme al parroco con serenità e serietà. Una curiosità: qualche tempo dopo il simulacro fu cambiato, ma successivamente, e attualmente, si è ritornati al simulacro vestito!

Il secondo ricordo mi riporta al tempo del Seminario, probabilmente all’anno 1964. Ero il “prefetto” dei ginnasiali (in quinta erano una ventina). Allora, il rito della “vestizione” veniva fatto in parrocchia, prima dell’ingresso al liceo. Il rettore mi disse che il vescovo desiderava sapere che cosa ne pensassero i ragazzi circa la vestizione. Feci il sondaggio richiesto e glielo riferii. Non ne sentii più parlare fino al soggiorno estivo di Candalino. Qui, il vescovo convocò un pomeriggio teologi, liceali e ginnasiali. Parlò per un’ora, insistendo sull’importanza della veste talare per il seminarista e per il prete e poi si rivolse a me, mi fece alzare in piedi e mi chiese quale fosse il pensiero dei ginnasiali (non lo disse ma, ovviamente, già gli era stato comunicato). La sua inaspettata conclusione: «Da quest’anno la “vestizione” non si farà più al termine del ginnasio, ma all’inizio della teologia».

Prima del conferimento del diaconato, il vescovo riceveva ognuno personalmente. Durante l’incontro, a un certo punto mi chiese se amavo la Chiesa. Alla mia risposta affermativa, alzò i gomiti dalla scrivania sulla quale era appoggiato, rizzò la sua mole, batté un pugno e rimarcò con voce forte: «Attento! Io intendo dire se vuoi bene a questa Chiesa, così come essa è fatta, anche con le sue storture umane». Andò avanti a lungo, parlando della Chiesa e delle sue esperienze in essa, buone e meno buone.

Quando divenni prete, la sua scelta fu di mandarmi a Roma per completare gli studi. Tra altre, mi fece queste due raccomandazioni. La prima: «Ho pensato che tu faccia, nel primo anno la licenza in Teologia, poi frequenterai il Diritto canonico, perché mi serve uno che insegni Teologia morale». Proprio così, secondo la prassi del tempo! Tuttavia aggiunse anche di sapere dell’esistenza a Roma di una iniziale università d’indirizzo morale e, pertanto, mi suggerì di frequentare qualche corso per capire gli aggiornamenti che erano in atto. L’altra fu quella che, più o meno in forma simile, ha fatto anche ad altri preti mandati a Roma per lo studio. Disse: «Ti raccomando, conserva la fede. Se hai salda fede e fai qualche sbaglio nei costumi, riesci a recuperarti, ma se perdi la fede andranno in frantumi anche i costumi!».

Al termine dei quattro anni di studio avevo già pronta la tesi di laurea. A quel tempo non esisteva il sistema di sostentamento del clero. Per far dattilografare la copie da depositare presso l’università mi occorrevano dei soldi, e non li avevo. Durante le vacanze pasquali andai da lui, gli esposi il problema e chiesi di poter avere le centocinquantamila lire necessarie. Come sua abitudine mi tenne parecchio tempo, parlandomi di varie cose; poi prese un bigliettino, vi scrisse qualcosa e, dandomelo, mi disse di scendere in Curia. Con mia meraviglia vi lessi che aveva scritto il doppio di quello che avevo chiesto.

Ne avrei diversi altri, significativi del suo modo di essere e di rapportarsi, almeno per quello che mi riguarda. Preferisco chiudere con un suo elogio indiretto, da me sentito in una riunione del clero diocesano. Parlando pubblicamente, un vicario generale, con un suo modo assai caratteristico, lasciò cadere questa osservazione: «Vi ricordate il vescovo Bolognini? Chi di voi si è sentito fare da lui un elogio personale diretto? Con noi è sempre stato piuttosto riservato e anche burbero. Tutti però sappiamo che, fuori diocesi, si vantava di noi suoi preti!».

Sono soltanto aneddoti, ma mi sembra che facciano trasparire, almeno in modo embrionale, la sua caratteristica umana ed episcopale. L’epigrafe sulla sua tomba, composta da don Carlo Bellò, inizia con “Vir prudentia cautus”. La trasformo così: “Uomo dotato di prudenza produttiva”. Ha inciso profondamente sulla nostra Chiesa, in tutte le dimensioni della pastorale diocesana da autentico riformatore, non smantellando quello che c’era, ma facendolo evolvere dall’interno, senza spinte avventate, innestandovi l’essenziale degli orientamenti che il Concilio Vaticano II aveva risvegliato.

Mons. Mario Marchesi

TeleRadio Cremona Cittanova
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