SEPARATE… MA NON DIVISE: SETTIMO CAPITOLO

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  Ancora un mese, ancora una settimana… ancora pochi giorni… domani si parte! Quanti sentimenti contrastanti si agitavano nella nostra anima: la gioia di realizzare un’aspirazione che nelle prove e nelle difficoltà si era fatta più intensa; la sofferenza indescrivibile di quell’ultimo abbraccio con i nostri cari; l’interrogativo segreto davanti a quel ‘salto nel buio’: «Ci resisterò?». Un momento d’incertezza, superato presto dalla fermezza e dalla logica della fede: si trattava infine di ripetere quello che avevano fatto gli Apostoli: ‘… e, lasciate le reti, subito Lo seguirono’ (Mt 4,20) senza tanti ‘e poi?’. ‘Chi mi segue non cammina nelle tenebre’ (Gv 8,12), ha detto Gesù, quindi non si trattava di un salto nel buio ma nella luce, anche se accecante per i nostri deboli occhi.

  La prima sensazione che abbiamo avuto entrando? Un respiro di sollievo mentre il cuore cantava col Salmista: ‘il laccio si è spezzato e noi siamo stati liberati!’ (Sl 123).

  «Ricordo ancora la dolcissima sensazione di serenità e di pace che ho provato dopo aver varcato la soglia della clausura. Finalmente ero arrivata in porto!» – rievoca suor Luana che ha dovuto, prima di entrare, versare qualche lacrima per superare non lievi difficoltà.

  Suor Gigliola, entrando in clausura, ha dilatato lo spirito per respirare l’aria di quella 1ibertà che tanto aveva desiderato di possedere: «Non dimenticherò mai l’impressione provata la prima sera, dopo il mio ingresso, quando mi sono trovata in ‘cella’ (ogni monaca ha la propria stanza che in gergo monastico è chiamata cella), sola. Sono proprio arrivata; è proprio vero che sono in clausura! Più me lo ripetevo, più la gioia cresceva. ‘Finalmente sei libera, libera di dedicarti tutta a Gesù’ sembrava mi ripetessero le pareti di quella linda e spoglia stanzetta».

  «La realtà che più mi attirava nei primi giorni dopo la mia entrata – soggiunge suor Elisabetta – era quella di abitare sotto lo stesso tetto di Gesù eucaristico, e poter accogliere con tanta prodigalità la Parola di Dio in un clima di silenzio e di raccoglimento che mi permetteva di meditarla; lo desideravo tanto!».

  «Mi ha colpito la fraterna cordialità con cui le suore mi hanno accolta, ricorda suor Lara. Temevo di trovare nelle monache una austerità talmente rigida da sentirmi in dovere di controllare ogni minimo gesto per non essere ripresa dal loro severo sguardo; invece non tardai molto, circondata dalle loro calde premure, a sentirmi ‘in famiglia’ e fu un aiuto grande ad iniziare con serena semplicità la mia vita religiosa».

  Con l’entrata in monastero inizia il periodo del postulandato che non dura più di un anno. È una disposizione molto saggia questa, che permette a chi aspira ad una vita di totale consacrazione a Dio, di rendersi conto, con serena distensione, della propria idoneità alla vita religiosa.

  La giovane che è entrata col sincero desiderio di aderire alla volontà divina accoglie con umile gratitudine il dono di poter rimanere in clausura per sempre; ma se una salute troppo precaria o altri motivi dovessero far comprendere a lei e alla comunità che il volere del Signore è un altro, l’uscita dal monastero non è mai una delusione; e il tempo ivi trascorso non è considerato perduto: nella luce della fede si manifesta come una provvidenziale permissione, un’occasione di comprendere meglio il disegno di Dio sulla propria anima.

  Per noi, che per grazia di Dio siamo rimaste, questo periodo di probandato più che di prova è stato l’inizio di un viaggio ‘interiore’ ricco di interesse e scoperte e, perché non dirlo?, non privo di quella gioia a volte anche esuberante, che forse non pensavamo di sperimentare entrando in clausura.

  Suor Gina ride ancora quando ripensa agli inizi del suo probandato: «Mi sono trovata in mezzo alle monache che si muovevano con tanta disinvoltura, mentre io ero così impacciata e tutto questo anziché crearmi un problema mi faceva venire una voglia matta di ridere; in Coro sbagliavo le cerimonie, non sapevo mai da che parte dovessi voltarmi e la prima reazione era di ridere, non riuscivo a reprimermi; altrettanto in refettorio. La cosa cominciava a preoccuparmi. Mi sembrava di aver intenzioni molto serie entrando in monastero; poi mi veniva anche lo scrupolo di dissipare le monache. Ma, molto comprensive, esse mi rassicurarono dicendo che anche a loro era capitata la stessa cosa, e che questa reazione era dovuta al fatto di trovarmi improvvisamente libera dalle preoccupazioni che mi assillavano prima dell’entrata. Si trattò di qualche mese, poi questa insolita allegria lasciò il posto ad una gioia più contenuta».

  È proprio della giovinezza l’entusiasmo, il sognare gesti eroici da compiere e l’impazienza nel voler bruciare le tappe. Spesso si entra in monastero con una vita claustrale prefabbricata nella nostra fantasia: lunghissime ore di preghiera (coi rapimenti contemplativi!), digiuni, aspre penitenze, un lavoro che sacrifica fino in fondo… insomma la croce coi chiodi e col sangue… per dire a Gesù il nostro amore e per salvare il mondo. Ed è bello e giusto che ci si senta così. La vita contemplativa come quella missionaria e come ogni vita consacrata a Dio, è fatta per anime generose!

  Ma la croce è sempre come la vuole il Signore e non come la sognamo noi. Non abbiamo tardato molto a fare l’esperienza di questa realtà. Gesù ci ha chiesto le penitenze, i digiuni e i sacrifici, ma proporzionati alle nostre capacità e soprattutto li ha chiesti là dove vuol costruire il suo regno d’amore, al di dentro, nel segreto del cuore, dove solo il Padre Celeste può vedere e riversare le sue compiacenze.

  «Sarebbe stato così bello – dice con un sorriso maliziosetto e nostalgico l’ardente suor Gaia – poter offrire lo spettacolo di certi eroismi che si leggono nelle vite dei santi!; invece bisognava accettare la realtà di quelle piccole obbedienze di cui è intessuta la vita monastica».

  «lo ho dovuto tornare… alle origini, confessa suor Katia. Credevo, entrando in monastero, di essere giunta ormai in cima al Calvario; invece ho dovuto rassegnarmi a cominciare da Betlemme, dar la mano a Gesù Bambino e imitarLo mentre si lascia condurre da sua Madre in tutto».

  Ma Gesù, a chi si fa piccolo, rivela i misteri del suo Amore. L’anima ne fa l’esperienza nei suoi intimi rapporti con Lui nella preghiera. Quando il Maestro incontra l’umile docilità può alzare con gioia lo sguardo verso il Padre e ripetergli: ‘Ti ringrazio, Padre, perché queste cose le hai nascoste ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli’ (Mt 11,25).

  La postulante non tarda molto a rendersi conto che al posto delle grandi ferite dei chiodi che sognava, la vita claustrale le riserva nella sua realtà delle piccole punture di spillo nascoste sotto la veste ordinaria della vita quotidiana. Ed è contenta di questa ‘scoperta’: infatti questa lenta immolazione è veramente un rendere Amore per Amore e un dare la vita ‘in Lui’ per il riscatto di molti, come tanto desiderava prima di entrare.