L’abito non fa il monaco…, eppure, che gioia indossarlo!

Separate... ma non divise: ottavo capitolo
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Io sono fidanzata a Colui che gli angeli servono,

la cui bellezza il sole e la luna ammirano.

Lui che ha per Madre una vergine il cui Padre non conosce donna…

mi ha rivestita con l veste di giustizia…

ha posto sul mio capo un segno

Dalla Liturgia della memoria di S. Agnese

  ‘L’abito non fa il monaco’, si dice, e nessuno è certo di questa verità tanto quanto colei che si prepara a consacrarsi a Dio. Il tempo che la separa dalla vestizione lo vive già come se fosse monaca, anche se ancora è senza abito e sente in fondo al cuore di portare il sigillo delle spose dell’Agnello.

  Tuttavia l’abito religioso viene sempre ricevuto con gioia. Ognuno di noi ricorda con commossa gratitudine il giorno in cui ha vestito la candida tonaca domenicana, lo scapolare, il soggolo, il velo e il mantello nero.

  Quando le cose esterne sono segno di realtà spirituali, esse acquistano ai nostri occhi una bellezza e un significato che ce le fanno amare; così è dell’abito che indossiamo. È un segno di consacrazione; ricorda a noi e al mondo che apparteniamo in maniera speciale a Cristo. Anche i colori dell’abito domenicano hanno un linguaggio: il bianco parla di semplicità e di innocenza di vita: S. Giovanni nell’Apocalisse ci descrive beati del cielo rivestiti di candide vesti. Il nero del mantello, così deciso e severo, è come un richiamo alla penitenza, all’austerità di vita, baluardo di difesa per custodire il delicato candore di un’innocenza conservata o riacquistata nel ‘Sangue’ di Gesù.

  L’uniformità dell’abito è pure segno di quella immutabilità che va oltre le volubili mode di questo mondo. È anche simbolo di unione tra noi sorelle e con tutti i membri dell’Ordine, espressione del pensiero del Santo Fondatore il quale, rivestendoci di una medesima divisa, ci tramanda il suo desiderio: vederci tutti ‘una cosa sola’.

  Entrando in Monastero abbiamo intrapreso un lungo viaggio interiore di cui la vestizione e la professione temporanea sono le prime tappe; la professione solenne è la penultima tappa; l’ultima, che segna il traguardo finale, è quella che ci farà incontrare lo Sposo che vedremo finalmente a volto scoperto!

  Il periodo di formazione degli anni trascorsi in noviziato si distingue per una particolare cura nel conoscere la strada che conduce ‘alla meta’, i mezzi per percorrerla bene e camminare speditamente. Lasciato infatti il noviziato, ci si mette al passo con le sorelle in comunità, come in una cordata in cui tutte concorrono nell’impegno di raggiungere la cima.

  Tutto questo non esclude che il tempo di noviziato abbia le sue prove e le sue difficoltà. Del resto, anche chi vuole fare dell’alpinismo, prima di diventare un provetto scalatore deve pur rassegnarsi a imparare a fare le scalate, accettando di cadere, scivolare o sbagliare. Non ci si scoraggia però, perché quelle vette sono troppo allettanti; come si può rinunciare alla gioia di raggiungere la cima? Poi non si è soli, c’è la guida che è esperta.

  Anche per la novizia c’è una guida: la Madre Maestra. Una guida scelta da Gesù, perciò fidata, anzi, addirittura Lo rappresenta. A lei ci si può rivolgere ogni momento con la semplicità di un fanciullo che, aprendosi alla vita, sente il bisogno di manifestare i suoi tanti ‘perché?’.

  Suor Alberta, sempre così indulgente, non è nata nemmeno lei senza spirito critico, e per incanalarlo bene ha avuto il suo da fare. “Nella mia intransigenza giovanile – confessa – mi sentivo spinta a sottolineare quelle debolezze che nelle persone anziane sono quasi connaturali; ero portata a vedere solo il rovescio della medaglia. È stato un aiuto notevole quello che ho ricevuto dalla mia Madre Maestra alla quale con semplicità, manifestavo ogni mia impressione. Ella, pur non negando la realtà, mi additava i lati positivi non meno veri e reali; pian piano aprivo gli occhi e scoprivo esempi luminosi, come un fervore sempre fresco nella celebrazione della Liturgia delle ore, una puntualità gioiosa agli atti comuni, e certi atti di virtù che mi commuovevano come vedere una sorella anziana chiedere scusa con tanta prontezza e umiltà a una giovane monaca”.

  Non è raro il caso che una volta entrate in monastero, con l’aiuto della Grazia elargita in modo particolarmente sensibile nei primi tempi dal buon Dio, si cammini per un certo periodo a passo veloce; si ha la sensazione di ‘toccare il cielo con un dito!’, in poco tempo… Ma tutti sanno che il Tabor è ordinato al Calvario, senza dimenticare che le sofferenze del Calvario hanno come fine le gioie ben più grandi della risurrezione.

  A volte, ciò che può far arrestare il cammino, è un piccolo scoglio che si è trovato sulla via; non si aspettava forse di incontrarlo e appare come una montagna insormontabile! Suor Maria ne ha fatto l’esperienza: “Dopo il sereno periodo di probandato – rivela – ho incontrato difficoltà che ancora adesso non saprei definire; quel che prima era così semplice lo trovavo complicato e mi sembrava di aver sbagliato tutto. Il guaio era che trattenevo tutto in cuore e la matassa si ingarbugliava ogni giorno di più. La preghiera mi ottenne la forza di aprirmi ed esporre il mio stato d’animo alla Madre Maestra, la quale, nella sua amabile discrezione, pur soffrendo nel vedermi così, aveva rispettato il mio riserbo. Ricordo ancora quella sera, in cella, in cui ‘tirai fuori tutto’: la Madre mi ascoltava con interesse mentre io, man mano che esprimevo le mie difficoltà, le vedevo rimpicciolirsi sino a scomparire. Alla fine non fu neppure necessario che mi si desse tanti consigli; la Madre lo comprese e mi lasciò con un sospiro di sollievo, sicura di vedermi riprendere il cammino nella semplicità e nella gioia”.

  Questo tempo di noviziato che precede, come una progressiva maturazione, il giorno in cui la novizia ha la gioia di pronunciare il suo sì definitivo allo Sposo divino, porta un’impronta caratteristica di spirituale freschezza, simile alla primavera in cui la natura, scaldata dal tepore del sole, germoglia e si apre per offrire lo spettacolo di un’incantevole fioritura.

  La comprensione della liturgia, la preghiera alimentata dalla meditazione della Parola di Dio e dallo studio ordinato e progressivo delle verità della fede, l’impegno, che non conosce soste, di tradurre nella vita ciò che la mente e il cuore apprendono, rivelano alla giovane monaca quello che S. Paolo chiama ‘il mistero nascosto nei secoli in Dio’ (Ef. 3,9).

  In tal modo essa si prepara più che a fare il sacrificio della propria vita con la Professione religiosa, a riceverla come un dono che mette nella felice condizione di ‘essere riempiti di tutta la pienezza di Dio’ (Ef. 3,19).