Ordinazione episcopale di mons. Napolioni: il liturgista don Cavagnoli spiega il suggestivo rito

I due atteggiamenti, che scandiranno la sequenza rituale della festosa celebrazione di sabato 30 gennaio, si possono focalizzare nel silenzio adorante e nell’imposizione delle mani.

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Mancano davvero pochi giorni all’ordinazione episcopale di mons. Antonio Napolioni, un rito complesso e suggestivo, ricco di gesti e di segni che non a tutti sono di facile comprensione. A don Gianni Cavagnoli, docente di liturgia e parroco di Cristo Re in città, abbiamo chiesto di introdurci a questa celebrazione così da poterla vivere con consapevolezza e attenzione.

L’esultanza di una Chiesa per l’elezione all’episcopato di un pastore, in questo caso mons. Antonio Napolioni, raggiunge il suo apice nel momento dell’ordinazione. Già nel III secolo un documento assai noto, la Tradizione Apostolica, così delineava tale celebrazione nella sua essenzialità: “Si riuniranno, di domenica, il popolo, il collegio dei sacerdoti e i vescovi presenti. Questi ultimi, con il consenso di tutti, impongano le mani sull’eletto, mentre i sacerdoti assistano senza fare nulla. Tutti tacciano, ma preghino in cuor loro per la discesa dello Spirito Santo” (cap. 2). I due atteggiamenti, che scandiscono la sequenza rituale della festosa celebrazione di sabato 30 gennaio, si possono allora focalizzare nel silenzio adorante e nell’imposizione delle mani.

1.    La gratuita azione divina

Il primo esprime lo stupore della Chiesa, riunita nella sua differenziazione ministeriale, di fronte alla scelta divina e all’azione interiore dello Spirito Santo. Nella fattispecie, si può veramente proclamare questo prioritario intervento, in quanto l’eletto, don Antonio, del tutto alieno da aspirazioni di arrivismo ecclesiale, si protende ancor più nell’approfondimento del servizio.

Qui davvero tutto è grazia e le Chiese di Camerino e di Cremona esultano, ascoltando le assodate affermazioni del vescovo s. Agostino: “Ora noi che il Signore, per bontà sua e non per nostro merito, ha posto in questo ufficio dobbiamo distinguere molto bene due cose: la prima cioè che siamo cristiani, la seconda che siamo posti a capo. Perciò, dovremo rendere conto a Dio prima di tutto della nostra vita, come cristiani, ma poi dovremo rispondere in modo particolare dell’esercizio del nostro ministero, come pastori” (Disc. 46).

L’imposizione delle mani silenziosa da parte del vescovo emerito Dante e degli altri vescovi presenti garantirà questo evento, convalidandolo con l’accorata preghiera di ordinazione: “O Padre, che conosci i segreti dei cuori, concedi a questo tuo servo, da te eletto all’episcopato, di pascere il tuo santo gregge. Egli ti serva notte e giorno, per renderti sempre a noi propizio e per offrirti i doni della tua santa Chiesa”.

Servizio che sarà ancor più visibilizzato allorché a don Antonio verrà unto il capo con l’olio del crisma, per esprimere la sua particolare partecipazione al sacerdozio di Cristo: in altri termini, la generosa donazione di sé a un gregge che, in nome del Signore, è chiamato ad amare e a servire in tutte le sue componenti, particolarmente nei poveri e nei sofferenti.

È quanto viene garantito anche dall’antico rito della consegna del pastorale: “Ricevi il pastorale, segno del tuo ministero di pastore: abbi cura di tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo ti ha posto come vescovo a reggere la Chiesa di Dio”.

2.    I compiti del vescovo ordinato

Una lunga requisitoria di ben nove interrogativi, posta all’esordio del rito, mette sull’attenti chi è ordinato: gli vengono richiamati i compiti essenziali che si assume, perché dichiari la sua disponibilità di fondo: “Sì, lo voglio”. Sarà la vita, poi, a conferire spessore di concretezza a quanto viene enucleato in una sequenza così gravosa.

Ma questo tassello si unisce subito al singolare rito della prostrazione a terra, mentre si enumerano, nell’invocazione orante, i vari santi. È proprio da questo incontro tra la nostra povertà, espressa simbolicamente da una corporeità prona, quasi affossata nella “sepoltura” di sé, e la ricchezza della potenza divina, implorata mediante le personalità “riuscite” nell’esperienza cristiana, che va delineandosi il senso della speranza, pregnante in tutta l’ordinazione: “Dio che ha iniziato in te la sua opera, la porti a compimento”.

Si comprendono in pienezza, allora, sia la consegna del libro dei Vangeli, espressione precipua del compito del vescovo nei confronti della Parola, che dovrà annunciare in ogni occasione, opportuna e non opportuna (cfr 2 Tm 4, 2); sia la consegna della mitra, che gli richiama la santità a cui deve tendere; sia soprattutto la consegna dell’anello, segno di fedeltà alla Chiesa cremonese, che dovrà custodire come sposa nella integralità della fede e nella purezza della vita.

Insomma, lo snodarsi calmo e solenne di questa ritualità va tratteggiando gradualmente l’autenticità di una figura, quella vescovile, che trova il suo posto adeguato alla sede/cattedra, segno espressivo del suo magistero.

Una ricchezza prospettica che evidenzia, da una parte, la meravigliosa azione del Padre: egli solo scruta i cuori e dona, a quanti sceglie, quello “Spirito che regge e guida”, già trasmesso al suo Figlio. Dall’altra, la richiesta di corrispondenza a un ministero, colto e vissuto nel suo riferimento a Cristo, di cui l’eletto dovrà rendere conto a Dio.

Simile indirizzo proietta l’episcopato, e la figura di don Antonio proprio nel momento in cui lo assume, verso l’orizzonte delineato da S. Agostino: “Cristo capo affida le pecorelle a Pietro, come figura del corpo, cioè Cristo e Pietro vennero a formare una cosa sola, come lo sposo e la sposa. Egli solo pertanto pasce nei pastori, ed essi pascono in lui solo. Tutti perciò si trovino nell’unico pastore ed esprimano l’unica voce del pastore. Le pecore ascoltino questa voce e seguano il loro pastore: non questo o quell’altro, ma uno solo. E tutti in lui facciano sentire una sola voce, non abbiano voci diverse” (Disc. 46).

È l’augurio che formuliamo al vescovo Antonio, nel giorno della sua ordinazione, mentre con lui dichiariamo di voler servire il Signore nella gioia, per sempre.

Gianni Cavagnoli

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