La famiglia contadina nel pensiero di don Mazzolari

La riflessione di Bruno Bignami su "Oikonomia", rivista di etica e scienze sociali della Facoltà di Scienze Sociali (FASS) della Pontificia Università S. Tommaso di Roma

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Proponiamo la riflessione su “La famiglia contadina nel pensiero di don Mazzolari” di Bruno Bignami, sacerdote cremonese direttore dell’Ufficio nazionale della Cei per i Problemi sociali e il lavoro, pubblicata da “Oikonomia”, rivista di etica e scienze sociali della Facoltà di Scienze Sociali (FASS) della Pontificia Università S. Tommaso di Roma.

Don Primo Mazzolari «contadino»
La provenienza di Mazzolari dal mondo contadino cremonese ne ha segnato il corso biografico. Egli non solo non ha mai nascosto né rinnegato le sue origini, ma le ha vissute come punto forza del suo ministero e del suo impegno civile. Troppo spesso si rischia di associare la riflessione sociale del parroco di Bozzolo alle trasformazioni industriali in cui si è inserita la Rerum novarum di Leone XIII.

Ciò è vero solo in parte. Mazzolari rimane profondamente legato alla sua terra e al mondo agricolo. Le indicazioni di carattere sociale risentono di questo suo humus culturale ed ecclesiale di provenienza. La «Bassa mantovana» è il territorio in cui svolge il suo ministero (Cicognara e Bozzolo), in mezzo a una società prevalentemente contadina.

La storia di Mazzolari è talmente intrisa di profumi e di sensazioni rurali e non manca di ricordare nei suoi scritti momenti di vita contadina. L’opuscolo Cara terra, scritto nel 1946, ne riporta alcuni. Ammette con sincerità parlando alla gente dei campi:

«Se mi guardate in faccia, mi riconoscete subito per uno dei vostri; se mi stringete la mano, non v’ingannate; se mi siedo al vostro focolare, non sono a prestito; se cammino per i campi, capite che ho l’odore della terra come voi, lo stesso occhio che accarezza un prato, un campo di grano, un filare, e fissa scorato un cielo che piove senza tregua o incendia le campagne, implacabile».

La denominazione di origine controllata contadina serve a don Primo per dire la propria provenienza ma rappresenta anche la lettera di presentazione per ottenere ascolto presso un popolo che sa pesare a distanza la credibilità di un uomo. Figurarsi se si tratta di un prete. Quel mondo gli appartiene e lo sente nel sangue, tanto da riportare alcuni ricordi d’infanzia: la sera al fienile dove la famiglia si trovava al tepore degli animali, la casa aperta agli ospiti di passaggio che amavano conversare («una volta ne ho contati quindici» – confessa) o che avevano bisogno di dormire in un luogo riparato, la generosità del padre che non diceva di no a nessuno e l’accoglienza della madre che aveva sempre una fetta di polenta per tutti, la visita con la zia alla stalla per vedere i vitellini appena nati, quando si rinnovava il prodigio della vita…

Con ogni probabilità, Mazzolari è «contadino nell’animo». I tempi dell’attesa dalla semina al raccolto gli hanno insegnato la pazienza dell’animo umano davanti al mistero di Dio. La vita è sotto il segno della Provvidenza e anche il ministero pastorale impara dai ritmi delle stagioni. C’è il tempo della semina e quello del raccolto, il tempo dell’incertezza e il tempo della benedizione, c’è il tempo dell’intervento attivo col lavoro e quello dell’attesa fiduciosa perché le mani di Dio siano larghe di benedizioni. Dice in un’omelia per la giornata del Ringraziamento (11 novembre 1956):

«La terra non l’abbiamo fatta noi, la terra non è feconda per noi, la terra, se mai, ci basterà e ce ne basterà poca per poter consumare un giorno anche l’orgoglio fisico di questa nostra superbia, che non ha nessun fondamento. La terra è di Dio, la fecondità della terra è di Dio, le vostre braccia sono di Dio, la vostra intelligenza è di Dio».

 

2. Un prete vicino ai contadini

Il parroco di Bozzolo conosce dal di dentro la vita del contadino e ne parla con cognizione di causa. Sa bene che vi è interdipendenza tra la terra e il suo lavoratore, tanto da immaginarla con «il cuore gonfio di dolore e di speranza». Per questo la terra è «cara», dato che è fonte di lavoro e l’uomo si accorge di dipendere da essa. Don Primo sa che non è facile coltivare la terra. Tuttavia, essa è generosa. Dà il pane a ogni uomo, «se tutte le mani imparano dal Signore a spezzarlo fraternamente»: ciò significa che l’intenzionalità umana di condividere i doni della terra è capace di far passare l’ago della bilancia dal dolore alla speranza. I frutti della campagna trovano il loro senso più pieno nella volontà umana di parteciparli ai fratelli: nella condivisione si rinnova il miracolo dell’abbondanza di vita per tutti.

Mazzolari non nasconde le insidie e le forme di ingiustizia connesse intorno al lavoro del contadino. Ha ben presente la condizione dei braccianti agricoli e i rischi di sfruttamento legati a una concezione di proprietà esclusivamente padronale. Non è il diritto di proprietà in sé a fare problema, ma «la cupidigia di chi crede di possedere, la quale divora la terra, la famiglia, il mondo». Dopo il celebre viaggio in Sicilia del 1952, Mazzolari critica aspramente il latifondismo meridionale «nelle mani di una nobiltà neghittosa spendereccia e intrigante, la quale ha finito per farsi tollerare dai preti e dai poveri e tutelare dalla mafia». Nel suo breve tour sull’isola si rende conto dell’intelligenza e delle capacità lavorative dei contadini siciliani, ma lamenta la mancanza di un quadro istituzionale in grado di tutelarli. Non mancano le braccia, ma è assente la politica. «La terra siciliana è uno scrigno senza chiave»: non si può aspettare che ci pensi il governo o la regione. Solo spaccando la cassaforte è possibile far trovare il pane sulla tavola di tutti i siciliani.

Le forme di prevaricazione danno adito a fughe dal mondo agricolo verso la città: «triste quel giorno in cui il giovane contadino, abbandonata la zolla, gittata la vanga, impomatata la chioma, s’avvia alla città in cerca di una falsa e incerta fortuna». Don Primo segnala il pericolo di cambiar mestiere, legato all’ingiustizia ma anche al tipo di lavoro che descrive i contadini come sporchi e soggetti alle intemperie delle stagioni, per cui «oggi semini e poi non piove o piove troppo o fa troppo sole… e il raccolto se ne va». La vita del contadino è dura, eppure la sconfitta più grave è quella che porta a disamorarsi della campagna, la «cara terra». L’amore per i campi si intreccia con la fatica quotidiana. Non esiste altro modo di procurarsi il pane, perché non si può raccogliere senza seminare né mangiare senza lavorare. La tentazione di Gesù di trasformare le pietre in pane è una semplificazione della vita: anche il contadino può cadere nell’illusione di pensare che si possa mietere senza fatica. Egli coltiva con le mani e con il cuore, usa il piccone e la zappa, manovra con la mazza e con l’erpice: sotto questo lavoro gravoso la terra diventa la fonte del pane. Degno di elogio è il contadino che coltiva la terra senza mai arrendersi. Anzi, più essa è avara e più egli vi s’innamora. Se accetta la fatica, però, è solo nella prospettiva della speranza, tanto che il pane frutto del sudore e dell’impegno è ancor più saporito: «sa di amore che ogni giorno si offre, e che ogni giorno si ravviva di fede e di speranza».

3. Un cristianesimo «contadino»

C’è una sapienza che proviene dall’ascolto della terra e dei suoi ritmi, dalle creature che Dio ha fatto. C’è un’armonia e un equilibrio che la vita dei campi insegna, sapendo tenere insieme prudenza e coraggio. Mazzolari è convinto che non ci sia «lembo di terra che il contadino non accarezzi col suo occhio affettuoso e intelligente». Si imparano i tempi giusti, quello dell’aratura e della semina, quello della sarchiatura e del raccolto e ci si mette in ascolto della terra che ha sete o è sazia, è stanca o è pronta all’attività umana. Nel lavoro in campagna il Signore si accontenta che lo si senta presente come Provvidenza. C’è bisogno di riconoscerlo nel sole, nella rugiada, nell’acqua, nella neve, nel vento. Il susseguirsi delle stagioni è garanzia di fecondità. Il «dominio» della natura da parte dell’uomo è un’arte che egli esercita e acquisisce grazie all’ascolto delle forze in gioco. Il dramma umano è però che non ha ancora imparato ad apprendere l’arte di trattare i suoi simili come fratelli. Proprio intorno alla terra si gioca la contrapposizione tra ricchi e poveri. Molti intendono mettere le mani sui poderi o perché hanno le possibilità economiche di appropriarsene o perché li lavorano. In realtà «la terra non è di nessuno, né dei ricchi né dei poveri»: lo dimostra ad esempio l’alluvione del Po (1951). Il fiume si è preso tutto senza chiedere il permesso, dimostrando a tutti che l’egoismo è negativo, indipendentemente da dove arrivi. La campagna insegna la logica elementare che «l’uomo non ha niente di suo se non lo spartisce». La fraternità diventa l’unica scuola di vita che consente di aver accesso ai doni della creazione.
Don Mazzolari rappresenta un maestro di spiritualità anche nel suo modo di guardare la terra. Scrivendo del prete lo descrive così: «Il contadino quando semina ha negli occhi il fulgore del giugno e va verso quello, mentre la nebbia ottobrina gli vela lo sguardo»15. La vita pastorale deve avere l’orizzonte non del presente ma della volontà di Dio che incontra l’uomo quando e come vuole, con i suoi tempi e la sua modalità. Uno sguardo contemplativo, da credente, gli ha permesso di lasciarsi convertire dai tempi e dalle logiche della natura. La campagna «parla» ai contadini, ma per il parroco di Bozzolo, attraverso la terra è Dio che rivolge un messaggio all’uomo. La voce di Dio nella creazione chiede un ascolto obbediente. Senza questa fiducia l’uomo rischia di pensarsi dominatore incontrastato, come despota, che non sa recepire i limiti presenti nella creazione. Si scopre arrogante.

La storia si ripete, nel tempo dei cambiamenti climatici e di una comunità cristiana intenta a recepire gli insegnamenti di Laudato si’. C’è molto da seminare e altrettanto da raccogliere. La saggezza cristiana del mondo contadino suggerisce uno stile di vita sobrio e umile. Certo, il mondo contadino conosciuto da Mazzolari non esiste più. Oggi l’agricoltura è tecnologica, si serve del trattore, di macchine ad alta specializzazione. Rimane però un insegnamento. C’è sempre il pericolo che la terra si allontani da chi se ne può prendere cura con saggezza. Con la conseguenza dell’inquinamento e del degrado. C’è anche il rischio che l’ingiustizia finisca per prevalere. Terra e contadino possono finire calpestati. C’è già qualcosa dell’ecologia integrale di papa Francesco in questo sguardo etico che don Primo ha trasmesso… Come ignorarne la profonda spiritualità?

fonte: www.oikonomia.it

 

TeleRadio Cremona Cittanova
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