Dall’accudimento alla prossimità: nuove prospettive di trasmissione della fede dagli adulti ai giovani

Lunedì 18 aprile al Centro Pastorale un incontro dedicato alla religiosità delle nuove generazioni. Presente anche il vescovo Antonio

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Sfuggenti, individualisti, religiosamente solitari, avulsi da ogni struttura gerarchica ma affascinati dalla testimonianza verace di papa Francesco e comunque sempre aperti al trascendente. È questo lo spaccato sulle nuove generazioni emerso lunedì 18 aprile durante l’incontro «Dio a modo mio. I giovani e la fede» promosso da Azione Cattolica, ufficio di pastorale giovanile e Centro Italiano Femminile al Centro pastorale diocesano. In prima fila il vescovo Antonio Napolioni, l’assistente diocesano di Ac don Giambattista Piacentini e moltissimi giovani educatori nonchè genitori, catechisti e insegnanti. «È la prima volta – ha commentato soddisfatto un papà impegnato in parrocchia – che ad un incontro vedo confrontarsi diverse generazioni su temi così importanti».

La serata, moderata dalla prof. Silvia Corbari, presidente diocesana di Azione Cattolica, è iniziata con una serie di provocazioni proposte da alcuni educatori ACR: una serie di luoghi comuni – spesso non tanto comuni – che mostrano i giovanissimi refrattari a serie proposte di formazione, incapaci di darsi delle priorità nella vita, ma anche desiderosi di trovare degli adulti “ispiratori” che permettano loro di tirar fuori la ricchezza di umanità che alberga, sopita, nel loro cuore.

L’intervento dei ragazzi ha ben introdotto la relazione della prof. Paola Bignardi, curatrice insieme a Rita Bichi, di una ricerca sulla religiosità dei giovani dal titolo “Dio a modo mio” promossa dall’ente fondatore dell’Università Cattolica “Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori”. Tale ricerca, compiuta grazie a delle interviste fatte a 150 giovani battezzati, ha dato risultati che in buona parte confermano quanto sacerdoti ed educatori sperimentano ogni giorno a scuola o in oratorio.

«L’opinione che si va diffondendo – spiega Bignardi – è che le nuove generazioni siano indifferenti a tutti quegli aspetti della vita che non fanno parte dell’esperienza concreta e quotidiana e che siano ostili a chi propone loro valori, regole, e un orientamento esigente di impegno e di responsabilità. La ricerca smentisce, invece, chi ritiene che i Millennials, ovvero i giovani che hanno compiuto 18 anni nel terzo millennio, siano una generazione incredula e che siano insensibili ai valori religiosi»

Il ritratto che emerge è piuttosto quello di un mondo giovanile che ha vissuto tutto il percorso dell’iniziazione cristiana
e che dopo la celebrazione dei sacramenti si è allontanato dalla pratica religiosa: «E fino qui non c’è nessuna novità. Ma dentro e dietro questo allontanamento vi è una sensibilità religiosa ancora viva, che si reinterpreta in maniera molto soggettiva, selezionando dal patrimonio delle conoscenze e delle esperienze ricevute ciò che ritiene sia adatto alla propria situazione del momento».

Una religiosità dunque costruita “a modo mio”, come recita il titolo del libro che raccoglie i saggi con cui i risultati
della ricerca vengono proposti, «una religiosità figlia del soggettivismo di questo periodo e al tempo stesso della domanda
di autenticità del mondo giovanile, desideroso di una fede personale. In altri termini: i giovani non ritengono di dover credere
perché’ tutti lo fanno: crede se ha delle ragioni personali per farlo».

«Se questo processo di rielaborazione – avverte Bignardi – avviene però nella solitudine, come accade a chi ha perso ogni riferimento con la comunità cristiana o con figure significative, può avere l’esito che constatiamo: una fede fai da te, una vita cristiana senza Chiesa, un’esperienza spirituale anonima e individualistica».

E in effetti Il ritratto religioso delle generazioni giovanili è inedito e non scontato: «i Millennials credono in Dio in forme anche un po’ ingenue: Gesù Cristo resta sullo sfondo del loro mondo religioso, ma credono che il cuore del cristianesimo sia l’amore verso tutti. Non vanno a Messa, ma pregano a modo loro, con pensieri e parole loro; non capiscono che cosa c’entri la Chiesa con la loro fede e hanno una benevola indifferenza verso i preti, anche se non saprebbero immaginare una Chiesa senza di loro; pensano che i linguaggi della Chiesa siano superati e non li capiscono».

E così conclude Bignardi: «La ricerca è in fondo una grande provocazione per la nostra Chiesa che è chiamata a ripensare il suo modo di essere comunità e il linguaggio e le modalità che utilizza per trasmettere l’esperienza di fede».

La serata è proseguita con ulteriori provocazioni degli educatori ACR che hanno illustrato concretamente, attraverso dialoghi ben strutturati, come i giovani aspirino ad un’esperienza trascendente ma sono frenati da tanti dubbi di fede e spesso anche dalla controtestimonianza dei cristiani.

Un secondo contributo alla riflessione è venuto da don Paolo Arienti, responsabile dell’ufficio diocesano di pastorale giovanile, che ha esordito rimarcando che oggi la fede è meno dogmatica e più psicologica, cioè maggiormente elaborata a livello di sentire interiore, di feeling.

Il problema della trasmissione della fede, secondo Arienti, è profondamente legato all’approccio che gli adulti hanno nei confronti dei ragazzi. E a tal proposito il relatore ha utilizzato alcune categorie care al sociologo Recalcati: «Se anni fa il modello educativo era edipico, basato  in massima parte sul senso del dovere, oggi è narcisistico, fondato cioè sulla massima “fai ciò che vuoi”. Due approcci sbagliati che andrebbero sostituito con il modello di Telemaco, il figlio di Ulisse che sulla spiagga aspetta il ritorno del proprio padre affinchè scacci i proci dall’isola di Itaca e ristabilica l’ordine. Un modello, dunque, che sposta l’attenzione sulle attese dei giovani e che misura il tasso di fiducia che gli adulti hanno nei loro confronti».

Don Arienti ha poi sottolineato l’importanza di una sana distanza educativa tra i giovani e gli adulti e la necessità che le comunità cristiana evitano atteggiamenti paternalistici o maternalistici. Per il relatore, infatti, il conflitto – ormai assente tra generazioni da molto tempo – non è sempre negativo.

E se nel passato la categoria educativa che andava per la maggiore era quella dell’accudimento, oggi si preferisce parlare di prossimità poichè quest’ultima offre maggiormente l’idea di un accompagnamento discreto, verso l’autonomia.

«La ricerca – conclude don Arienti – ci interroga anche sul nostro credere e sul nostro modo di trasmettere la fede alle nuove generazioni. Non si tratta di cambiare i linguaggi, ma di comprendere il vero dinamismo della fede cristiana». Per don Paolo, dunque, è necessario che prima di tutto l’adulto valuti lo spessore della sua fede e l’incidenza che essa ha nel vivere quotidiano: dal modo di pregare all’atteggiamento di “dare e avere” che spesso connota il rapporto con Dio.

In ultima analisi occorre decodificare le fatiche che il mondo giovanile vive in questa nostra società destrutturata, senza censure e senza condanne. Ma ciò è possibile solo se l’adulto fa verità dentro se stesso e riconosce che anche per lui l’adesione a Cristo e alla sua Chiesa non è sempre semplice e facile.

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