Il Vescovo ad Auschwitz: «Dio era con chi stava morendo»

Intervista a mons. Napolioni dopo la toccante visita al campo di concentramento dove morirono centinaia di migliaia di persone

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È ancora viva nel cuore e nella mente dei ragazzi cremonesi la visita al campo di concentramento di Auschwitz avvenuta nel pomeriggio di venerdì 22 luglio. Quasi un pugno nello stomaco, dopo giornate passate all’insegna del sano divermento e della spensieratezza. Un momento intenso, vissuto con serietà dal gruppo, accompagnato dal vescovo Antonio. Proprio a mons. Napolioni, durante uno dei tanti spostamenti, abbiamo chiesto le sue impressioni.

Eccellenza quale è stato il primo sentimento che ha provato attraversando il cancello di Auschwitz?

«Il trauma lo provai venticinque anni fa, quando venni per la prima volta. Certamente è un trauma che si rinnova: non si può fare l’abitudine a un dramma del genere. Sopratutto mi colpisce la follia che si coniuga con un’ironia macabra: “Il lavoro rende liberi” (la frase impressa sul cancello di ingresso di Auschwitz, ndr) è un insulto alla dignità umana non solo calpestata fisicamente, ma anche psicologicamente e spiritualmente. Un sentimento quindi di rabbia ma anche di voglia di riscatto per tutti».

Qualcuno di fronte a questa tragedia si è domandato «dove è Dio?». Lei cosa risponderebbe a questa obiezione?

«Quando la prima volta arrivai di fronte ai forni crematori che purtroppo questa volta non abbiamo potuto visitare per il grande afflusso di gruppi provai una grande certezza di fede: se l’uomo non ha scatenato una vendetta autodistruttiva davanti a un orrore del genere, significa che Dio ci tiene per mano. Quindi dove era Dio? Era in chi moriva, in chi continuava a sperare, in chi continuava a seminare vita per il futuro. Dio non si nasconde davanti ai nostri orrori, ma li condivide fino in fondo per trasformare il nostro cuore».

Quale luogo del campo l’ha colpita maggiormente?

«Oggi mi sono soffermato davanti alla garitta dalla quale veniva fatto l’appello quotidiano. Era una crudeltà con cui si riempiva il tempo: si tenevano inchiodati i prigionieri in piedi, a volte seminudi, in attesa che i carcerieri sfogassero la loro rabbia su qualcuno. Tra l’altro i carcerieri, essi stessi, si riconosceva in qualche modo prigionieri di quella realtà».

Come i ragazzi hanno vissuto questa esperienza?

«Li abbiamo visti sconcertati e anche delusi per non aver potuto vedere e analizzare alcuni particolari. Tuttavia è rimasto in tutti questo senso di realismo: tutto ciò è esistito, non si può negare o dimenticare. Ci auguriamo che i nostri giovani lo vivano con quella profondità che in realtà ho visto in loro e che certamente è stata tramessa loro dalla scuola e dalle loro comunità»

Si può dire una parola di misericordia in questo luogo dove il male assoluto si è manifestato in tutta la sua prepotenza?

«Forse dire parole diventa retorico, ma la miseriocrdia si vede e si tocca. Se noi possiamo portare dei fiori,  andare a pregare, riflettere,  ricordare vuol dire che ha vinto la misericordia, non ha vinto la violenza o la vendetta. Anche se noi non possiamo imporre a nessuno di perdonare altri quando noi non siamo coinvolti, ci accorgiamo che questa forza di benevolenza e di amore alla vita ha prevalso sempre».

La visita dei giovani cremonesi al campo di concentramento

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