Il Sinodo verso la fase sapienziale: occasione per uno sguardo nuovo sull’autentico dna della Chiesa

Una riflessione di don Paolo Arienti sulle Linee Guida proposte dalla Cei

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Un mese fa la CEI licenziava le Linee guida per il prossimo anno di cammino sinodale. Le intitolava Si avvicinò e camminava con loro, indicando il racconto dei due di Emmaus (Lc 24) come l’icona promettente per il cammino che abbiamo davanti: l’esperienza dei due da Gerusalemme a Emmaus, carica di sentimenti contrastanti e di confronti critici, che culmina con la cena nella locanda accanto ad un Gesù che sparisce dalla loro vista e riaccende desideri ed entusiasmi; il ritorno nella città santa, con stili e accenti rimotivati; la memoria grata dell’ardore che riscalda chi ha fatto, insieme, esperienza del Risorto. Il testo, datato 11 luglio, da un lato fa sintesi delle narrazioni e dei cantieri vissuti nei due anni trascorsi, dall’altro attrezza a vivere il momento “sapienziale”.

Bello, e per certi versi non scontato per le prassi ecclesiali anche nostrane, il riconoscimento del valore insostituibile della gratitudine. È la prima sottolineatura del testo: la comunità del Risorto è invitata sempre a nutrirsi di questo atteggiamento che è ben più che una piaggeria da educande. Al contrario la gratitudine che sconfina con la benedizione (siamo così tanto abituati nelle celebrazioni e nelle devozioni da farne un gesto tecnico di congedo), autorizza l’altro e cura le miopie del pregiudizio.

Il resto, comprese le corpose e difficili implicazioni della sinodalità, scaturisce soprattutto dalla gratitudine e in essa si nasconde, come un germe che attende di esplicitarsi nella vita. Bello, e rischioso, l’onesto riconoscimento dell’”apertura di credito” che i cantieri e gli avvii sinodali hanno generato: è intuizione forse generale che questa stagione sinodale che mette a tema non un aspetto della dottrina o della prassi, ma la dottrina e la prassi stesse dell’autocoscienza ecclesiale, focalizzando il suo più autentico dna, è un’occasione “appesa ad un filo”. Il filo delle stanchezze che ne assottigliano continuamente lo spessore; il filo più tenace delle opportunità che però non sono infinite e non sopportano vetrine di sola immagine.

Come accade all’instrumentum laboris del sinodo universale, il passaggio dagli scenari al metodo per affrontarne la pertinenza non sempre è cosa facile; l’impressione è che il taglio sia ancora (sit venia verbo) prettamente “pastorale” (e si sa che “pastorale” è purtroppo dalle nostre parti parente stretto di clericale e fa il paio con una visione ancora non matura della teologia del laicato e della sua destinazione pienamente secolare). Alcune domande poste a snodo e rilancio risentono di qualche genericità e chiedono forse ulteriori manutenzioni: per evitare che alcuni passaggi, soprattutto quelli estremamente concreti che interpellano sul serio i processi e le prassi, non siano schiacciati dalla retorica ecclesiastica che dice il desiderio di cambiare tutto, per non cambiare poi nulla, come ci suggerirebbe il buon Gattopardo.

Le questioni centrali di cui forse anche la vita delle comunità nostrane ha bisogno, ci sono tutte, messe anche in fila con ordine. Certo, sembrano sempre molte, troppe, ma forse perché lo sono. Ed è per questo che spaventano percorsi nuovi: perché sono “senza rete di protezione” e perché, per farsi spazio, chiedono una diversa economia delle energie e delle scelte che fatalmente supera il sistema installato. Come quando, sul più bello, il nostro pc ci chiede di riavviare il software per un aggiornamento di sistema che non lascia mai le cose come prima. Nella vicenda anche cremonese delle unità pastorali, ad es., da tempo emerge il bisogno che si pongano alcuni punti fermi, non per imbrigliare le prassi che giustamente risentono delle fisionomie e delle storie locali, bensì per consentire a tutti di non perdere il riferimento diocesano (dalle nostre parti spesso debole) e crescere nella contaminazione propositiva e sinergica delle esperienze. Le Linee guida forse offrono anche questa chance che per molti non è più rinviabile sine die. Perché se le unità pastorali costituiscono in ordine di tempo la scelta più rilevante che insiste sulla forma ecclesiae, questa scelta va manutenuta, oltre la provvista pure delicata e faticosa del clero. Le osservazioni che si spera diventeranno oggetto di discernimento sinodale sul ruolo e dignità delle donne, sulle forme anche canoniche della corresponsabilità, sulla presa in carico delle strutture (anche materiali e amministrative)… vanno in questa direzione e interpellano il soggetto diocesano con chiarezza.

Un ultimo spunto balza all’occhio: le Linee guida, forse confessando una punta di italica nostalgia, insistono sulla necessità di una “fraternità culturale”, denunciandone una certa latitanza: chiedono un “nuovo discorso cristiano” che passi dai legami e dal protagonismo delle comunità. Ce n’è un bisogno enorme e senza dubbio l’emergere di spazi e tempi di narrazione, confronto e riconoscimento del Vangelo incarnato è e sarà uno dei volti più promettenti della Chiesa. Omelie comprese. Relazioni e competenze laicali comprese.

don Paolo Arienti
(parroco moderatore UP Mazzolari)

 

Sinodo, pubblicate le linee guida della Cei per la fase sapienziale

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