Otto marzo: serve proprio raggiungere la parità con il «sesso forte»?

La provocazione di Nicoletta D'Oria Colonna, operatrice di Caritas cremonese e referente del progetto «Pronto Intervento Donna»

image_pdfimage_print

È una grande responsabilità parlare oggi del senso dell’otto marzo. Perché significa parlare del senso dei diritti delle donne, per le donne. Nel senso che vorrei capire che cosa intendiamo noi donne per “diritti”. Abbiamo lottato per il voto, ma a votare ci andiamo poco, abbiamo voluto il divorzio, ma a sposarci ci andiamo meno, vogliamo leggi per la maternità ma i figli non li facciamo, abbiamo voluto la libertà di disporre del nostro corpo ma poi ci offendiamo perché ci considerano oggetti …

Care donne come me, è questa la nostra libertà? E a che punto siamo con la parità? È aumentato il numero delle donne lavoratrici, ma a parità di titoli guadagniamo il 30% in meno degli uomini, siamo ancora alquanto escluse sia dai vertici della vita economica che politica. Anche nel delicato tema della procreazione è entrato il commercio, un commercio “della riproduzione umana” che mette in circolo somme da capogiro e incrementa le disuguaglianze tra pari e lascia scorgere il dolore dei figli di madri mercenarie. Quindi forse ci stiamo sbagliando. Forse ci siamo lasciate ingannare. Perché la verità è che forse non abbiamo bisogno di raggiungere la parità con il “sesso forte”, non ci interessa, non ci serve. Per noi non è la strada giusta, dobbiamo cambiare senso di marcia. Abbiamo bisogno di vederci riconosciuti diritti nostri.

Mi piace rileggerlo così questo otto marzo. Come la presa di coscienza delle donne della necessità di ottenere diritti propri e propri riconoscimenti, in nome dell’unicità di ciascuno di noi e dell’originalità e della specificità proprie della donna. L’uomo e la donna hanno pari dignità di fronte a Dio ma sono profondamente diversi. Già ventotto anni fa Giovanni Paolo II nella “Mulieris Dignitatem” affermava che “esiste il fondato timore che su questa via la donna non si realizzerà, ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che costituisce la sua essenziale ricchezza”. Non bisogna, per esempio, correre il rischio di ridurre la maternità ad un ruolo sociale che di fatto mette in disparte la donna con le sue potenzialità, non lascia spazio al “genio femminile”, non la valorizza. Ma non bisogna nemmeno promuovere una specie di emancipazione che, per occupare gli spazi sottratti agli uomini abbandona ciò che è la caratteristica femminile con i suoi tratti unici e preziosi.

Perché non ci riprendiamo il privilegio di essere donne, destinate ad accogliere la vita non solo procreando ma prendendoci cura del genere umano e del creato in tutte le modalità che la fantasia ci saprà suggerire? Dice Erri de Luca che “in nome del padre inaugura il segno della croce. In nome della madre si inaugura la vita” e in effetti con la maternità Dio ha affidato l’uomo, il mondo, il genere umano, alle donne. La donna, cui Dio ha affidato il prezioso compito della cura, si renda promotrice e responsabile di un amore asimmetrico perché incondizionato e unilaterale. L’uomo non può esistere “solo” ma soltanto in relazione a qualcun altro. Realizziamoci dunque, donandoci, accogliendo, incontrando.

Apriamoci al mondo con responsabilità, e amando, cerchiamo di capire veramente di cosa abbiamo bisogno, quale senso vogliamo dare alla nostra esistenza, alle nostre richieste. E che gli uomini vadano pure a comprarci le mimose. Le faremo fiorire.

Nicoletta D’Oria Colonna
Operatrice Caritas cremonese
e referente del progetto “Pronto Intervento Donna”

 

Facebooktwittermail