Intervista a don Foglia sulla figura del Vescovo nella storia della diocesi e della città di Cremona

Intanto procede l'iter per il processo di beatificazione dell'arcivescovo Giovanni Cazzani

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In vista dall’arrivo di mons. Antonio Napolioni, nuovo pastore della Chiesa cremonese, abbiamo rivolto alcune domande a don Andrea Foglia, docente di storia ecclesiastica, direttore dell’Archivio storico diocesano e parroco di Sant’Abbondio, circa la figura del Vescovo nella storia della diocesi e della città di Cremona.

Don Andrea, nella serie cronologica dei vescovi che si trova nella Guida ufficiale della diocesi mons. Napolioni è l’85°. Quanto è attendibile questa numerazione?

«Per quanto riguarda l’elenco dei vescovi di Cremona, si sa che produrre una serie completa è impossibile, a causa dei grandi buchi che abbiamo per i primi secoli (dal V all’VIII). L’elenco a cui fa riferimento il n. 85 (che verrebbe attribuito al nuovo vescovo, mons. Napolioni) è quello tradizionale, che è stato però messo in discussione da studi abbastanza recenti e ben documentati. Secondo la lista pubblicata da me, in collaborazione con mons. Gallina, nel 1998 (sul volume della “Storia della Diocesi” dell’Editrice La Scuola), lista che credo sia attualmente la più attendibile (epurata dai nomi fittizi, non documentati), mons. Napolioni sarebbe il vescovo n. 79 di cui si abbiano notizie certe. Una piccola curiosità: la diocesi di Cremona ha avuto, oltre all’attuale, solo un altro vescovo col nome Antonio; si tratta di Antonio Novasconi, lodigiano di origine, che resse la diocesi dal 1850 al 867 e fu un grande pastore, uomo di raro equilibrio e di ampie vedute».

Nella storia ci sono stati dei vescovi di Cremona provenienti dalle Marche o mons. Napolioni sarà il primo Pastore a provenire da queste terre?

«Non ho trovato, tra le notizie relative ai vescovi di Cremona del passato, nessun riferimento a presuli marchigiani; l’unico debolissimo legame che mi viene in mente è con il cardinal Pietro Accolti, fiorentino di nascita, che fu vescovo di Cremona dal 1523 al 1524, ed essendo un grande cumulatore di benefici, fu, contemporaneamente, anche arcivescovo di Ancona. Ma un legame più forte, con le Marche , la città di Cremona ce l’ha, proprio nella mia parrocchia, con la “Santa Casa”, che riproduce fedelmente la santa casa di Loreto e che venne costruita nel 1624, per volontà del nobile decurione Giovan Pietro Ala, che era devotissimo del santuario marchigiano e che ne volle una copia a Cremona, presso la chiesa di S. Abbondio, allora retta dai padri Teatini».

Come ebbe origine la nostra diocesi?

«L’origine della diocesi di Cremona non è documentata in modo sicuro; si presume che Cremona abbia cominciato ad avere un vescovo proprio nel corso del IV secolo, ma non si sa quando. Il primo vescovo documentato è un po’ più tardi, a metà del V secolo. Il riferimento cristiano più antico lo abbiamo con la figura di sant’Eusebio, nato a Cremona intorno al 350: trasferitosi poi a Roma ed entrato nella cerchia dei discepoli di san Girolamo, si fece sacerdote e lo seguì a Betlemme, nel monastero da lui fondato».

Chi fu il primo vescovo documento storicamente della nostra Chiesa?

«Il primo vescovo documentato, cioè di cui si abbia notizia sicura, è Giovanni, che risulta presente al concilio provinciale di Milano, indetto dal vescovo Eusebio nel 451».

Nel corso dei secoli come si è evoluta la figura del vescovo nella nostra diocesi?

«La figura del vescovo è sempre stata, per una città come Cremona, un riferimento importante. Dall’età carolingia in poi, e per tutto il Medio Evo, esso (dopo essere stato “signore” anche temporale della città), dopo la nascita del Comune conservò molte delle sue prerogative feudali, che gli consentivano di esercitare un esteso potere anche sul territorio della diocesi, sia intorno alla città, sia, soprattutto, nella parte nord occidentale, verso Bergamo. Durante il lungo periodo di crisi che la Chiesa attraversò tra XV e prima metà del XVI secolo, la diocesi di Cremona (che era molto ricca e quindi usata come premio per i cardinali più fedeli ai papi, nella Curia romana), fu particolarmente penalizzata, e dovette sopportare per circa 90 anni (dal 1470 al 1560 circa) l’assenza del vescovo (non “residente”) che stava appunto a Roma e si limitava ad incassare le pingui rendite senza minimamente occuparsi del gregge a lui affidato. Dopo il Concilio di Trento, Cremona conobbe finalmente pastori intelligenti e zelanti, che attuarono una radicale riforma, ponendo le basi per un autentico rinnovamento della vita cristiana e per un riassetto ed un’organizzazione del territorio, in senso soprattutto pastorale, che, bene o male, si è conservata fino ad oggi».

Può ricordarci qualche figura di pastore particolarmente significativa?

«Anzitutto Nicolò Sfondrati, che resse la diocesi dal 1560 al 1590, anno della sua elezione al pontificato col nome di Gregorio XIV,  Cesare Speciano, vescovo di Cremona dal 1591 al 1607 (nunzio a Madrid, presso la corte di Filippo II e poi a Praga, presso l’imperatore Rodolfo II) e il cardinale Pietro Campori (ultimo dei presuli cremonesi ad avere la berretta cardinalizia), vescovo di Cremona dal 1621 al 1643. Tra i vescovi successivi non si deve dimenticare la figura di Alessandro Litta, milanese, che resse la diocesi dal 1718 al 1749 e fu un grande fautore della ripresa delle linee di riforma tridentine, ma in modo non stereotipo, e con piena adesione ai criteri dettati dall’amico Ludovico Antonio Muratori, per una “regolata” devozione. Per gli ultimi due secoli, tra Ottocento e prima metà del XX secolo, sono da ricordare 5 grandi pastori, che hanno lasciato, in modi diversi, una grande impronta nella vita della diocesi, a livello sia pastorale che spirituale: si tratta del cremonese Omobono Offredi (vescovo dal 1791 al 1829, ultimo cremonese a reggere la diocesi), Carlo Emanuele Sardagna, di Rovereto (grande amico di Rosmini) vescovo dal 1831 al 1837, Antonio Novasconi (già citato), Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona dal 1871 al 1914, grande figura di vescovo italiano e, soprattutto, profeta della conciliazione tra Stato e Chiesa, e Giovanni Cazzani, che resse la diocesi dal 1914 al 1952».

Se il processo canonico andrà a buon fine l’arcivescovo Giovanni Cazzani sarà beato. Lei è il postulatore, come sta andando l’iter?

«L’iter per l’introduzione della causa di beatificazione di mons. Cazzani ha preso avvio da qualche mese e, per ora, siamo ancora nella fase preparatoria: la prima iniziativa presa è stata di far subito trascrivere gli appunti manoscritti della predicazione ordinaria, che poi verranno analizzati dai periti nominati dal vescovo, insieme alle lettere pastorali e a tutti gli altri testi a stampa. Si è avviato il lavoro anche per la commissione storica, che deve mettere a fuoco soprattutto alcuni aspetti della figura e dell’episcopato del grande presule. Da qualche giorno si può trovare, nella cripta della cattedrale, accanto alla tomba del vescovo, un “totem” con alcune brevi notizie e due tasche nella quali si trovano alcune immagini con la preghiera approvata dal Vescovo e un libricino con un breve profilo biografico: il tutto può essere preso liberamente dai fedeli».

Studiando questa grande figura quale  aspetto l’ha più colpita?

«Io sono rimasto fortemente colpito dalle parole che Cazzani usò, per parlare del vescovo (e quindi di se stesso) nella prima lettera pastorale inviata alla diocesi subito dopo la sua nomina a Cremona, alla fine del 1914; sono parole degne di un “padre della Chiesa” e contengono un vero programma di vita e di ministero a cui, secondo me, Cazzani non venne mai meno. Egli parla del vescovo come di un “sacramento d’amore” : l’amore, egli dice, “è l’intima forma o, come a dire, l’anima vivificante del ministero episcopale”. Egli, cioè, ebbe sempre una piena consapevolezza dell’altissima dignità dell’episcopato, ma la visse, nello stesso tempo, con spirito di servizio e con una dedizione assoluta per il gregge a lui affidato, clero, religiosi e laici, nessuno escluso. Egli fu sempre, visibilmente, un “uomo di Dio”, ma seppe affrontare con grande concretezza la realtà del suo tempo, e fu uomo di governo, secondo la logica di un Dio che non è fuori dal mondo ma si è incarnato e continua ad incarnarsi nella storia dell’uomo. In questo senso mi ha colpito, di Cazzani, l’assiduità, direi “eroica” nell’adempimento dei doveri del suo ministero, con una dedizione davvero a 360 gradi: sempre presente, sempre disponibile, sempre vigile».

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