A Cicognolo la Veglia per la vita per la Zona 4

Durante la serata lettura di una testimonianza di Mario Melazzini

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Luce, segno della vita. Quattro candele, accese e consegnate dai bambini, hanno simbolicamente illuminato la Veglia di preghiera per la vita che si è svolta, per la zona 4, nel nuovo salone parrocchiale di Cicognolo.

La Veglia, accompagnata dai canti eseguiti dalla Schola cantorum di Motta Baluffi e Scandolara Ravara e scandita dalla lettura della Parola di Dio e dalle preghiere, è stata un vero e proprio momento di meditazione e di invocazione della presenza di Dio, fonte e “padrone” della vita, il solo e unico che la dona.

Il vicario zonale don Davide Ferretti ha sottolineato l’importanza di «riflettere sulla sacralità della vita umana, da tutelare dal principio fino alla sua naturale conclusione, ma anche la necessità da parte della comunità cristiana di darne testimonianza. Ringraziare il Signore per le creature che popolano la terra e avere la testardaggine di affermare che la vita è nelle mani di Dio, non dell’uomo. Non bisogna rinunciare a Dio né metterlo da parte perché ciò significa togliere la vita che è “sentiero di amore”, un sentimento da recuperare e rivitalizzare senza condizioni e senza distinzioni».

Durante la celebrazione è stata data lettura di due significative testimonianze. Il medico e primario ospedaliero Mario Melazzini, ammalato di Sla e presidente dell’associazione italiana dei pazienti affetti da questa malattia, ha parlato di Piergiorgio Welby e del suo “diritto” di interrompere la vita.

Il dottor Melazzini ha riportato la sua esperienza personale, ammettendo di aver pensato di ricorrere all’eutanasia perché considerava soltanto se stesso, senza tenere conto dei sentimenti e delle esigenze dei familiari. «La richiesta di eutanasia – ha dichiarato – ed eventualmente la scelta della società di cedere su questo fronte, è puro egoismo. È la risposta più facile e sbagliata perché i malati vanno aiutati a vivere e questo è possibile solo attraverso un’assistenza adeguata e dignitosa. È un’accoglienza del malato e della sua sofferenza che alla società inevitabilmente “costa”.

L’impegno di chi lavora per il diritto alla vita diventa allora quello di fare del tutto perché quel costo non diventi mai un “peso” e che la società, nel suo insieme, non dimentichi mai che la vita è un dono e che vale la pena di viverlo fino in fondo».

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