Morire e crescere: guardiamo ai giovani nel tempo della pandemia

Una riflessione degli operatori del Consultorio Ucipem di Cremona

image_pdfimage_print

I giovani, nel pieno della loro crescita e dell’esplosione dello sviluppo, hanno, paradossalmente, molto a che fare con la morte. Proprio in questa fase della vita, infatti, i ragazzi iniziano a concepire e a pensare l’idea di morte come qualcosa che li possa colpire in prima persona. Il loro corpo percepito come mortale, corruttibile e finito, contribuisce ad aumentare in essi angosce e sentimenti depressivi. Il concetto di morte si affaccia nelle loro menti richiedendo grandi sforzi ed energie per poter rielaborare questo fisiologico lutto che ha a che fare con un corpo cambiato, non più bambino, un corpo fragile, bisognoso dell’altro e destinato ad una fine.

A questo gravoso compito, in questi mesi connotati dalla presenza del COVID-19, si sta aggiungendo un clima sociale caratterizzato da una diffusa angoscia di morte: i telegiornali fanno la conta di contagi e decessi, la vicinanza e i gesti affettivi sono connotati dalla pericolosità; il movimento, l’aggregazione, lo scambio relazionale hanno virato dall’essere fonte di crescita e vitalità all’essere un rischio. Si alzano forti i richiami dei politici e delle autorità relativamente all’osservanza di norme sempre più stringenti causate della gravità della situazione epidemiologica.
I giovani hanno incontrato così il lutto reale. Il senso di perdita vissuto ed incarnato non è più solo mentale, simbolico e fantasmatico. Molti ragazzi e ragazze nelle nostre città hanno vissuto mesi immersi in un bagno sensoriale angosciante: sirene, maschere, tute bianche, disinfettanti. Tanti hanno perso cari, parenti, nonni. La morte è entrata nelle case e nelle vite in modo prepotente. Tutti hanno perso qualcosa e rinunciato a momenti della vita che non torneranno più. Negli studi degli psicologi hanno fatto irruzione ragazzi con la sintomatologia più variegata, nulla di inedito se non fosse per l’origina traumatica comunitaria e per la privazione di risorse collettive.

Senza entrare nel merito dell’efficacia delle misure imposte, vorremmo porre l’accento sulla possibilità che tali misure possano anche rappresentare un ostacolo significativo per la crescita. I provvedimenti degli ultimi giorni sembrano agire in direzione contraria rispetto ai fisiologici compiti di sviluppo che i giovani devono affrontare per poter transitare dall’adolescenza all’adultità. Il pericolo di questo “movimento” è quello di un blocco evolutivo dalle gravose conseguenze. Ne è un esempio chiaro il passaggio dalla didattica collaborativa, relazionale ed in presenza a quella a distanza che rilega i ragazzi alla solitudine delle proprie stanze rendendo l’interazione e lo scambio difficili. Si somma a ciò la chiusura di molti contesti aggregativi e sportivi, luoghi in cui misurarsi con il gruppo dei pari spingendosi oltre il confine delle mura familiari in direzione società – città – mondo.  La dimensione gruppale e quelle dell’esperienza sono risorse imprescindibili per vivere la crescita. Isolare i giovani e limitare la possibilità di esperire anche con il corpo significa togliere loro uno strumento, acuendo i limiti di chi si trova già in difficoltà e accentuando le disparità.

Pensare esclusivamente alla fascia dei giovani in senso negativo e di privazione (ciò che non possono fare), li relega ad una posizione di ubbidienza passivizzante, li pone in una sorta di reiterata infanzia iperdipendente. Vengono demonizzati come fonti di contagio, “asintomatici untori irresponsabili”,  rimandando loro un’immagine negativa e stigmatizzante. Come possono oggi i ragazzi attraversare la crescita, i lutti, le perdite se il mondo adulto non dimostra di averli in mente come soggetti e cittadini capaci di responsabilità per il bene comune? Cosa significa sentirsi investiti da colpe quando gli adulti stessi si sono dimostrati incapaci di ammettere le proprie nei ritardi, nella poca lungimiranza e nell’assenza di progettazione ?

Il più grande lutto che i giovani devono affrontare sembra essere quello legato all’idea di futuro e di speranza. Il dolore si può affrontare se ci sono sguardi fiduciosi e impegnati a scovare risorse e competenze. Ponendoli come soggetti sacrificabili per il bene comune, stiamo restituendo loro una immagine di incompetenza e di problematicità senza fornire alcun aiuto nella ricerca del proprio personale tassello da spendere per il bene comune. Questo significa morire non crescere.

Barbara Gentili e Marianna Bufano
psicologhe e psicoterapeute Consultorio Ucipem Cremona

TeleRadio Cremona Cittanova
Facebooktwittermail