Una Chiesa senza preti? L’analisi di Campanini

Don Paolo Arienti rilegge un recente saggio del docente universario esperto di storia del laicato cattolico che pone importanti interrogati circa la diminuzione del clero nel nostro Paese

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«Senza preti? Nuove vie per l’evangelizzazione» è il titolo dell’ultimo contributo di Giorgio Campanini (classe 1930) ed ha il tenore del saggio. Lo si legge in pochissimo tempo e, se pecca forse di non originalità e non-finito, mantiene il pregio di rilanciare con estrema chiarezza uno dei cuori più problematici ed avvincenti del presente ecclesiale: che cosa può e deve accadere in una Chiesa a bassa presenza presbiterale? Che ne è del modello sacerdotale-parrocchiale classico che sembra aver retto, soprattutto in zone con abbondanza di clero, sino ad oggi ha garantito una presenza capillare dell’evangelizzazione, dei simboli della fede, delle prassi ecclesiali?

Come si intuisce, la domanda è già abbastanza “datata” e risale, come fenomeno sociologico, alla forte “crisi del prete” degli anni ’70, forse troppo frettolosamente imputata alle “virate ecclesiologiche” del Vaticano II. Con evidenza la domanda è ancora impellente: davanti ad un lavoro più preciso che porterà alla ridefinizione delle zone pastorali e delle aggregazioni, dentro oratori che sono sempre meno guidati da preti giovani, a fronte di un contesto sociale sfilacciato…

Campanini se la cava rapidamente indicando tre percorsi di fatto logicamente successivi nella ricerca ecclesiale degli ultimi cinquant’anni e forse ancora specchio troppo debole di una impostazione comunque debitrice di un certo modello sacrale: il rilancio del diaconato permanente, l’inserimento in pastorale delle figure religiose femminili, l’anelito a nuove ministerialità laicali. Sin qui, appunto, nulla di nuovo, se non l’implicita dichiarazione di stasi delle vie addotte, soprattutto le prime due, in apparenza quelle più lineari e semplici, poiché legate la prima ad un grado dell’Ordine, la seconda ad una configurazione vocazionale.

Certi meccanismi non sono decollati, tantomeno si sta profilando una convincente scelta di ministerialità laicali, intuite sì, ma non perseguite con chiarezza. Alcuni casi positivi e operativi non mancano: e si tratta di realtà in cui si è iniziato davvero a coinvolgere in un clima di relazioni fraterne coppie, qualche giovane educatore, qualche famiglia, alcuni adulti per un discernimento di servizio tutt’altro che banale. Lì è successo che si è investito in relazioni ecclesiali vere, il più possibile libere dal potere e dalla strategia; lì si è abitata insieme la comunità, si è scesi dai rispettivi piedistalli perché un lavoro comune aspetta.

Il quadro generale è ancora quello di una struttura bloccata. Quando un parroco mette a disposizione una delle (tante) case parrocchiali, stenta a trovare una famiglia interessata; le pastorali giovanili lombarde fanno fatica a spendere tutti i contributi per giovani in servizio negli Oratori; i presbiteri cavalcano sempre più l’auto per garantire una minima visibilità anche in piccole comunità, ridotte quasi all’osso. Sono in molti a sostenerlo: in fondo si sta procedendo ancora ad un ennesimo “adattamento”, assolutamente onorevole, di un modello clericale su di una base che sociologicamente è mutata.

Persistono alcune convinzioni granitiche circa la presenza di un cristianesimo naturale un po’ ovunque e di una convenienza genetica della fede nelle piccole o grandi società italiane. Si teme di “smontare tutto” interrompendo una presenza, suonando la ritirata, chiudendo luoghi di culto, Oratori e percorsi. Ma questo sta già accadendo, se non nella forma palese della “serranda abbassata” (un po’ come accaduto in tante diocesi ad es. francesi), nella riduzione quasi totale dei dinamismi comunitari.

E il paradosso è che resta proprio (e a volte “solo”) il cuore di tutto, quell’Eucaristia che è culmine e fonte. Un paradosso che insegna molto, perché si è richiesti di uno sguardo di fede e non solo di una verve organizzativa. Ma se c’è l’Eucaristia, come e dove è la forma della Chiesa? Quale forma la onora e la incarna con maggior coerenza?

Verrebbe voglia di cercare dopo la centesima pagina del saggio di Campanini qualche affondo in più, facendo affiorare quanto si vede e si avverte. Verrebbe voglia di interrogarsi almeno su altri due fattori decisivi, uno “interno” alla struttura stabile della Chiesa (il presbiterio e la sua elasticità pastorale, il suo statuto di fraternità e di servizio, la sua reale condizione di salute e di età), l’altro per certi versi “esterno”, o meglio “storico”, espressione della realtà socio-religiosa.

Il primo rimanda alla configurazione reale delle comunità, alla loro ragione ecclesiologica, ancora troppo “clericale”, se si eccettua la fanteria catechistica e qualche figura di animazione liturgica; le comunità – detto in altri termini – faticano a riconoscersi se stesse, mentre i battezzati vivono quasi in bilico tra ospitalità e protagonismo. E la liturgia, bisbigliata o infreddolita, ne è impietosa guardiana. Il secondo fa affiorare la questione forse più seria che da anni ha preso il nome di “inevidenza della fede”, figlia della secolarizzazione, forte non tanto negli sguardi dei più giovani (gli “analfabeti del sacro”), quanto nella prassi dei loro adulti di riferimento.

Numeri assottigliati possono generare un senso di fallimento, misto a colpa e a revanchismo per una cultura diventata “ingrata”. Oppure possono indurre ad alleggerire strutture e percorsi, ad accrescere l’idea di “cenacoli profetici” che non aggrediscono nessuno, ma a tutti offrono uno stile di vita ed una ragione di sguardo sulle cose: una Chiesa che continua la sua missione di stare accanto, parrocchia nel senso etimologico del termine, e regge bassa intensità, riduzione numerica, scarsa influenza politica.

Sarà solo una Chiesa in ritirata? O avrà la forza di ridire il bello e il vero con le parole della vita, percorrendo alternative reali? Anche la piazza su cui si affaccia il luogo di culto è quasi deserta e non è ancora giunta l’ondata di denatalità più forte. Si ha il coraggio di investire recuperando in alleanze vere, in risorse più semplici e libere, in fantasia più efficace? Si ha il coraggio di credere nell’altro e nella sua preziosità, sino al punto di superare il simbolico della “casa canonica”, del servizio “in parrocchia”, del “fammi un favore”? non sta forse qui una delle più convincenti ragioni del catecumenato catechistico in diocesi?

Campanini insiste sulle basi ecclesiologiche delle nuove ministerialità e parla di policentrismo ecclesiale. In una diocesi che riavvia pensieri di futuro la cosa non è banale. Anzi, è promettente. Comunque saranno numeri e condizioni.  Leggere questo testo e cercare di completarlo con lo sguardo sulle liturgie, le famiglie e gli oratori della diocesi è un esercizio opportuno; una di quelle conversioni che bussano.

Don Paolo Arienti

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