Approfondimenti

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1887: Un cremonese pellegrino in Terrasanta

Ercolano Cappi (1854 – 1931)

Premessa

Sul finire del XIX secolo, insieme ad una rinnovata presa di coscienza da parte del laicato cattolico del proprio ruolo nella società, in relazione all’allentamento dei divieti pontifici alla partecipazione della vita pubblica, nasce anche l’esigenza di una spiritualità laicale nuova che sappia nutrirsi alle fonti della fede. L’Opera dei Congressi, le Settimane Sociali, l’Azione Cattolica sono tappe essenziali e principali ma tutto questo non si comprenderebbe se non si approfondisce quel fenomeno particolarissimo che sono stati i primi pellegrinaggi in Terra Santa.

Promossi dall’Episcopato italiano e sostenuti da un apposito Comitato nazionale, pur rimanendo fenomeni elitari, soprattutto a motivo della loro onerosità, restano momenti di crescita spirituale del laicato cattolico.

Tra le molte esperienze tramandateci resta memorabile il pellegrinaggio organizzato dalla Diocesi di Milano nel 1902 e presieduto dal Beato Card Andrea Carlo Ferrari che nella lettera “Jerusalem” ne descrive le tappe, offrendo molti elementi di riflessione.

Ma prima di questo, vanno ricordate altre esperienze analoghe: è il caso di quella vissuta dal cremonese dott. Ercolano Cappi, medico condotto di Castagnino Secco – oggi Castelverde – che compie il pellegrinaggio in Terra Santa dal 13 Agosto al 9 Ottobre 1887 e che lascia in 49 lettere alla famiglia una testimonianza di riflessione e di fede incarnata.

Raccolte e pubblicate nel 1889, sono dedicate al Vescovo Geremia Bonomelli, il quale stava vivendo una stagione non facile del suo ministero, non ultimo a motivo della condanna del suo famoso opuscolo “Roma, l’Italia e la realtà delle cose” che con uno gesto, rimasto famoso, durante il Pontificale di Pasqua del 21 aprile dello stesso anno, ammettendone la paternità, contemporaneamente esprimeva obbedienza e sottomissione alla volontà del Papa.

Sarebbe oltremodo interessante approfondire il clima che si respirava in Diocesi in quegli anni: possiamo presumere che i fermenti di novità, portati avanti, non senza fatica, dal Vescovo Bonomelli, non erano estranei al dott. Cappi, dalle cui lettere traspira un sentimento di profonda stima nei confronti del Vescovo. Ma non è nemmeno estranea a questa sensibilità la grande statura morale del Parroco di Castagnino Secco, quell’intransigente don Agostino Mondini, spesso in diatriba con il Vescovo, il quale, tuttavia gli riconosceva “una fibra prodigiosa, d’una vita santa benché di modi in apparenza duri”

Il dott. Ercolano Cappi

CappiNato a Castelleone nel 1854, frequenta la facoltà di medicina all’università di Pavia, ospite del collegio Ghisleri, stringe amicizia con il giovane Pietro Maffi, futuro arcivescovo di Pisa, e fonda con lui il circolo studentesco. Laureato nel 1878, si perfeziona negli studi a Vienna e a Parigi; nel 1882 diventa titolare della condotta di Castagnino Secco ed esercita la professione con spirito di abnegazione. Insieme al Parroco don Pietro Gardinali e al Sindaco Primo Ferrari darà vita, nel 1901, all’ospizio dei cronici, splendida testimonianza di carità che tuttora sopravvive.

Sposato ebbe due figli: il maggiore Giuseppe, diventerà una figura eminente nel panorama politico italiano del dopoguerra, esponente di spicco della Democrazia Cristiana: deputato all’Assemblea Costituente, sarà successivamente Presidente della Corte Costituzionale.

Dalle lettere che il dott Cappi invia alla famiglia durante il pellegrinaggio in Terra Santa emerge la spiccata personalità di quest’uomo di fede, ugualmente attento al proprio ruolo di sposo, di padre ed educatore oltre che disincantato e fine osservatore della realtà che incontra nel corso del suo faticoso cammino. In tante occasioni emerge la professionalità, lo stile discreto ma attento alle fatiche e sofferenze altrui, attratto dalle testimonianze di dedizione e di servizio che incontra, soprattutto dei Padri Francescani, custodi dei Luoghi Santi

Il Pellegrinaggio

Come già ricordato, il pellegrinaggio del dott. Cappi inizia la sera del 13 agosto 1887, con la partenza da Castagnino alla volta di Firenze e da qui a Livorno, da dove si imbarca sul piroscafo Enna che, dopo gli scali di Napoli e Messina, giungerà il 22 Agosto ad Alessandria d’Egitto.

La prima tappa consiste nella visita in Egitto ad Alessandria, poi lo spostamento per ferrovia, al Cairo e zone limitrofe, poi Ismailia e Porto Said; da qui, ancora via mare, fino a Giaffa da dove inizia il percorso in Terra Santa che lo porterà a Gerusalemme, a Betlemme e con una spedizione carovaniera, a Gerico, Nablus, Nazaret, al lago di Tiberiade, fino S. Giovanni d’Acri e ad Haifa, da dove riprenderà la navigazione che lo riporterà a Giaffa, Alessandria d’Egitto, per sbarcare definitivamente a Livorno e da qui a Castagnino dove vi farà ritorno il 9 Ottobre: in tutto il pellegrinaggio era durato 58 giorni; di questi ben 19 di viaggio a cui si devono aggiungere i lunghi e faticosi giorni degli spostamenti interni in Egitto e in Terra Santa, fatti soprattutto a cavallo.

La tappa in Egitto

Non strettamente attinente al percorso del pellegrinaggio nella terra di Gesù, questa tappa è per il dott. Cappi, come una grande introduzione a quello che sarà la Terrasanta: riflette su ciò che vede, contempla la grandezza della testimonianze dell’antica civiltà egizia, apprezza e insieme ne riconosce i limiti: le piramidi, la sfinge, i tesori del museo del Cairo sono muti testimoni di un mondo che non c’è più. Lo affascinano la bellezza e l’armonia delle costruzioni arabe: la Cittadella del Cairo con le moschee; lo irrita però il pensiero che la civiltà musulmana, a volte, ha distrutto patrimoni inestimabili di cultura e di fede.

E’ ammirato dalla contemplazione, dall’alto della grande piramide, del deserto: un luogo di silenzio, di solitudine: gli vengono in mente le testimonianze di S. Antonio, di S. Pacomio e dei tanti anacoreti.

Ma è soprattutto il ricordo della tradizione della permanenza in Egitto della S. Famiglia che anima la preghiera di queste giornate: le visite ai luoghi che la tradizione vuole legati a Gesù fanciullo, Maria e Giuseppe sono per lui motivo di una profonda esperienza di fede

Nella Terra di Gesù: Gerusalemme

GerusalemmeDopo l’Egitto finalmente la terra di Gesù, dove vi giunge il 28 Agosto, sempre via mare, arrivando a Giaffa è ospite nel convento francescano; da qui a Lidda, con il ricordo dell’episodio di Tabita raccontato dagli Atti degli Apostoli e infine Gerusalemme dove vi giunge, stremato dalla fatica e dal caldo, la sera del 30 Agosto.

La salita alla città santa è un’esperienza faticosa ma indimenticabile; scrive: “ci apparve la città santa, colla torre di Davide, le cupole, le terrazze, le mura e il monte oliveto che forma lo sfondo del panorama. La stanchezza ci opprimeva talmente che il sussulto di gioia onde fu preso il cuor nostro, rimase sepolto entro di noi. Scesi da cavallo, recitammo il salmo: Laetatus sum. Riprendemmo la via che fa capo ad una porta, detta di Giaffa, Bab el Khalil per gli indigeni, la porta per la quale entrano a Gerusalemme i pellegrini d’occidente”

A Gerusalemme i nostri pellegrini sono ospiti a Casanova e dividono il tempo tra incontri ufficiali con le personalità locali, visite ai Santuari e ai luoghi santi e momenti intensi di preghiera.

Della città – che conta 45.000 abitanti, di cui 30.000 ebrei, 7.000 musulmani e 8.000 cristiani, divisi nelle varie confessioni, e che si ricorda, non è che una povera città di provincia del grande impero ottomano, dipendente amministrativamente da Damasco – il dott Cappi ne fa una descrizione dettagliata: le mura e le porte (non c’è ancora la porta nuova che immette nel quartiere cristiano), i quattro quartieri, le chiese e soprattutto la basilica del S. Sepolcro che viene descritta con estrema precisione: a riscontro c’è la sofferenza nel vedere il luogo poco curato a motivo della compresenza, non sempre tranquilla, delle tre confessioni cristiane.

Dalla descrizione deduciamo che a Gerusalemme non sono ancora costruite la basilica della Dormitio sul Sion, la basilica dell’Agonia al Getzemani, il Dominus Flevit, il Gallicantu, non è ancora stata iniziata la basilica del Pater; c’è solo il convento, mancano alcune stazioni della via Crucis; è in costruzione la chiesa ortodossa di S. Maria Maddalena.

La presenza del Patriarcato Latino, ricostituito da pochi anni, e soprattutto delle comunità dei Padri Francescani della Custodia di Terrasanta sono gli elementi che più consolano e rassicurano la vita dei pellegrini: ospitalità squisita ed estrema disponibilità verso tutti. Ed è soprattutto la carità dei cristiani che edifica: al convento di S. Salvatore accorrono tutti, cristiani e non per farsi curare dal frate-medico; come pure la distribuzione della minestra a mezzogiorno è fatta senza alcuna preclusione: gesti semplici, forse scontati per il nostro tempo, ma all’epoca no; segni di una carità che costruisce fraternità. Così nella lettera 29 il dott. Cappi scrive: “ho sempre amato e rispettato queste rozze tonache, sotto le quali aveva ammirato le virtù più elette, ma il mio amore è grandemente cresciuto dacchè mi trovo in Terrasanta … nulla ha potuto atterrirli, non il fanatismo musulmano che degenerò più volte in stragi, non l’odio giudaico, non la rapacità dei governanti, non la prepotenza degli scismatici…”

Le celebrazioni avvengono soprattutto nella Basilica del S. Sepolcro o giungono ad essa, come la Via Crucis del venerdì, alla quale i nostri pellegrini partecipano con un misto di stupore per l’unicità del cammino e di intima commozione. Particolarmente intensa la notte di veglia passata in Basilica.

Le visite portano i nostri pellegrini anche agli altri luoghi santi: la Chiesa di S. Anna, il colle di Sion, il monte degli ulivi, il Getzemani, Betania, con il sepolcro di Lazzaro Betfage, Ein Karem; come pure c’è anche tempo per la visita alle moschee e al muro occidentale della preghiera ebraica.

Da Gerusalemme una tappa particolarmente affascinante è quella nel deserto di Giuda, per la visita al monastero della Quarantena, a Gerico e al Giordano

Betlemme

“vi sarà facile comprendere la gioia onde fummo presi stamane quando verso le ore sette si spiegò ai nostri sguardi foggiata a semicerchio colle sue casette bianche sul dorso di una collina foggiata ad anfiteatro … Betlemme esaltata dai profeti fra tutte le città di Giuda meta del viaggio dei re d’Oriente e dei pellegrini dell’occidente”

In questa cittadina la presenza cattolica supera del 50% l’intera popolazione che conta meno di settemila abitanti Come oggi, nella grotta, sotto l’altare della natività c’è la stella argentea con la scritta latina “hic de Virgine Maria Jesus Christus natus est. – 1717”, segno della proprietà cattolica, non sempre rispettata, tanto che accanto vigila una guardia turca: da qui nasce una supplica accorata: “si affretti il giorno dell’unità tra i discepoli di Cristo!”

Nelle grotte vicine il dott. Cappi venera l’altare di S. Eusebio da Cremona, amico e discepolo di S. Gerolamo.

In Galilea

Il 17 settembre inizia per i nostri pellegrini una ulteriore tappa, certamente difficile e faticosa che li porta, attraverso la Samaria, fino in Galilea.

A Sichem si sosta in un luogo praticamente in rovina, dove la tradizione colloca il pozzo di Giacobbe; alle pendici del monte Garizim si ricorda il rinnovo dell’alleanza da parte di Giosuè; nella sinagoga di Nablus hanno la possibilità di venerare il famoso Pentateuco Samaritano. Continuando il cammino, passando per Naim, vedono i monti di Gelboe, testimoni della morte di Saul e finalmente giungono a Nazaret dove pregano, commossi, nell’antica piccola chiesa costruita sulla grotta dell’Annunciazione che oggi ha lasciato il posto all’attuale grande Basilica. Hanno tempo per pregare anche nella chiesetta di S. Maria del tremore, sul precipizio della città.

Da Nazaret toccano gli altri luoghi santi della Galilea: la salita al monte Tabor e la veglia notturna, l’arrivo al lago di Tiberiade con la memoria dei luoghi evangelici di Cafarnao, Magdala, Betzaida: i santuari che oggi vediamo non erano ancora costruiti e il ricordo degli episodi è affidato semplicemente alla bellezza della natura, e finalmente lungo la strada che riporta a Nazaret, la sosta a Cana con la testimonianza di una piccola cappella che ricorda il primo miracolo di Gesù; poi ad Haifa e al monte Carmelo e a S. Giovanni d’Acri con i ricordi crociati, prima del ritorno in Italia.

Dalla lettera n. 21 – Gerusalemme – 1 settembre 1887

Chi osserva la Chiesa del Santo Sepolcro da un’alta terrazza o dal pendio del monte degli ulivi, non iscorge che due cupole: l’una grandiosa, coperta di metallo, che incorona la rotonda, ove è l’edicola del S. Sepolcro: l’altra più piccola, di pietra, che sovrasta al coro, all’ antico coro dei canonici, attiguo alla rotonda. Tutto il resto dell’edifizio è circondato, o per dir meglio strozzato, soffocato da terrazze, da case alte e basse, da scale scoperte, da archi, da moschee, da minareti

La facciata solo è scoperta, una, facciata qua­drata, greggia, di stile gotico, che guarda su di una piazzetta coperta di marmo, ornata dei basa­menti di alcune antiche colonne e celebre pel martirio ivi subito da alcuni religiosi francescani uccisi in odio alla fede.

Varchiamo la soglia, e sostiamo per una prece accanto alla gran pietra rossa, illuminata da lam­pade, che segna il punto dell’imbalsamazione. Ec­coci in un ambiente spazioso, scarsamente illu­minato, dove, giusta l’espressione di Frà Lavinio, non regnano né la simmetria, né il buon gusto, nè la ricchezza. Svanì sotto il martello di Cosroe re di Persia lo splendore dell’antica basilica eretta da Costantino: sotto la scimitarra vittoriosa scomparve la Chiesa che sorse sulla rovina dell’ an­tica: finalmente anche il fuoco si fece complice dei nemici di Cristo e sul principio del secolo nostro distrusse la Rotonda. Malgrado tutto ciò, il culto pel S. Sepolcro non venne mai meno: esso fu più forte del fanatismo e della sete d’oro dei credenti nello scaltro profeta, più tenace dell’odio ebraico, più ardente delle fiamme che ri­dussero la Rotonda in un cumulo di macerie.

In quell’ambiente sacro e misterioso, il visitatore senza guida si sente smarrito e confuso. Bisogna visitare parte a parte quel vasto edificio: bisogna visitare partitamente la Chiesa del Calvario, la Rotonda del S. Sepolcro, la cappella francescana dell’apparizione, la chiesa sotterranea dell’Invenzione della S. Croce.

A mano destra del portone d’ingresso, vis-a-vis del divano dove ozia, inerme sentinella, la guar­dia turca una scala marmorea di 18 gradini mette su di una piattaforma rettangolare, coperta da volte basse e pesanti, sostenute da grossi pilastri in pietra. La piattaforma è chiusa da un lato da una balaustra in marmo, mentre dagli altri lati le pareti si confondono colle volte, ed è divisa in due cappelle disuguali separate dai pilastri. Di queste la minore porta sullo sfondo l’altare venerabile della morte del Salvatore, l’ altra porta quello della crocifissione; in mezzo si erge un terzo e piccolo altare, detto dello Stabat, perché segna il punto dove stava la Regina dei Martiri.

Una finestra a vetri dipinti lascia veder l’interno di una piccola cappella affatto distinta dalla piattaforma ed alla quale si accede per una scaletta sita fuori del tempio, di fianco alla facciata. La piccola cappella indicherebbe il luogo ove si trovava la Madre mentre i carnefici inchiodavano il Salvatore sulla croce.

Tale ai nostri giorni è il Calvario, questo monte venerato al quale ci accostiamo coll’animo per ritemprarlo ogniqualvolta la sventura ci addenta, l’odio dei nemici ci colpisce, il dolore ci strazia. La roccia che è un calcare compatto, come la maggior parte dei monti di Giudea, scompare sotto il rivestimento di marmi la cui finezza è molto contestabile, L’altezza non arriva a cinque metri sul livello del suolo: i fianchi per una parte ta­gliati a perpendicolo, scompaiono pel resto nella cinta dell’edifizio, sepolto esso stesso, come dissi, in mezzo ad altri edifizii. Certamente esso doveva esser ben diverso al tempo in cui venne consu­mato il deicidio. Ma le esigenze della tecnica edilizia, dietro il progetto stabilito di separare il Calvario dal S. Sepolcro, pur comprendendoli in un solo recinto: i saccheggi e le distruzioni ri­petute della città che accumulando macerie su macerie, elevarono l’antico livello delle vie e delle case, siccome avvenne a Roma ed altrove: il livore degli ebrei, il fanatismo spesso feroce dei mussulmani, la pietà indiscreta di molti pellegrini e specialmente dei russi, dolenti forse che Roma, non Mosca, non Kiew, possegga le reliquie venerabili della Passione: tutto ciò spiega le piccole proporzioni colle quali oggi si presenta il monte Calvario. Indarno ivi si cercherebbe l’arte squisita delle nostre basiliche più insigni, il buon gusto degli ornamenti dei nostri santuari d’Italia o di Francia. Il pavimento è ornato da mosaici già lo­gori dal tempo, dalle genuflessioni e dai baci: dalle volte dipinte a colori oscuri, pendono in gran numero lampade e candelabri. I due altari della crocifissione e dello Stabat, essendo in mano dei latini, si distinguono per la semplicità e la parsimonia degli ornamenti: ma l’altare della morte del Salvatore, ch’è in mano ai scismatici è un affastellamento di candelieri, di croci, d’immagini, dove l’arte è sacrificata alla ricchezza della materia. Lo sfondo dell’altare è formato da un’ enorme mezzaluna d’argento cesellato, dove sono raffigurate le scene della Passione: ai due lati due statue di grandezza naturale, in lamina d’ar­gento, raffiguranti S. Giovanni e la Vergine, guardano verso un crocifisso, in dimensioni minori del naturale, che s’innalza da un piccolo altare sorretto da esili colonnine, sotto il quale un disco d’argento forato nel mezzo, indica il punto dov’era piantata la Croce. Presso le statue d’argento, due piccoli dischi di marmo nero segnano, il punto ove si alzavano le croci dei ladri. Verso destra, un’ ampia fessura della roccia, os­servabile con un lume, attesta il terremoto che seguì al “consummatum est”

Che cosa si sente in cuore lassù, chiederà il lettore, mentre la destra s’introduce nel vano dov’era piantata la Croce, mentre le ginocchia premono quel suolo ove Gesù venne spogliato delle vesti, ove venne inchiodato sul tronco, dove esanime, insanguinata, sfatta dal lungo martirio, la salma divina si adagiò sulle ginocchia materne?

Il primo sentimento che s’impadronì di me fu quello di un immensa riconoscenza. Chi son io, servo inutile, oscuro e semplice fedele, perchè Voi, mio Dio, mi faceste degno di assistere a questo convito di grazia, d’invocare le Vostre benedizioni sul capo dei miei cari in questo luogo augusto dove Voi siete morto per amor degli uomini? Se io non sento, come Maria l’egiziaca, la mano invisibile che mi trattiene dall’accedervi, sento però che un favore così incomparabile è frutto elusivo della vostra bontà e della vostra misericordia, ambedue infinite: che gli è per esse ch’io son giunto incolume su questa vetta venerata, verso la quale indarno tendono le braccia tanti piissimi leviti, tante vergini languenti d’amore per Voi…

Dalla Lettera 24 – Gerusalemme 3 settembre 1887

…. Un altro spettacolo, di natura essenzialmente diversa, ma anch’esso lacrimevole ci aspettava sullo scorcio della giornata di ieri. Era il pianto degli Ebrei su un muro superstite della cinta dell’antico tempio. Non v’ha forestiero che, giunto a Gerusalemme, non cerchi d’assistere a quella scena originale, curiosissima, unica al mondo. Per viottoli sudici, dov’era necessario procedere con molte cautele e cogli occhi ben aperti, giungemmo dinanzi ad un alto muraglione con pietre colos­sali: quelle della base hanno una lunghezza che varia dai 2 ai 3 metri e va gradatamente sce­mando man mano che il muro ascende. Prima della conquista araba, gli Ebrei pregavano sull’area stessa del Tempio: ma dopo l’innalzamento della moschea di Omar, essi debbono accontentarsi di piangere su questo muro deserto.

Prima ancora di giungervi, un sordo mormorio interrotto da alcune grida acute mi colpì l’orecchio: ma il mormorio diventò un rumore alto, confuso, dove le strida delle donne si mescolavano al lamento grave degli uomini, e i singhiozzi ai pianti, quando mi trovai in mezzo a quell’assem­blea giudaica.

Le più infuriate, non occorre dirlo, sono le donne: urlano, stridono e baciano quelle fredde pietre bagnate delle loro lagrime. Natu­ralmente curiose, sembra che non si accorgano nemmeno dei forestieri in quell’ora, ossia alle 4 pomeridiane d’ogni Venerdì. Degli uomini, chi pianta chiodi negli interstizi delle pietre, chi legge ad alta voce libroni vecchi, gialli, con caratteri ebraici: chi manda lamenti sul palazzo reale devastato, sul tempio distrutto, sulle mura abbattute, sulla maestà trascorsa, sui grandi uo­mini morti, sulle pietre preziose abbrucciate, sui re disprezzati.

Se v’ha qualche rabbino, allora si recitano pre­ghiere in coro: Noi Vi supplichiamo, o Signore, abbiate pietà di Sion! Radunate i figli di Geru­salemme! Affrettatevi, Salvatore di Sion! Parlate in favore di Gerusalemme! Che la bellezza e la maestà circondino Sion! Volgetevi con clemenza verso Gerusalemme! Che la denominazione reale si ristabilisca sopra Sion! Consolate coloro che piangono su Gerusalemme!

 

Etiopia, un popolo in cammino

Appunti a margine al viaggio 2014

EtiopiaLungo le strade, per lo più sterrate, la gente è in cammino. Centinaia di migliaia, ogni giorno, ad ogni ora. Ci siamo domandati quale poteva essere la ragione e le varie risposte dateci corrispondevano certamente alla verità: vanno al mercato, tornano da scuola, vanno al pozzo per attingere acqua, tornano dai campi.

Ma questa è la semplice descrizione che richiama una verità più profonda che vogliamo indagare perché a noi europei e parso singolare questo aspetto della vita di questa gente. Dunque la strada, ancor più della casa è il luogo della vita, luogo di condivisione, di amicizia. E i bambini, tantissimi, che ad ogni sosta dei nostri pulmini accorrevano per un piccolo dono inaspettato, sono il futuro giovane di questo popolo che non possiamo deludere ancora.

Un popolo che cammina è giovane, guarda al domani con coraggio, sa andare oltre, oltre i drammi, le difficoltà, le povertà. E sa cogliere, nel futuro, la ragione di una speranza, la grande speranza dell’Africa intera. Ci siamo chiesti che posto occupa la fede cristiana in questo abitare la strada. Qui il cristianesimo è esperienza di un cammino storico millenario unico, dove tradizioni tribali a volte comuni a quelle di altre popolazioni africane si sono fuse con alcuni elementi biblici dell’antico testamento e con la fede cristiana, dando vita alla chiesa abissina. L’ambito di riferimento è il patriarcato copto di Alessandria dal quale per ragioni geografiche e storiche la chiesa etiope dipendeva, fino al 1959, ma questo ha voluto soltanto dire una specie di grande protezione, un rafforzamento prestigioso della posizione della gerarchia nel panorama politico dell’impero del Negus perché questa chiesa e unica per le sue caratteristiche.

Rimarcabile è infatti il riferimento all’antico testamento: le chiese storiche di Lalibela e quelle dei tanti monasteri sono costruite a modello del tempio di Salomone con il santo dei santi che conserva una copia dell’arca dell’alleanza, il cui originale, la tradizione vuole conservato, invisibile a tutti, in una chiesa di Axum. E queste arche le portano in processione, per giorni interi durante la grande festa del Timkat. Dunque ritorna ancora la strada, questa volta come manifestazione di fede, che intercetta il vissuto popolare.

Come è bello constatare che anche in questa terra sia presente la dimensione del pellegrinaggio: gente che si mette in viaggio per giorni e giorni per raggiungere la Gerusalemme etiope di Lalibela o i santuari di Axum. Queste le prime impressioni del viaggio in Etiopia, promosso dal Segretariato Diocesano Pellegrinaggi, che si è svolto a fine febbraio, a cui ha partecipato un discreto gruppo di persone, provenienti da varie parrocchie, tra cui spiccava quello di Cassano d’Adda.

Da Addis Abeba, la capitale, dove sono ancora evidenti i segni della presenza italiana, ai monasteri del lago Tana; da Gondar, la città dei castelli fino ad Axum con la sua prestigiosa area sacra ricca di obelischi, tra cui quello che era stato portato a Roma e che è stato restituito con un gesto significativo di riconciliazione tra paesi un tempo nemici, per giungere al cuore del viaggio, a Lalibela con le sue chiese interamente scavate nella roccia, patrimonio dell’umanità. Non sono mancati incontri significativi: da quelli occasionali con la gente a quelli programmati, come la visita all’orfanatrofio gestito dall’associazione Centro aiuti per l’Etiopia, che ci hanno aiutato a capire il vissuto quotidiano.

Questo viaggio ha aggiunto un ulteriore tassello di conoscenze culturali e religiose e, ci auguriamo, possa aver contribuito a creare ponti di solidarietà, indispensabili per un vero sviluppo di questo paese.

 

Iran – 2015

Iran

Il viaggio in Iran che l’ufficio per la Pastorale del turismo ha proposto dal 27 aprile al 4 maggio e che ha visto una buona partecipazione, è stata occasione per scoprire un paese particolare, spesso agli onori delle cronache non certamente per aspetti positivi, a partire dal 1979 – anno della rivoluzione islamica che aveva scalzato il regno dello Scià – fino ad oggi, per le trattative con gli Stati Uniti in merito al nucleare.

E nell’immaginario collettivo questo resta un paese “a rischio”, tanto che un po’ tutti ci siamo sentiti dare dei temerari, o forse anche più, quando comunicavamo l’intenzione di partecipare al viaggio, o ancor più chi aveva avuto l’idea di inserirlo della programmazione annuale.

L’Iran di oggi è l’erede di una lunga storia e di una altrettanto profonda esperienza di civiltà, che dai millenni prima di Cristo è giunta a noi. Personaggi mitici, studiati sui libri di scuola, sono come usciti dall’ombra per diventare tasselli di un cammino: Ciro, Dario, Serse, Cosroe …

Le testimonianze archeologiche sono spettacolari, Persepoli prima di tutto, come sono incantevoli per la bellezza e l’armonia dei colori le moschee costruite a Isfahan, Shiraz, Qom.

Ma un viaggio non è soltanto ammirare monumenti o testimonianze archeologiche e artistiche, pur in sommo grado, ma è cercare di decifrare la vita, le caratteristiche di un popolo.

E questo non è stato facile.

Sappiamo che la stragrande maggioranza della popolazione è sciita che, nel variegato panorama del mondo islamico risulta essere minoranza. Ritengono di essere i seguaci di Alì, il discepolo del profeta, perseguitato, a cui è stata inizialmente sottratta la possibilità di succedergli nella guida dei fedeli, se non dopo altri due che prima di lui avevano assunto il ruolo, nella fase della prima espansione islamica, al di là dei territori arabi. E la gente dell’Iran araba non è, per di più ne contesta gli usi, le tradizioni.

Da qui alcune chiavi di interpretazione di questo popolo: un senso di inferiorità nei confronti degli altri fedeli dell’Islam che si tramuta in rivalsa: la rivoluzione di Komeini del 1979 è stata proprio questo: far sentire il peso degli sciiti nel mondo islamico, ancor prima che come contrapposizione politica verso l’occidente e in particolare verso gli Stati Uniti che ha avuto negli ostaggi dell’ambasciata di Teheran il punto più alto.

Ma non solo: in Iran le donne, anche turiste, devono portare il capo coperto, mentre tutti possono entrare nelle moschee senza togliere le scarpe, moschee che sono per lo più deserte, se non quelle di alcuni centri religiosi importanti come Qom. E allora la domanda: chi sono e dove sono i fedeli sciiti?

L’impressione – mi auguro sia solo tale – è che la vita sia altra: abbiamo incontrato persone sorridenti, gioviali, ragazzi chiassosi che chiedevano una fotografia con noi, da pubblicare su Facebook: questo non è l’Islam che la Tv ci presenta, non quello dell’Isis, ma nemmeno quello arabo. Le generazioni iraniane passate avevano respirato, con lo Scià, l’aria dell’occidente, con i pregi e i difetti; l’hanno rifiutata, cavalcando l’ideale rivoluzionario, ma forse, in fondo al cuore, l’hanno anche trasmessa ai giovani. Contraddizioni di oggi, comuni a tutti i popoli, anche occidentali.

Per tutti questi motivi il viaggio in Iran merita davvero, perché arricchisce una riflessione ad ampio respiro e ci induce a ripensare allo stile e ai contenuti della nostra fede cristiana; le guide che accompagnano i viaggi in Medio Oriente di solito – ed è capitato anche questa volta – partono dall’affermazione che tutte le religioni sono uguali: convinti del contrario ma altrettanto convinti che la libertà religiosa deve essere garantita a tutti, ringraziamo il Signore “di averci creati e fatti cristiani” e di offrirci l’opportunità di viaggiare per scoprire, anche in mondi e popoli lontani la “Bellezza che salverà il mondo”.