No al caporalato e allo sfruttamento nella filiera del pomodoro

Siglata a Roma una nuova alleanza tra aziende profit e organizzazioni no profit per produrre e distribuire conserve di pomodori provenienti da una filiera agro-alimentare etica e solidale

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Produrre e vendere conserve di pomodoro etiche e solidali, senza lo sfruttamento dei lavoratori e di tutti gli altri attori della filiera agro-alimentare è possibile. Lo dimostra un progetto molto innovativo che propone un modello alternativo, economico e culturale: si tratta di “Funky Tomato”, una nuova alleanza tra aziende profit e organizzazioni no profit, che hanno unito le forze per proporre ai consumatori prodotti provenienti da una filiera trasparente e partecipata. Il nuovo “contratto di rete 2019” di questa comunità economica solidale, dopo una prima alleanza nel novembre 2018, è stato siglato oggi Roma, nella sede di Oxfam Italia, tra Funky Tomato, Cooperativa (R)esi­stenza, La Fiammante, Oxfam Italia, Storytelling Meridiano, Dol (Di origine laziale), AgroBio srl e Op Mediterraneo, che lancia ufficialmente la Campagna Preacquisto 2019. Gas (Gruppi di acquisto solidale), ristoratori e privati cittadini potranno sostenere direttamente gli agricoltori della rete.

400.000 lavoratori a rischio caporalato. Secondo le stime sono circa 400 mila i lavoratori a rischio caporalato in Italia e migliaia i braccianti a rischio di sfruttamento impiegati nella raccolta del pomodoro, metà dei rapporti di lavoro lungo la filiera sarebbe illecita.

L’industria italiana del pomodoro rappresenta oltre il 12% della produzione mondiale e il 55% della produzione europea,

coinvolgendo quasi 10 mila agricoltori e 120 aziende di trasformazione, per un giro di affari annuo compreso tra 1,4 e 2 miliardi di euro. Ma dietro a questo business si cela spesso un meccanismo polarizzato di pochi grandi attori, tra industrie alimentari e attori della grande distribuzione, che dominano il mercato, praticando politiche di prezzo al ribasso che hanno conseguenze drammatiche sulle condizioni di lavoro, la salute, l’ambiente e la sostenibilità economica di lungo periodo. Dai contadini che non riescono a rientrare nei costi di produzione e molto spesso finiscono per chiudere la propria azienda agricola, alle migliaia di braccianti stranieri, per lo più originari dell’Africa sub-sahariana, che cercano impiego nella raccolta del pomodoro e finiscono per vivere e lavorare al di fuori della legalità e della dignità.

Paolo Russo e Guido De Togni, di Funky Tomato

Il progetto Funky Tomato. Per contrastare questo trend nefasto, nel 2015, dopo la morte della bracciante Paola Clemente a Taranto, è stato avviato il progetto Funky Tomato, con 4 beneficiari e circa 90 quintali di prodotto trasformato. Da allora i volumi di produzione sono aumentati di 55 volte arrivando nel 2018 a 5.000 quintali di prodotto finito, con il coinvolgimento di una trentina di lavoratori presi in carico dagli agricoltori della filiera, nel foggiano in Puglia, nel Parco del Pollino in Calabria e a Scampia in Campania. “Ci siamo resi conto che non solo i lavoratori ma tutti i soggetti della filiera sono oggetto di sfruttamento – ha spiegato durante la conferenza stampa Paolo Russo, di Funky Tomato – Perciò abbiamo realizzato

una filiera di produzione di conserve di pomodoro che garantisce il rispetto e la dignità di tutti gli attori coinvolti,

promuovendo un’agricoltura diversificata, attenta alle relazioni di lavoro, capace di costruire percorsi di inserimento lavorativo e di interazione culturale. Siamo riusciti ad ottenere un prodotto ad un prezzo accessibile”. Alla base del contratto c’è un disciplinare etico di produzione condiviso da tutti i soggetti (agricoltori, imprese, intermediari, lavoratori), “con una struttura circolare a rete che rende trasparente il prezzo e la filiera e aiuta i soggetti più deboli – ha aggiunto Guido De Togni, di Funky Tomato -. Dobbiamo coinvolgere tutti gli attori della filiera per affrontare i problemi a livello sistemico e non solo sindacale”.

Tra gli imprenditori che hanno aderito con entusiasmo al progetto c’è Marco Nicastro, di Op Mediterranea, azienda di pomodoro del foggiano, una delle zone a più alta criminalità d’Italia, con la triste media di un omicidio a settimana. “Abbiamo aperto nel 1986 e tutto andava bene. Poi nel 2000 sono cambiate le dinamiche comunitarie, con un sistema di erogazioni ai produttori anziché alle industrie, che ci ha penalizzato e schiacciato – ha ricordato -. La produzione è diminuita, finché non abbiamo deciso nel 2011 di costituirci in cooperativa per affrontare il mercato e dare un prezzo equo”.

“Oggi lavoriamo 500 ettari di pomodori l’anno ma siamo tutti vittime del sistema”.

Nell’azienda lavorano anche diversi ragazzi africani regolarmente assunti. Nicastro ha ricordato che “fino al 2000 esistevano gli uffici di collocamento dove trovare la manodopera, oggi non ci sono più. Per questo il caporalato e lo sfruttamento hanno la meglio”.

A Scampia la resistenza anticamorra. Tra i partner dell’alleanza c’è anche la cooperativa Resistenza anticamorra di Scampia, realtà no profit nata dopo la faida camorristica del 2008. “Ci dicevano che per salvarci dovevamo andare via da Scampia – ha raccontato Ciro Corona -. Siamo riusciti a non scappare e oggi portiamo a scuola ai figli dei detenuti camorristi e creiamo opportunità lavorative. I genitori ci scrivono dicendo: tenete i nostri figli con noi, non gli fate fare la nostra vita”. In un terreno di 14 ettari all’interno di bene confiscato alla camorra vicino alla Reggia di Capodimonte oggi lavorano 11 detenuti “che scelgono di cambiare vita” (ne sono passati 64 nel 2018). Producono pomodori e vino.

AgenSir
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