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Vieni Consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo…

Sopraggiunse il fuoco divino, che non brucia ma illumina,

che non consuma ma risplende:

trovò i cuori dei discepoli come vasi mondi *

e infuse loro i doni dei carismi.

Li trovò concordi nella carità e li illuminò inondandoli di grazia divina.

E infuse loro i doni dei carismi.

  Il Cristo che ha ricevuto lo Spirito senza misura, elargì doni agli uomini, e non cessa di donare: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto» (Gv 1,6) e «nulla si sottrae al suo calore» (Sal 18, 7). Egli «ha un fuoco in Sion e una fornace in Gerusalemme» (Is 31, 9). Questo è il fuoco che Cristo è venuto a portare sulla terra, e che apparve sopra gli apostoli in lingue di fuoco, affinché lingue di fuoco predicassero una legge di fuoco. Di questo fuoco Geremia dice: «Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa» (Ger 20,9).

  In Cristo lo Spirito Santo abitò pienamente e sensibilmente; egli poi effuse su tutti parte del suo Spirito, per cui «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1 Cor 12, 7). E aggiunge: Vi sono diversità di carismi e diversità di ministeri e di operazioni, ma uno solo è lo Spirito (cfr. 1 Cor 12, 4-6). Per queste differenti effusioni di carismi, lo Spirito Santo viene chiamato ora fuoco, ora olio, ora vino, ora acqua. Fuoco perché infiamma di amore e una volta acceso non cessa di ardere, cioè di amare ardentemente: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12, 49).

  Lo Spirito Santo è olio a motivo di diverse proprietà. Fa parte della natura dell’olio, infatti, il rimanere a galla su tutti gli altri liquidi; così la grazia dello Spirito Santo, che con l’abbondanza della sua bontà supera i meriti e i desideri di quanti lo pregano, è più preziosa di tutti i doni e di tutti i beni. L’olio è anche medicina perché calma i dolori; così lo Spirito Santo è veramente olio perché è il consolatore. Inoltre, per sua natura, l’olio non si amalgama con niente; così lo Spirito Santo è sorgente purissima cui non si può unire niente di estraneo.

  Comprendiamo quindi perché lo Spirito Santo sia designato ora come fuoco, ora come olio. Due volte esso fu dato agli apostoli: prima della passione e dopo la risurrezione. Osserva quanto sia grande in essi la fonte dell’ardore: non basta versare olio se non è riscaldato, e non basta avvicinare il fuoco se non si alimenta con l’olio. Ardenti di questo fuoco, gli apostoli «se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati» (At 5,41). Questo poi è il linguaggio del principe degli apostoli: Se anche dovete soffrire per il Cristo, beati voi (cf 1 Pt 3,14). «A voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui» (Fil 1, 29).

  Lo Spirito Santo è «il vino che allieta il cuore dell’uomo» (Sl 103,15) e non si versa in otri vecchi. Lo Spirito Santo è acqua: «Chi ha sete – esclama il Signore – venga a me e beva» (Gv 7,37). Lo Spirito Santo è più dolce del miele: preghiamolo dunque in spirito di umiltà, perché effonda nei nostri cuori una rugiada di benedizione, uno stillicidio di doni spirituali, e un’abbondante pioggia di grazia per purificare le nostre coscienze; infonda l’olio della letizia e il fuoco del suo amore nei nostri cuori, cioè Gesù Cristo, che il Padre consacrò e nel quale infuse la pienezza della consacrazione e della benedizione, perché a questa pienezza potessimo attingere. A lui onore e gloria per tutti i secoli. Amen.

Dai “Discorsi” di Pietro di Blois, sacerdote

Immagine: Beato Angelico, Pentecoste, Armadio degli argenti, Firenze, Museo di S. Marco.

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SEPARATE… MA NON DIVISE: DECIMO CAPITOLO

La celebrazione della Messa Conventuale sia il centro della Comunità.

Infatti il memoriale della morte e della Risurrezione del Signore

è il vincolo della carità fraterna e la fonte prima dell’ardore apostolico”.

Dalle Costituzioni delle Monache dell’Ordine dei Predicatori

  Tanti, fermandosi pensosi davanti all’edificio silenzioso e impenetrabile del Monastero, forse si chiedono: come si svolgerà la vita fra quelle mura? O meglio: quali motivi sostengono la vita quotidiana delle creature che lì si sono volontariamente richiuse, per spendervi un’intera esistenza?

  Il Concilio Vaticano II, prima di iniziare a trattare sulla vita della Chiesa in mezzo agli uomini, ha sentito il bisogno di fissare lo sguardo sulla fonte della vita, Dio, e l’ha trovato vivente e operante nella Liturgia. Riconoscendo nell’azione sempre attuale di Gesù, Eterno Sacerdote, il punto di partenza e il termine a cui converge ogni realtà umana e divina, ha offerto a tutta la Chiesa cattolica uno dei suoi più belli e ricchi documenti: Sacrosantum Concilium (cf.).

  Ebbene, innanzitutto noi pur così nascoste e sconosciute, sentiamo di appartenere alla Chiesa, anzi essa ci ha indicato il nostro posto nella vita del Corpo Mistico: nel suo Cuore. Viene di logica conseguenza che la liturgia è la realtà che sostiene tutta la vita contemplativa.

  È la liturgia che, allo spuntare del giorno, con la celebrazione della Messa ci offre l’Eterno Sacerdote Gesù nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione, il quale come Sole vivo s’innalza sulla nostra giornata per illuminarla e vivificarla.

  Tutta la nostra vita di religiose votate alla contemplazione nella preghiera e nella silenziosa immolazione trova la sua ragion d’essere, la sua fecondità apostolica nel mistero che ogni giorno si rinnova sull’Altare. La Chiesa ha confermato questo nostro vitale inserimento nel mistero pasquale in una sua Istruzione dedicata alle claustrali: «Il ritirarsi dal mondo per dedicarsi nella solitudine ad una vita di più intensa preghiera non è altro che una maniera particolare di vivere ed esprimere il mistero pasquale di Cristo, che è una morte per la risurrezione» (VS, 1). Queste ultime parole rivelano il segreto della nostra gioia: la certezza cioè che il nostro ‘morire quotidiano’ sostenuto da Gesù e associato alla sua Passione è fonte di pienezza di vita divina per le nostre anime e insieme causa di risurrezione per tanti fratelli che vivono nelle tenebre del peccato.

  “Come Io con le mani distese e con il Corpo ignudo sulla croce offersi spontaneamente me stesso a Dio Padre per la divina riconciliazione, così anche tu” (Imit. 4,8). «Le ripeto spesso queste parole, dichiara Suor Teresa, le richiamo alla mente e al cuore prima della Messa in modo da dispormi ad offrire tutto. Come ha fatto Lui ‘fino alla morte’ e come ho promesso nel giorno della Professione». È necessario infatti accettare di morire fino in fondo a tutto ciò che è peccato ed egoismo per partecipare alla sua vita di Risorto.

  «Ogni volta che ‘muoio’ durante il giorno – soggiunge Suor Beatrice – sperimento il fluire più intenso della Vita in me stessa; mi vedo come un piccolo canale sotterraneo che trasmette, nel nascondimento, la vita divina nella Chiesa. La Messa mi dà le dimensioni della mia vocazione claustrale: simile al chicco di grano che muore, per produrre una spiga di salvezza per innumerevoli fratelli».

  La presenza di Maria, la Madre dell’Eterno Sacerdote, è particolarmente sentita al momento della Messa, sia per la partecipazione viva che essa ebbe al mistero del Calvario, sia per il desiderio di venire aiutate da Lei ad attingere al massimo i benefici della redenzione. «Mi chiedo spesso – rivela Suor Albina –: Se la Madonna fosse al mio posto chissà con quanto amore parteciperebbe alla Messa! Così quasi sempre mi trovo unita a Lei, come alla creatura più consapevole del mistero d’amore che si sta per celebrare. Convinta che Gesù continua ad annunciarmi la sua Parola, ascolto con attenzione le letture della S. Scrittura, chiedendo a Maria di aiutarmi a conservare in cuore tutte le cose che ho udito, per meditarle durante il giorno. Al momento della consacrazione mi trovo accanto alla Croce con Lei, adorando il mistero di Gesù che morendo ci dona la gioia di risorgere con Lui per vivere come figlia di Dio».

  Mentre la celebrazione Eucaristica assorbe il nostro spirito in Cristo, essa ci fa sperimentare profondamente il legame che ci unisce tra noi e con tutta la Chiesa. «Un solo battesimo, una sola vocazione, una sola Professione religiosa, quindi una sola offerta: sono queste – afferma Suor Elide – le realtà che mi portano ad immergere la mia comunità nel Calice durante l’elevazione. Qui, riunite insieme, sento come non mai che formiamo una piccola rappresentanza della grande Chiesa».

  Tutto nella celebrazione Eucaristica è ordinato all’incontro sacramentalmente vivo con Gesù. La Messa non è solo la ritualizzazione del Sacrificio di Cristo, ma anche la Cena del Signore in cui l’Agnello immolato si fa nostro pane, nostro cibo. Gesù si dona a noi ogni giorno per realizzare, con un tocco tutto singolare per ciascuna, il suo programma di amore.

  La Comunione diventa con Gesù che ‘dimora in noi’ un incontro anche con i fratelli perché essi sono figli dello stesso Padre e membra vive del Corpo Mistico di Cristo. È alla mensa comune che il Padre fa di noi monache riunite insieme una comunità di sorelle, e ci dice che quello che realmente siamo ai suoi occhi per il mistero di redenzione operato da Gesù: figlie nel Figlio, come tralci di un’unica vite che traggono vita da una medesima linfa che li vivifica.

  Dalla comunione eucaristica attingiamo l’amore soprannaturale che ci rende forti e generose nel rinnegare ogni egoismo che ci può ostacolare l’esercizio della carità fraterna. Infatti, solo camminando nell’amore scambievole, possiamo avere la consolante certezza ‘di essere passate dalla morte alla vita’ (1 Gv 3,14). Solo unite nella carità ci è dato di rispondere pienamente alla missione che la Chiesa ci ha affidato, cioè di tenere accesa la fiamma dell’amore nel Cuore del Corpo Mistico. Con l’adesione comunitaria al programma che la nostra Regola monastica quotidianamente ci propone da svolgere, la nostra giornata monastica diviene una S. Messa!

  ‘La Messa è finita andate in pace’, dice il Celebrante. Sì, la Messa all’Altare è terminata, ma Gesù è entrato in ciascuna di noi per continuarla, per fare della nostra comunità una comunione di anime che concelebrano lo stesso S. Sacrificio durante le ordinarie occupazioni della giornata. I nostri servizi, simili nella loro semplicità alle povere sostanze del pane e del vino che vengono presentate al Padre al momento dell’offertorio, divengono materie preziose per Dio e la sua Chiesa. La nostra umile esistenza vivificata dallo spirito d’Amore diventa in tal modo ‘un perenne sacrificio, un’offerta viva in Cristo a lode della gloria del Padre’ (IV Pregh. Euc.).

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SEPARATE… MA NON DIVISE: NONO CAPITOLO

…ti farò mia sposa per sempre:

nell’amore e nella misericordia,

ti farò mia sposa fedele”.

(Os 2, 21-22)

  ‘Vennero le nozze dell’Agnello ed egli preparò la sua Sposa’ (Ap 19, 7). Sì, veramente Gesù ha preparato la novizia per il giorno della sua Professione Solenne (definitiva) con cui la unisce per sempre a sé con i voti di castità, povertà e obbedienza, come uno Sposo prepara la Sposa per il giorno delle nozze.

  Una preparazione che Egli ha iniziato nella profondità dell’anima da tempo, dal giorno del battesimo quando, innestando quel piccolo tralcio in sé, Vite divina, già ne preparava lo sviluppo e i frutti. Allora l’anima non se ne poteva rendere conto. La consapevolezza si ha con la chiamata, e si fa più consistente quando, dopo l’entrata in monastero, con la Prima Professione (temporanea), si apre un periodo di intensa formazione. La novizia, illuminata dalla luce dello Spirito Santo, in questo tempo, non solo può rendersi conto dell’importanza dei consigli evangelici che formeranno il programma di tutta la sua vita, ma può arricchire il suo ‘sì’ di una carica più intensa d’amore perché temprato dalla prova.

  ‘Tutta la vita (dei religiosi) è posta al servizio di Dio, e ciò costituisce una speciale consacrazione che ha le sue profonde radici nella consacrazione battesimale e ne è un’espressione più perfetta’ (Decr. Perfectae caritatis, n. 5).

  Questa verità che il Concilio ha messo in luce dona alla Professione religiosa il suo valore più alto e più vitale.

  È il battesimo infatti, che operando la nostra morte al peccato, ci ha fatto risorgere per vivere con Cristo, configurati a Lui nel condurre una autentica vita di figli di Dio. La vita religiosa, caratterizzata dall’impegno specifico di abbracciare i consigli evangelici, ci dona la gioia di seguire Gesù più da vicino, di rivestirci di Lui al punto che Egli si stabilisce in noi per continuare ad essere il Religioso del Padre: vergine e casto, perché il Padre è il suo unico amore; povero, perché ha scelto il Padre come sua unica porzione; obbediente, perché la volontà del Padre è il respiro e l’alimento di tutta la sua Anima.

  In tal modo fare Professione religiosa è accettare di vivere il battesimo in pienezza; realtà che invece di farci sentire estranee ai nostri fratelli, che non hanno ricevuto questa speciale chiamata, ce li fa sentire uniti nell’unico cammino che conduce alla piena conformazione a Cristo. Se c’è una differenza, essa è dovuta alla liberalità divina che eleggendoci ci ha affidato il compito di servire i nostri fratelli; nel nostro caso, come contemplative, di servirli con una vita di intensa comunione con Cristo, pregato per attirare su di loro la grazia di essere membra vive e operanti dell’unico Corpo Mistico.

  Suor Leandra così esprime questa verità: «Vedo la mia Professione religiosa come il dono di consacrazione a Dio ricevuto nel battesimo portato alla sua massima espressione; mi dona la gioia grande di vivere nel cuore del mistero della Chiesa, e mi fa sentire solidale con tutti i fratelli».

  «Alla vigilia della mia Professione – racconta suor Giulia – cioè della mia consacrazione definitiva, mi è stato chiesto se avessi pensato bene alla gravità dell’impegno che stavo per assumere: stare legata a Gesù per sempre coi voti, con la determinazione di rimanere in clausura per tutta la vita. Beh – risposi con semplicità, e forse con un po’ di ingenuità, – forse che una ragazza che si sposa non si lega per sempre e irrevocabilmente ad un uomo?… E non deve seguirlo ovunque egli andrà? Quando c’è l’amore, questo non è un problema. Io amo Gesù e desidero stare nella Sua casa».

  Suor Marietta non nasconde il suo pensiero; attendeva il giorno della Professione come la celebrazione delle sue nozze. «Domani sarò tua sposa per sempre: questo – essa dice – è stato l’ultimo saluto a Gesù prima di addormentarmi. L’indomani, accompagnata spiritualmente dalla Madonna alla quale avevo affidato l’incarico di prepararmi alle ‘nozze dell’Agnello’, pronunciai con tutta serenità il mio ‘prometto obbedienza’, guardando con gioia il volto della Madre Priora, che accoglieva la mia Professione con le mie mani tra le sue. Ero certa che Lui era là, al posto della Madre. ‘Sono un Dio nascosto’, sembrava ripetermi Gesù; dammi la gioia di scoprirti sempre! Gli risposi con una silenziosa preghiera».

  Maria è la dolce Madre che ci ha sostenute nella fedeltà a rispondere all’invito divino, e che ci ha attirate a sé col suo esempio e la sua continua intercessione, affinché i lineamenti di suo Figlio si riproducessero efficacemente nella nostra vita. Man mano che si approssimava il giorno della nostra Professione, abbiamo sentito il bisogno di stringere ancor più i nastri rapporti filiali con Lei, perché il nostro sì riflettesse la fedeltà e la generosità del suo fiat‘.

  La formula di Professione viene pronunciata durante la celebrazione della S. Messa, al momento dell’offertorio: questo è molto significativo. La monaca inserisce la propria immolazione in quella di Cristo: la Professione, infatti, è un’oblazione, un olocausto, il cui valore di glorificazione del Padre e di redenzione delle anime deriva dalla sua unione all’offerta di Cristo compiuta sul Calvario e perennemente rinnovata nel sacrifico della Messa.

  Questa unione a Cristo nel suo mistero pasquale di morte e di risurrezione è la realtà viva che sostiene ogni religiosa nella pratica dei consigli evangelici. Unita a Lui e da Lui sorretta abbraccia con fiducia e con gioia i sacrifici e le rinunce che i voti comportano, avanzando in tal modo nella conformazione alla Sua crocifissione e morte, nella speranza di essere un giorno partecipi della Sua risurrezione.

  Già da ora si realizza attraverso la pratica dei voti questo aspetto di morte e di vita proprio del mistero pasquale, riattuato ogni giorno nella celebrazione eucaristica .

  Il voto di castità, mentre ci fa sperimentare le purificazioni del cuore, ci permette di penetrare più profondamente nei misteri d’amore racchiusi nel Cuore dello Sposo divino, ci dona la consapevolezza di svolgere una maternità spirituale delle anime non meno bella ed esaltante di quella naturale. Il voto di povertà, se da una parte ci chiede un continuo distacco da tutto, dall’altra ci offre la consolante prospettiva di possedere sempre più il Signore come ‘unica cosa necessaria’ e di richiamare nel segreto, con la nostra silenziosa testimonianza, tanti fratelli che si attaccano ciecamente ai beni della terra. Il voto di obbedienza mette in croce il nostro egoismo con tutte le sue disordinate attrattive; se chiede i sacrifici più grandi dona in cambio la gioia più piena: camminiamo nella libertà dei figli di Dio, perché per mezzo della sottomissione alla sua volontà, manifestata dalle Regole e dai superiori, come Gesù facciamo ‘sempre quello che piace al Padre’.

  Per la pratica dei consigli evangelici tutta la nostra vita diventa l’annuncio della morte del Signore, la proclamazione della sua risurrezione nell’attesa della sua venuta.

Dalle Costituzioni delle Monache dell’Ordine dei Predicatori:

L’obbedienza con cui ‘ci innalziamo interiormente al di sopra di noi stessi’ è utilissima per acquistare la libertà interiore propria dei figli di Dio e ci dispone a donarci con carità.

Rinunciando a nozze terrene ma amando ciò che in esse è prefigurato, seguiamo l’Agnello che ci ha redento con il suo sangue, in maniera che con la nostra oblazione diventiamo sue collaboratrici nell’opera della rigenerazione degli uomini.

Noi abbiamo deciso di essere povere nello spirito e nella realtà, cooperando in tal modo al ministero dei nostri fratelli che si sforzano di strappare gli uomini dalla schiavitù delle ricchezze per volgerli all’amore dei beni celesti”.

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Mese di maggio in compagnia di…

Alla processione della Salve Regina, quando i frati cantavano:

“…Et Jesum, benedictum fructum ventris tui, nobis post hoc exilium ostende…

…mostraci dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo seno,”

la Vergine con in braccio il Figlio ancora in tenera età,

lo mostrava a tutti e a ciascuno dei frati con molta gioia.

Da Vitae Fratrum di Geraldo di Frachet, o.p.

   S. Domenico fu devotissimo a Maria come tutti i santi, perché la beata Vergine, che per prima e più fedelmente ha vissuto il messaggio evangelico, è modello e guida a tutti coloro che vogliono seguire Cristo.

   Domenico, tuttavia, è «mariano» per un titolo speciale. La sua devozione a Maria, madre del Verbo incarnato, si può considerare “una grazia di stato”, un dono che il cielo gli riserva in quanto fondatore di un Ordine, e tale grazia è per meglio compiere la sua missione.

  Lo stretto legame che unisce Domenico a Maria è più di una devozione; è parte essenziale della sua stessa vocazione e della sua missione. Per questo è convinzione comune dei primi frati che Maria abbia avuto una parte molto importante nella fondazione dell’Ordine.

  Due antichissime fonti, riportate da fra Gerardo Frachet nelle Vitae fratrum, attribuiscono a Maria la nascita dell’Ordine. Un monaco raccontò di aver visto, in visione, prima che l’Ordine fosse fondato, la beata Vergine che supplicava il Figlio irato contro l’umanità, ottenendo alla fine l’istituzione di un Ordine di predicatori per la salvezza degli uomini. «Poiché non è conveniente che ti neghi alcuna cosa – dice il Figlio a Maria – darò agli uomini i miei predicatori, per mezzo dei quali siano illuminati e corretti».

  «A conferma di questa visione – continua fra Gerardo – anche un anziano monaco cistercense dell’abazia di Bonnevaux raccontò a maestro Umberto de Romans che un monaco gli aveva detto di aver visto la Vergine Maria supplicare il proprio Figlio perché avesse pietà degli uomini. Alla fine, vinto dalle sue preghiere, Gesù dice: “Per le tue preghiere avrò ancora misericordia, manderò loro i predicatori, perché li ammoniscano”. Per questo si può pensare senza alcun dubbio – conclude l’anziano monaco – che l’Ordine vostro sia stato creato per le preghiere della Vergine gloriosa. Per questo dovete con ogni diligenza conservare un Ordine così degno e onorare particolarmente la beata Maria».

  Il carattere provvidenziale dell’Ordine dei frati predicatori è sottolineato anche dalle Bolle di Onorio III e poi dal b. Giordano di Sassonia, da Pietro Ferrando e in genere dai primi biografi di S. Domenico.

  Il b. Umberto è convinto che «l’Ordine è un dono di Dio all’umanità, ottenuto dalle preghiere della beata Vergine. Per questo – egli dice – a Maria, come a speciale patrona, il beato Domenico raccomandava l’Ordine nelle sue preghiere. Ed è per questo che a lei, come a Madre, ci raccomandiamo ogni giorno con la processione dopo Compieta, al canto della “Salve Regina”. Al beato Domenico ci affidiamo con la commemorazione “O lumen Ecclesiae”, avendoli come speciali patroni in cielo».

  Anche S. Caterina da Siena attribuisce a Maria un compito essenziale nella vocazione e nella missione del fondatore dei frati predicatori. «Domenico – dice il Signore alla santa – prese l’ufficio del Verbo Unigenito, mio Figliolo; Egli fu un lume che io porsi al mondo col mezzo di Maria ».

  È Maria dunque, la Madre dell’Unigenito Figlio di Dio, che ottiene dal Padre celeste colui che dovrà prendere «l’ufficio del Verbo», che cioè dovrà continuare la missione di Cristo.

  Domenico, votato alla predicazione della Verità evangelica, è in particolare l’apostolo di Maria. Nella lotta contro l’eresia, uno degli argomenti principali della sua predicazione è certamente la divina maternità di Maria. Gli albigesi, in mezzo ai quali inizia la sua attività di missionario, negano l’Incarnazione del Verbo, di conseguenza non riconoscono Maria Madre di Dio. Essi rivendicano a se stessi il merito di generare «i perfetti».

  Per questi eretici Maria non è neppure una persona umana; è «un angelo mandato dal cielo», che insieme a Giovanni evangelista viene ad annunciare ciò che avviene in cielo. In lei non c’è nulla di materiale; il suo è un corpo spirituale, composto solo di elementi spirituali. Per i Catari neppure Cristo è un uomo; la materia è cosa impura, viene dal principio del Male. Anche Cristo è un angelo, che viene sulla terra sotto le apparenze di un uomo; non è il Salvatore; il suo compito non è quello di salvare l’umanità, ma solo di insegnare agli uomini che esiste un principio spirituale che è in cielo e in ciascun uomo.

  In mezzo a questi eretici, Domenico svolge la sua attività missionaria. Per combattere questi errori egli è soprattutto l’apostolo della divinità di Cristo e della divina maternità di Maria.

  Le molte dispute che Domenico deve continuamente affrontare sono sempre accompagnate dalle sue fervorose preghiere. Nelle sue preghiere invoca con insistenza la misericordia del Redentore e domanda la mediazione di Maria «madre di misericordia». Durante i suoi lunghi viaggi, per le strade di Francia e d’Italia, spesso lo si sente cantare l’inno a Cristo Redentore: «Jesu, nostra redemptio», la Salve Regina e l’Ave maris stella, proclamando anche in questo modo la sua fede in Cristo, Figlio di Dio e Salvatore, e in Maria Dei Mater alma, che offre all’umanità «Gesù, il frutto benedetto del suo seno».

  Non a caso certamente Domenico fissa il centro della sua attività missionaria presso una cappella dedicata a Maria, a Prouille (questa scelta sembra sia stata suggerita da un prodigio). Era così evidente alla gente la devozione della comunità di Prouille alla beata Vergine, che Domenico con i suoi frati e le sue suore venivano indicati come «coloro che erano a servizio di Dio e della Vergine Maria».

  A Maria «madre di misericordia» Domenico aveva affidato, come a speciale patrona, tutta la «cura» dell’Ordine.

  Per testimoniare la propria devozione a Maria e la piena sudditanza a lei dei frati predicatori, Domenico inventa una nuova formula di professione religiosa, con la quale espressamente si promette obbedienza a Maria. Ciò che «non avviene negli altri Ordini», sottolinea Umberto de Romans. Questa professione di obbedienza a Maria è il riconoscimento pubblico e ufficiale del titolo di cofondatrice dell’Ordine che i primi frati attribuiscono a Maria. Il frate predicatore intende inaugurare ai suoi piedi una vita consacrata totalmente al servizio di Cristo e di sua madre.

Da “La devozione a Maria nell’ordine domenicano” di P. A. D’Amato, o.p.

Immagine: La Vergine consegna Gesù a S. Domenico, ex monastero di Fontanellato – PR.

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Cristo è risorto! Alleluia, Alleluia!

  I seguaci di Mosè immolavano l’agnello pasquale una volta all’anno, nel quattordicesimo giorno del primo mese, verso il tramonto. Noi invece, uomini della nuova alleanza, che celebriamo tutte le domeniche la nostra pasqua, ci saziamo sempre del corpo del Salvatore, sempre comunichiamo al sangue dell’Agnello, sempre cingiamo i fianchi dell’anima nostra di castità e di modestia, sempre i nostri piedi sono pronti a camminare nel vangelo, sempre col bastone in mano, ci riposiamo sulla verga che germina dalla radice di Jesse; sempre ci allontaniamo dall’Egitto in cerca del deserto, lungi dalla vita puramente umana; sempre il nostro cammino tende verso Dio, sempre celebriamo la festa del passaggio. Infatti, la parola del vangelo vuole che facciamo tutto questo non solo una volta all’anno, ma sempre, tutti i giorni.

  Perciò tutte le settimane, la domenica, giorno del Salvatore, festeggiamo la nostra pasqua, celebrando i misteri del vero Agnello, per il quale siamo stati liberati. Così non circoncidiamo con una lama il nostro corpo, ma col taglio affilato della parola evangelica recidiamo ogni malizia dall’anima. Né facciamo uso di azzimi materiali, ma solo di quelli della sincerità e verità.

  La grazia infatti ci ha liberati dai vecchi usi e ci ha dato l’uomo nuovo fatto secondo Dio, la nuova legge, la nuova circoncisione, la nuova Pasqua, il giudeo interiore. (cfr Rm 2,29).

  Così ci ha svincolati dal giogo dei tempi antichi rivelandoceli. Cristo invero, nel quinto giorno della settimana, si assise a mensa coi discepoli e disse: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione»(Lc 22, 15). Infatti i cibi di prima, ormai antiquati, che aveva mangiato coi giudei, non erano più desiderabili; invece il nuovo mistero del suo nuovo patto, che egli consegnava ai propri discepoli, era davvero oggetto di desiderio per lui: infatti molti profeti e giusti vissuti prima di lui avevano desiderato di vedere i misteri della nuova alleanza. Lo stesso Verbo dunque, assetato della salvezza di tutti, consegnava il mistero che tutti gli uomini avrebbero poi celebrato, e confessava di averlo egli stesso desiderato. Certo la Pasqua di Mosè non era adatta per tutte le genti, dal momento che era prescritto di celebrarla in un solo luogo, Gerusalemme. Perciò non era desiderabile. Invece il mistero del Salvatore, che nella nuova alleanza conveniva a tutti gli uomini, era grandemente desiderabile.

  Anche noi quindi dobbiamo mangiare con Cristo la Pasqua, purificando la nostra mente da ogni fermento di malizia, saziandoci con azzimi di sincerità e verità, avendo nell’animo i valori interiori del giudaismo e la vera circoncisione, aspergendo gli stipiti della nostra mente col sangue dell’Agnello immolato per noi, per tener lontano il nostro sterminatore. E questo non in un solo periodo dell’anno, ma tutte le settimane.

  Lungo tutto l’anno celebriamo gli stessi misteri, commemorando col digiuno nel giorno precedente, cioè il sabato, la passione del Salvatore, come fecero per primi gli apostoli quando fu tolto loro lo Sposo. Ogni domenica veniamo vivificati dal santo Corpo della sua Pasqua di salvezza, e riceviamo nell’anima il sigillo del suo Sangue prezioso.

ORAZIONE

O Padre, che da ogni parte della terra hai riunito i

dare il tuo nome, concedi che tutti i tuoi figli, nati a nuova vi:

del Battesimo e animati dall’unica fede, esprimano nelle opere 1

Per il nostro Signore.

Immagine: La tomba vuota, Beato Angelico, Museo S. Marco, Firenze.

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Da “Patris Corde” di Papa Francesco – 2° parte

   San Giuseppe era un carpentiere che ha lavorato onestamente per garantire il sostentamento della sua famiglia. Da lui Gesù ha imparato il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro.

  Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento?

  Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre, ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi. Pensiamo a ciò che Mosè ricorda a Israele: «Nel deserto […] hai visto come il Signore, tuo Dio, ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino» (Dt 1,31). Così Giuseppe ha esercitato la paternità per tutta la sua vita.

  Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti.

  Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera.

  Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù.

  La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione.

  La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli spalanca sempre spazi all’inedito.

  Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso “inutile”, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita, quando si pone nella situazione di Giuseppe, il quale ha sempre saputo che quel Bambino non era suo, ma era stato semplicemente affidato alle sue cure. In fondo, è ciò che lascia intendere Gesù quando dice: «Non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,9).

  Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma “segno” che rinvia a una paternità più alta. In un certo senso, siamo tutti sempre nella condizione di Giuseppe: ombra dell’unico Padre celeste, che «fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45); e ombra che segue il Figlio.

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Da “Patris Corde” di Papa Francesco – 1° parte

  Con cuore di padre: così Giuseppe ha amato Gesù, chiamato in tutti e quattro i Vangeli «il figlio di Giuseppe».

  Ebbe il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù, a cui impose il nome rivelato dall’Angelo: «Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Come è noto, dare un nome a una persona o a una cosa presso i popoli antichi significava conseguirne l’appartenenza, come fece Adamo nel racconto della Genesi (cfr 2,19-20).

  Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza.

  La grandezza di San Giuseppe consiste nel fatto che egli fu lo sposo di Maria e il padre di Gesù. In quanto tale, «si pose al servizio dell’intero disegno salvifico», come afferma San Giovanni Crisostomo.

  San Paolo VI osserva che la sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa».

  Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4).

  Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono» (Sal 103,13).

  San Luca, in particolare, si preoccupa di rilevare che i genitori di Gesù osservavano tutte le prescrizioni della Legge: i riti della circoncisione di Gesù, della purificazione di Maria dopo il parto, dell’offerta a Dio del primogenito (cfr 2,21-24).

  In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani. Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori (cfr Lc 2,51), secondo il comandamento di Dio (cfr Es 20,12). Nel nascondimento di Nazaret, alla scuola di Giuseppe, Gesù imparò a fare la volontà del Padre.

  Da tutte queste vicende risulta che Giuseppe «è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro della salvezza».

  Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive. Si fida delle parole dell’Angelo. «La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio».[18]

  Molte volte, leggendo i “Vangeli dell’infanzia”, ci viene da domandarci perché Dio non sia intervenuto in maniera diretta e chiara. Ma Dio interviene per mezzo di eventi e persone.

  Giuseppe è l’uomo mediante il quale Dio si prende cura degli inizi della storia della redenzione. Egli è il vero “miracolo” con cui Dio salva il Bambino e sua madre. Il Cielo interviene fidandosi del coraggio creativo di quest’uomo, che giungendo a Betlemme e non trovando un alloggio dove Maria possa partorire, sistema una stalla e la riassetta, affinché diventi quanto più possibile un luogo accogliente per il Figlio di Dio che viene nel mondo (cfr Lc 2,6-7). Davanti all’incombente pericolo di Erode, che vuole uccidere il Bambino, ancora una volta in sogno Giuseppe viene allertato per difendere il Bambino, e nel cuore della notte organizza la fuga in Egitto (cfr Mt 2,13-14).

  Il Vangelo non dà informazioni riguardo al tempo in cui Maria e Giuseppe e il Bambino rimasero in Egitto. Certamente però avranno dovuto mangiare, trovare una casa, un lavoro. Non ci vuole molta immaginazione per colmare il silenzio del Vangelo a questo proposito. La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre famiglie.

  Alla fine di ogni vicenda che vede Giuseppe come protagonista, il Vangelo annota che egli si alza, prende con sé il Bambino e sua madre, e fa ciò che Dio gli ha ordinato (cfr Mt 1,24; 2,14.21). In effetti, Gesù e Maria sua Madre sono il tesoro più prezioso della nostra fede.

Immagine: Guido Reni, San Giuseppe col Bambino, Houston Museum of Fine Arts, Houston.

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L’abito non fa il monaco…, eppure, che gioia indossarlo!
Separate... ma non divise: ottavo capitolo

Io sono fidanzata a Colui che gli angeli servono,

la cui bellezza il sole e la luna ammirano.

Lui che ha per Madre una vergine il cui Padre non conosce donna…

mi ha rivestita con l veste di giustizia…

ha posto sul mio capo un segno

Dalla Liturgia della memoria di S. Agnese

  ‘L’abito non fa il monaco’, si dice, e nessuno è certo di questa verità tanto quanto colei che si prepara a consacrarsi a Dio. Il tempo che la separa dalla vestizione lo vive già come se fosse monaca, anche se ancora è senza abito e sente in fondo al cuore di portare il sigillo delle spose dell’Agnello.

  Tuttavia l’abito religioso viene sempre ricevuto con gioia. Ognuno di noi ricorda con commossa gratitudine il giorno in cui ha vestito la candida tonaca domenicana, lo scapolare, il soggolo, il velo e il mantello nero.

  Quando le cose esterne sono segno di realtà spirituali, esse acquistano ai nostri occhi una bellezza e un significato che ce le fanno amare; così è dell’abito che indossiamo. È un segno di consacrazione; ricorda a noi e al mondo che apparteniamo in maniera speciale a Cristo. Anche i colori dell’abito domenicano hanno un linguaggio: il bianco parla di semplicità e di innocenza di vita: S. Giovanni nell’Apocalisse ci descrive beati del cielo rivestiti di candide vesti. Il nero del mantello, così deciso e severo, è come un richiamo alla penitenza, all’austerità di vita, baluardo di difesa per custodire il delicato candore di un’innocenza conservata o riacquistata nel ‘Sangue’ di Gesù.

  L’uniformità dell’abito è pure segno di quella immutabilità che va oltre le volubili mode di questo mondo. È anche simbolo di unione tra noi sorelle e con tutti i membri dell’Ordine, espressione del pensiero del Santo Fondatore il quale, rivestendoci di una medesima divisa, ci tramanda il suo desiderio: vederci tutti ‘una cosa sola’.

  Entrando in Monastero abbiamo intrapreso un lungo viaggio interiore di cui la vestizione e la professione temporanea sono le prime tappe; la professione solenne è la penultima tappa; l’ultima, che segna il traguardo finale, è quella che ci farà incontrare lo Sposo che vedremo finalmente a volto scoperto!

  Il periodo di formazione degli anni trascorsi in noviziato si distingue per una particolare cura nel conoscere la strada che conduce ‘alla meta’, i mezzi per percorrerla bene e camminare speditamente. Lasciato infatti il noviziato, ci si mette al passo con le sorelle in comunità, come in una cordata in cui tutte concorrono nell’impegno di raggiungere la cima.

  Tutto questo non esclude che il tempo di noviziato abbia le sue prove e le sue difficoltà. Del resto, anche chi vuole fare dell’alpinismo, prima di diventare un provetto scalatore deve pur rassegnarsi a imparare a fare le scalate, accettando di cadere, scivolare o sbagliare. Non ci si scoraggia però, perché quelle vette sono troppo allettanti; come si può rinunciare alla gioia di raggiungere la cima? Poi non si è soli, c’è la guida che è esperta.

  Anche per la novizia c’è una guida: la Madre Maestra. Una guida scelta da Gesù, perciò fidata, anzi, addirittura Lo rappresenta. A lei ci si può rivolgere ogni momento con la semplicità di un fanciullo che, aprendosi alla vita, sente il bisogno di manifestare i suoi tanti ‘perché?’.

  Suor Alberta, sempre così indulgente, non è nata nemmeno lei senza spirito critico, e per incanalarlo bene ha avuto il suo da fare. “Nella mia intransigenza giovanile – confessa – mi sentivo spinta a sottolineare quelle debolezze che nelle persone anziane sono quasi connaturali; ero portata a vedere solo il rovescio della medaglia. È stato un aiuto notevole quello che ho ricevuto dalla mia Madre Maestra alla quale con semplicità, manifestavo ogni mia impressione. Ella, pur non negando la realtà, mi additava i lati positivi non meno veri e reali; pian piano aprivo gli occhi e scoprivo esempi luminosi, come un fervore sempre fresco nella celebrazione della Liturgia delle ore, una puntualità gioiosa agli atti comuni, e certi atti di virtù che mi commuovevano come vedere una sorella anziana chiedere scusa con tanta prontezza e umiltà a una giovane monaca”.

  Non è raro il caso che una volta entrate in monastero, con l’aiuto della Grazia elargita in modo particolarmente sensibile nei primi tempi dal buon Dio, si cammini per un certo periodo a passo veloce; si ha la sensazione di ‘toccare il cielo con un dito!’, in poco tempo… Ma tutti sanno che il Tabor è ordinato al Calvario, senza dimenticare che le sofferenze del Calvario hanno come fine le gioie ben più grandi della risurrezione.

  A volte, ciò che può far arrestare il cammino, è un piccolo scoglio che si è trovato sulla via; non si aspettava forse di incontrarlo e appare come una montagna insormontabile! Suor Maria ne ha fatto l’esperienza: “Dopo il sereno periodo di probandato – rivela – ho incontrato difficoltà che ancora adesso non saprei definire; quel che prima era così semplice lo trovavo complicato e mi sembrava di aver sbagliato tutto. Il guaio era che trattenevo tutto in cuore e la matassa si ingarbugliava ogni giorno di più. La preghiera mi ottenne la forza di aprirmi ed esporre il mio stato d’animo alla Madre Maestra, la quale, nella sua amabile discrezione, pur soffrendo nel vedermi così, aveva rispettato il mio riserbo. Ricordo ancora quella sera, in cella, in cui ‘tirai fuori tutto’: la Madre mi ascoltava con interesse mentre io, man mano che esprimevo le mie difficoltà, le vedevo rimpicciolirsi sino a scomparire. Alla fine non fu neppure necessario che mi si desse tanti consigli; la Madre lo comprese e mi lasciò con un sospiro di sollievo, sicura di vedermi riprendere il cammino nella semplicità e nella gioia”.

  Questo tempo di noviziato che precede, come una progressiva maturazione, il giorno in cui la novizia ha la gioia di pronunciare il suo sì definitivo allo Sposo divino, porta un’impronta caratteristica di spirituale freschezza, simile alla primavera in cui la natura, scaldata dal tepore del sole, germoglia e si apre per offrire lo spettacolo di un’incantevole fioritura.

  La comprensione della liturgia, la preghiera alimentata dalla meditazione della Parola di Dio e dallo studio ordinato e progressivo delle verità della fede, l’impegno, che non conosce soste, di tradurre nella vita ciò che la mente e il cuore apprendono, rivelano alla giovane monaca quello che S. Paolo chiama ‘il mistero nascosto nei secoli in Dio’ (Ef. 3,9).

  In tal modo essa si prepara più che a fare il sacrificio della propria vita con la Professione religiosa, a riceverla come un dono che mette nella felice condizione di ‘essere riempiti di tutta la pienezza di Dio’ (Ef. 3,19).

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Dio ha dato il Suo Figlio per salvare tutti noi

   Il Cristo uomo non si può proporre a esempio di felicità terrena, come egli stesso ha rivelato nel messaggio del Nuovo Testamento, che non riguarda la vita temporale ma quella eterna. Donde la sua umiliazione, la passione, i flagelli, gli sputi, i disprezzi,la croce, le piaghe e la stessa morte, come a uno vinto e completamente assoggettato. Tutto questo perché i suoi fedeli imparassero quale dono d’amore chiedere e sperare da colui del quale sarebbero divenuti figli. Non sarebbe quindi giusto servire Dio per raggiungere una felicità terrena, avvilendo e disprezzando la propria fede, considerandola come cosa tanto da poco.

   Cristo è uomo e nello stesso tempo anche Dio: dalla sua umanità così piena di misericordia e dal suo aspetto di servo dovremmo imparare cosa disprezzare in questa vita e sperare nell’altra. Egli nell’ora della sua passione, quando sembrava che i nemici riportassero una grande vittoria, si espresse con la voce della nostra debolezza, nella quale veniva crocifisso il nostro vecchio uomo, onde annullare il corpo del peccato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sal 21,2). Con la voce della nostra infermità, nella quale il nostro Capo si trasfigurò, nel salmo 21 è detto: «Dio mio, Dio mio», guardami, «perché mi hai abbandonato?», poiché chi prega, se non è esaudito, si sente abbandonato.

   Gesù diventò questa voce, la voce del suo corpo, cioè della Chiesa, che doveva essere cambiata dall’uomo vecchio in quello nuovo; voce veramente della sua debolezza umana, alla quale erano stati negati i beni dell’Antico Testamento perché imparasse a desiderare e sperare quelli del Nuovo.

Responsorio Mt 8,17; Is 53,6

Egli ha preso le nostre infermità *

e si è addossato le nostre malattie.

Il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.

E si è addossato le nostre malattie.

Lettera 140, 13-15” di sant’Agostino, vescovo

Immagine: Beato Angelico, Crocifissione, Museo di S. Marco, particolare.

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SEPARATE… MA NON DIVISE: SETTIMO CAPITOLO

  Ancora un mese, ancora una settimana… ancora pochi giorni… domani si parte! Quanti sentimenti contrastanti si agitavano nella nostra anima: la gioia di realizzare un’aspirazione che nelle prove e nelle difficoltà si era fatta più intensa; la sofferenza indescrivibile di quell’ultimo abbraccio con i nostri cari; l’interrogativo segreto davanti a quel ‘salto nel buio’: «Ci resisterò?». Un momento d’incertezza, superato presto dalla fermezza e dalla logica della fede: si trattava infine di ripetere quello che avevano fatto gli Apostoli: ‘… e, lasciate le reti, subito Lo seguirono’ (Mt 4,20) senza tanti ‘e poi?’. ‘Chi mi segue non cammina nelle tenebre’ (Gv 8,12), ha detto Gesù, quindi non si trattava di un salto nel buio ma nella luce, anche se accecante per i nostri deboli occhi.

  La prima sensazione che abbiamo avuto entrando? Un respiro di sollievo mentre il cuore cantava col Salmista: ‘il laccio si è spezzato e noi siamo stati liberati!’ (Sl 123).

  «Ricordo ancora la dolcissima sensazione di serenità e di pace che ho provato dopo aver varcato la soglia della clausura. Finalmente ero arrivata in porto!» – rievoca suor Luana che ha dovuto, prima di entrare, versare qualche lacrima per superare non lievi difficoltà.

  Suor Gigliola, entrando in clausura, ha dilatato lo spirito per respirare l’aria di quella 1ibertà che tanto aveva desiderato di possedere: «Non dimenticherò mai l’impressione provata la prima sera, dopo il mio ingresso, quando mi sono trovata in ‘cella’ (ogni monaca ha la propria stanza che in gergo monastico è chiamata cella), sola. Sono proprio arrivata; è proprio vero che sono in clausura! Più me lo ripetevo, più la gioia cresceva. ‘Finalmente sei libera, libera di dedicarti tutta a Gesù’ sembrava mi ripetessero le pareti di quella linda e spoglia stanzetta».

  «La realtà che più mi attirava nei primi giorni dopo la mia entrata – soggiunge suor Elisabetta – era quella di abitare sotto lo stesso tetto di Gesù eucaristico, e poter accogliere con tanta prodigalità la Parola di Dio in un clima di silenzio e di raccoglimento che mi permetteva di meditarla; lo desideravo tanto!».

  «Mi ha colpito la fraterna cordialità con cui le suore mi hanno accolta, ricorda suor Lara. Temevo di trovare nelle monache una austerità talmente rigida da sentirmi in dovere di controllare ogni minimo gesto per non essere ripresa dal loro severo sguardo; invece non tardai molto, circondata dalle loro calde premure, a sentirmi ‘in famiglia’ e fu un aiuto grande ad iniziare con serena semplicità la mia vita religiosa».

  Con l’entrata in monastero inizia il periodo del postulandato che non dura più di un anno. È una disposizione molto saggia questa, che permette a chi aspira ad una vita di totale consacrazione a Dio, di rendersi conto, con serena distensione, della propria idoneità alla vita religiosa.

  La giovane che è entrata col sincero desiderio di aderire alla volontà divina accoglie con umile gratitudine il dono di poter rimanere in clausura per sempre; ma se una salute troppo precaria o altri motivi dovessero far comprendere a lei e alla comunità che il volere del Signore è un altro, l’uscita dal monastero non è mai una delusione; e il tempo ivi trascorso non è considerato perduto: nella luce della fede si manifesta come una provvidenziale permissione, un’occasione di comprendere meglio il disegno di Dio sulla propria anima.

  Per noi, che per grazia di Dio siamo rimaste, questo periodo di probandato più che di prova è stato l’inizio di un viaggio ‘interiore’ ricco di interesse e scoperte e, perché non dirlo?, non privo di quella gioia a volte anche esuberante, che forse non pensavamo di sperimentare entrando in clausura.

  Suor Gina ride ancora quando ripensa agli inizi del suo probandato: «Mi sono trovata in mezzo alle monache che si muovevano con tanta disinvoltura, mentre io ero così impacciata e tutto questo anziché crearmi un problema mi faceva venire una voglia matta di ridere; in Coro sbagliavo le cerimonie, non sapevo mai da che parte dovessi voltarmi e la prima reazione era di ridere, non riuscivo a reprimermi; altrettanto in refettorio. La cosa cominciava a preoccuparmi. Mi sembrava di aver intenzioni molto serie entrando in monastero; poi mi veniva anche lo scrupolo di dissipare le monache. Ma, molto comprensive, esse mi rassicurarono dicendo che anche a loro era capitata la stessa cosa, e che questa reazione era dovuta al fatto di trovarmi improvvisamente libera dalle preoccupazioni che mi assillavano prima dell’entrata. Si trattò di qualche mese, poi questa insolita allegria lasciò il posto ad una gioia più contenuta».

  È proprio della giovinezza l’entusiasmo, il sognare gesti eroici da compiere e l’impazienza nel voler bruciare le tappe. Spesso si entra in monastero con una vita claustrale prefabbricata nella nostra fantasia: lunghissime ore di preghiera (coi rapimenti contemplativi!), digiuni, aspre penitenze, un lavoro che sacrifica fino in fondo… insomma la croce coi chiodi e col sangue… per dire a Gesù il nostro amore e per salvare il mondo. Ed è bello e giusto che ci si senta così. La vita contemplativa come quella missionaria e come ogni vita consacrata a Dio, è fatta per anime generose!

  Ma la croce è sempre come la vuole il Signore e non come la sognamo noi. Non abbiamo tardato molto a fare l’esperienza di questa realtà. Gesù ci ha chiesto le penitenze, i digiuni e i sacrifici, ma proporzionati alle nostre capacità e soprattutto li ha chiesti là dove vuol costruire il suo regno d’amore, al di dentro, nel segreto del cuore, dove solo il Padre Celeste può vedere e riversare le sue compiacenze.

  «Sarebbe stato così bello – dice con un sorriso maliziosetto e nostalgico l’ardente suor Gaia – poter offrire lo spettacolo di certi eroismi che si leggono nelle vite dei santi!; invece bisognava accettare la realtà di quelle piccole obbedienze di cui è intessuta la vita monastica».

  «lo ho dovuto tornare… alle origini, confessa suor Katia. Credevo, entrando in monastero, di essere giunta ormai in cima al Calvario; invece ho dovuto rassegnarmi a cominciare da Betlemme, dar la mano a Gesù Bambino e imitarLo mentre si lascia condurre da sua Madre in tutto».

  Ma Gesù, a chi si fa piccolo, rivela i misteri del suo Amore. L’anima ne fa l’esperienza nei suoi intimi rapporti con Lui nella preghiera. Quando il Maestro incontra l’umile docilità può alzare con gioia lo sguardo verso il Padre e ripetergli: ‘Ti ringrazio, Padre, perché queste cose le hai nascoste ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli’ (Mt 11,25).

  La postulante non tarda molto a rendersi conto che al posto delle grandi ferite dei chiodi che sognava, la vita claustrale le riserva nella sua realtà delle piccole punture di spillo nascoste sotto la veste ordinaria della vita quotidiana. Ed è contenta di questa ‘scoperta’: infatti questa lenta immolazione è veramente un rendere Amore per Amore e un dare la vita ‘in Lui’ per il riscatto di molti, come tanto desiderava prima di entrare.

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