Domenica l’insediamento del nuovo parroco di S. Ambrogio: intervista a don Paolo Arienti, per dieci anni a servizio tra i giovani e per i giovani

La Messa di insediamento il 12 settembre alle 10 presieduta dal vescovo Antonio Napolioni

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Dieci anni di servizio tra i giovani e per i giovani dentro e fuori dall’oratorio. Don Paolo Arienti, classe 1972, domenica 12 settembre farà il suo ingresso come parroco di S. Ambrogio vescovo, a Cremona, succedendo a don Carlo Rodolfi (nominato canonico della Cattedrale). Assume anche l’incarico di moderatore dell’erigenda unità pastorale “Don Primo Mazzolari” (formata dalle parrocchie di Sant’Ambrogio, Santa Maria Nascente al Migliaro, Santa Maria Annunciata al Boschetto e Santi Nazaro e Celso in San Giuseppe al Cambonino). L’insediamento ufficiale in occasione della Messa delle 10 presieduta dal vescovo Antonio Napolioni.

Ormai alle spalle l’esperienza di incaricato dell’Ufficio diocesano per la Pastorale giovanile, presidente della Federazione Oratori Cremonesi, responsabile del coordinamento dell’area pastorale “In ascolto dei giovani” della Curia e consulente ecclesiastico del CSI di Cremona, incarichi che ricopriva dal 2011 e per i quali ha passato il testimone a don Francesco Fontata. Un’esperienza che si fa eredità preziosa da proseguire in un tempo in continuo mutamento dove gli oratori si propongono di tornare ad essere il centro dell’attenzione educativa delle comunità.

Tracciamo insieme un po’ di storia della Federazione oratori da quando è diventato presidente…

«Il mandato ricevuto da mons. Lafranconi, in continuità con il prezioso lavoro di don Giampaolo Rossoni, verteva principalmente sul capitolo formativo: erano state consegnate da un paio di anni le linee progettuali su Oratorio e pastorale giovanile e si profilavano cospicui segnali di trasformazioni sia sociali che ecclesiali, in primis la costituzione sempre più decisa delle unità pastorali, frutto di quella che – con l’espressione tecnica di “allora” – suonava come pastorale integrata».

Poi qualcosa è cambiato nella mission della FOCr?

«Con il nuovo episcopato ci si è avventurati nella ridefinizione di collaborazioni e prospettive: è stato il momento della costituzione delle aree, ma soprattutto per FOCr la stagione del Sinodo giovani. Un evento che ha coinciso con la creazione e l’accompagnamento di un processo, dai toni semplici, ma credo profondi: un’opportunità di protagonismo per i giovani e una provocazione per le comunità. La sua recezione ovviamente si è sovrapposta, e per molti versi scontrata, con l’anno e mezzo pandemico. Certamente non avrei mai immaginato di dover dedicare tanto tempo alla relazione di ascolto, al sostegno degli operatori pastorali e alla creazione di sollecitazioni educative, nel marasma di mesi davvero difficili e senza poter contare su prospettive certe».

A quale dimensione, settore dell’operato della FOCr ha dato maggior spazio?

«Negli anni, le trasformazioni cui accennavo prima hanno conosciuto una indubbia accelerazione. Dal versante della pastorale giovanile è stato necessario mettere mano ad alcune categorie di pensiero e di immaginazione, confrontandosi con la prassi delle nostre comunità, ancorata alla concretezza della vita, ma a volte anche appesantita dalle urgenze da inseguire».

L’aspetto più importante?

«Il capitolo più rilevante credo abbia riguardato la formazione, l’inserimento e l’accompagnamento delle figure educative necessarie perché gli oratori non cessassero di credere nella propria vocazione educativa e potessero vedersi garantite alcune risorse: un processo tutt’ora in corso che scivola nella tematica più complessa e profonda della regia dell’oratorio. Potremmo dire: se la teoria educativa, quella che si sostanzia attorno agli snodi di prossimità e cura nell’annuncio del Vangelo ai più giovani, è consolidata ed appartiene, oltre le stanchezze, alla sapienza della nostra chiesa particolare, la domanda concreta e pratica riguarda le modalità di attuazione di un vero progetto educativo, di una puntuale gestione degli spazi e delle esperienze di animazione e formazione».

Quindi?

«La domanda urgente di questi anni è stata: su quali volti e su quali risorse possiamo contare? Il Cortile dei sogni, che tra mille fatiche e sfortune di portare avanti abbiamo cercato, nella sua essenza è proprio questo: uno strumento di verifica e di rimotivazione, oserei dire di profezia, perché ci si possa accorgere delle risorse e metterle a sistema, rischiare nuove strade, suscitare nuovi entusiasmi, prendendo sul serio le trasformazioni della vita (vedi per esempio la ferialità oratoriana in molti luoghi ormai spenta) e aiutando le comunità a non macerarsi nel senso di colpa o nel fatale languore del tempo. È essenziale che le comunità continuino a sognare la propria responsabilità educativa, ma è altrettanto indispensabile che lo facciano con la chiarezza di un pensiero concreto, senza mitizzazioni di passati ormai lontani e dentro la storia concreta che racconta inequivocabilmente di fratture, lontananze e nuove opportunità. E come sempre accade, l’oratorio e le azioni di pastorale giovanile sono frutto di una certa forma di chiesa; dunque stanno dentro il travaglio delle comunità ecclesiali che si ritrovano più piccole, meno centrali, ma ancora capaci di generare vita ed iniziare all’esperienza del Vangelo».

Nel tempo l’oratorio è stato inteso in maniera diversa…

«Proprio nei mesi in cui lanciavamo il Cortile dei sogni, abbiamo ricordato un po’ di storia: le tappe – anche magisteriali – che descrivono con grande chiarezza una forte evoluzione dagli oratori “centro della comunità” all’oratorio come metodo pedagogico e come strumento di missione ecclesiale, in cui animazione e formazione, vita e annuncio non sono in contraddizione né in semplice successione logica, ma costituiscono una autentica e delicata unità progettuale. Noi abbiamo in mente il bar dell’oratorio, il grest o il carnevale… ma tanti segmenti e tante proposte non sono altro che la biografia di una comunità che può annunciare, accogliere, accompagnare, proporre la vita buona del Vangelo. Di questa verità essenziale ci siamo forse accorti proprio nei mesi in cui ci venivano tolte occasioni di incontro e di esperienza: nel caos e nella polarizzazione delle opinioni riguardo proprio a quanto si riteneva essenziale alla fede e alla vita spirituale, così esposti ad una riduzione privatistica anche dell’esperienza religiosa, ecco che la passione educativa per i più giovani ha costituito un collante, ha rimesso in circolo quell’ossigeno che la pandemia sottraeva. Ha in altri termini ricordato a tutti dov’è la vita e quale grande appello a servirla rimbalzi sulle nostre comunità».

Il team di persone che lavorano insieme per e con la FOCr è cambiato in questi anni?

«Le figure sempre si susseguono, perché la vita muta. Ma l’esperienza che tutti credo abbiano portato con sé è il lavoro condiviso: non sempre facile, ma reale. Senza dubbio la ridefinizione del lavoro della curia in aree ha consentito a FOCr di riscoprirsi dentro una trama di sinergie più ampia, dichiaratamente esplicita: insomma le persone e il metodo si sono come incontrate. E ne è nata una prospettiva affascinante».

I sussidi erano già un punto di forza della FOCr, oggi lo sono ancora?

«La sussidiazione FOCr ha conosciuto alterne vicende, come è ovvio che sia. Ma in generale tutto il lavoro di FOCr assomiglia a un grande, unico sussidio: ovvero è a servizio della vita pastorale delle comunità, ne segue gli andamenti, ne soffre le fatiche e gioisce per la bellezza che sa generare, soprattutto se evangelicamente nascosta nei piccoli passi educativi che accompagnano sugli orizzonti della libertà evangelica e della scelta vocazionale».

A proposito di “passi educativi”, FOCr si è impegnata nella ricerca educativa con il supporto dell’Università…

«Negli anni ci siamo avvalsi della competenza di diversi formatori universitari. Ci si rendeva conto che per formare occorreva essere formati ed era necessario affidarsi a competenze strutturate. Purtroppo nella vita delle nostre diocesi si respira a volte ancora un poco di diffidenza e si tende a risolvere il capitolo formativo in termini di restituzioni emotive o di esortazioni pratiche. Gli ultimi mesi ci hanno drammaticamente confermato come sia necessario un pensiero condiviso e servano motivazioni anche culturali perché la Parola sia in grado di generare vita».

E la vita oggi viaggia anche sui social. Quale rapporto tra FOCr e social?

«Si è aperto e si apre un mondo: complesso e solo apparentemente a totale servizio. Non mancano trappole e fatiche, ma senza dubbio la narrazione di contenuti, appuntamenti, occasioni spirituali e pensieri ha trovato nei canali digitali un potente alleato. Anche per questa ragione due anni fa la formazione di area mirava proprio ad implementare le competenze del digitale, in termini innanzitutto culturali e antropologici. Si sa: strumenti e contenuti, forma e materia… camminano sempre insieme».

FOCr non è solo oratorio ma apertura al mondo…

«Una delle partite più interessanti in pastorale giovanile è la connessione alla vita. Per condizione e natura i più giovani ne hanno in abbondanza, ne sperimentano la progressiva tessitura, imparano a governarla con le prime scelte che indirizzano uno stile e plasmano una coscienza. L’oratorio nasce come luogo e metodo di esperienze condivise, rilette alla luce della fede, e dunque è nel mondo, ha bisogno della sua stoffa, dei suoi problemi e delle sue domande. Perché lì, nel mondo, si gioca la vita vera. Ecco dunque la rilevanza del capitolo culturale, di quello caritativo, della missione e della mondialità. Un perimetro larghissimo che coincide con le risorse sterminate e le fatiche pure amplissime dei più giovani».

Nel messaggio per l’anno oratoriano 2021/22 il Vescovo scrive di “ri-partire” perché l’oratorio “può essere ancora il volto di una comunità che desidera educare”. Ripartire significa che qualcosa si è interrotto?

«Abbiamo volutamente insistito sul prefisso “ri-“ perché fosse chiaro che davanti a mesi di sconcerto e ritiro sociale (scuola in dad, sport sospeso, socializzazione fugace o repressa…) la sfida sta proprio qui: ritornare protagonisti della relazione educativa, dentro e fuori gli oratori, a scuola e in famiglia… con maggiore serenità, ma anche con la consapevolezza che è ora il tempo favorevole per rielaborare il bene prezioso della cura e tornare a metterlo sul piatto della vita, mantenendo aperti gli occhi. Non si tratta dunque di ri-tornare quelli di prima, alle solite cose di sempre, ma appunto di ri-partire con la consapevolezza che siamo cambiati e che ci è stata data una occasione preziosa innanzitutto di umanizzazione dei rapporti, della valutazione delle cose e anche della libertà di ridisegnare quanto ritenevamo fosse immutabile. Riprendere la sfida educativa dentro regole e condizionamenti giustamente severi ha rilanciato la fantasia ed è servito da catalizzatore rispetto alla domanda: ne vale la pena? che cosa abbiamo da dire? siamo ancora della partita?».

Quali progetti lascia in eredità?

«Penso a quattro sfide bellissime: la sinergia tra gli uffici nell’area giovani; l’accompagnamento delle risorse educative in seno agli oratori e ai percorsi giovanili; la presa in carico di nuove prospettive, come quella del mondo universitario e dell’apertura alle grandi domande culturali; la cura per le relazioni ecclesiali, sacerdoti, ma anche laici che mi hanno testimoniato una passione assoluta per l’educazione».

Quale eredità le ha lasciato la FOCr?

«Innanzitutto la gratitudine. Negli ambienti ecclesiali scarseggia la sua pratica, spesso per fretta o per sospetto. Ha un bel dire papa Francesco nel ribadire il carattere terapeutico di parole come grazie, prego… ed è facile citare di continuo il Papa, fermandosi agli ordini di scuderia. La pratica della benedizione per il lavoro altrui e la gratitudine per un cammino in cui libertà e limiti si sono intrecciati… questo a mio avviso è il dono più grande. Il resto attiene ad un servizio e alle condizioni storiche di un tentativo di vita che credo sia stato onesto».

Chiara Gamba

TeleRadio Cremona Cittanova
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