07 – La casa dello Sposo
Vivere oggi la nostra cattedrale

 

 

Come un prefazio

Se fosse un vero libro, avrebbe una prefazione. Se fosse una semplice lettera, un indirizzo e un saluto. Ma è un messaggio da annunciare, un dono da spartire, e perciò bisognerebbe suonare la tromba, o meglio le campane. Perché tutti lo sappiano, e gioiscano. Perché vengano alla festa, di tutto il popolo, e di Dio.

Il cuore della liturgia cristiana, nella santa Eucaristia, si apre sempre con il prefazio, che decanta i perché di un così potente e misterioso grazie. è veramente cosa buona e giusta… stupirsi ancora per la bellezza della cattedrale di Cremona, che dal 1107 raduna i credenti e accoglie i pellegrini intorno ai segni della presenza del Signore, che convoca, che parla, che nutre, che guida, che salva.

I secoli hanno segnato, cambiato, arricchito e aggiornato il tempio maggiore della città e diocesi, perché fosse sempre puntuale nel far vivere agli uomini l’oggi della grazia. La nostra cattedrale è stata ed è romana e romanica, medievale, rinascimentale e barocca. La Riforma Gregoriana ne è la matrice fondamentale, e il vescovo Sicardo ha riccamente documentato l’antico fiorire di simboli spirituali. Il Concilio di Trento e il grande san Carlo ne hanno deciso l’attuale struttura, in funzione della vita liturgica e della coscienza di Chiesa di quel tempo. Rendiamo grazie a tanto coraggio, che all’epoca sarà pur sembrato improvvido. E prendiamoci ora la nostra parte di responsabilità, alla luce del Concilio Vaticano II, che si apriva proprio 60 anni fa e che, per la sapienza pastorale di due grandi lombardi, come san Giovanni XXIII e san Paolo VI, ha orientato la Chiesa a un buon rapporto con il mondo moderno, sulla soglia del nuovo millennio. Chiamando anche noi ad annunciare, celebrare e testimoniare la fede cristiana, nella contemporaneità.

Adeguamento liturgico del presbiterio della cattedrale: questo era il compito non più rinviabile. Per dare maggiore attuazione alla riforma liturgica del Vaticano II, guidati dalle norme pubblicate dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 1996, dopo aver valutato insieme le soluzioni provvisorie adottate dai miei Predecessori e le lunghe sperimentazioni, raccolti i pareri degli organismi diocesani, con il Consiglio della cattedrale abbiamo aderito al bando nazionale della CEI e costituito una Commissione[1] incaricata di esaminare le 62 proposte pervenute, tra le quali si è giunti – sempre in dialogo attento con la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Mantova – alla scelta del progetto ora attuato.

Personalmente, non avrei mai pensato di cimentarmi con una sfida del genere. Da quando sono stato ordinato in questa nostra cattedrale, stupore e timore mi accompagnano sempre, ogni volta in cui vi entro e prendo parte a una celebrazione. La stima per i vari collaboratori diocesani, il costante confronto con loro e con tanti altri, mi hanno incoraggiato a osare. Scrupolosamente rispettosi dell’impegnativo contesto strutturale e artistico della cattedrale, abbiamo rinunciato a soluzioni più ardite per quanto significative, per favorire il dialogo tra l’eredità ricevuta e il nostro apporto di oggi. Abbiamo sostanzialmente mantenuto la consueta collocazione dei principali poli celebrativi (altare, ambone, cattedra), anche perché i vincoli architettonici impediscono grosse alternative, tenendo conto degli spazi necessari per la funzionalità liturgica, che resta sempre l’obiettivo primario da perseguire.

D’altronde, anche la nostra generazione ha il dovere di vivere appieno la sua cattedrale, esprimendo in tale ricco palinsesto la propria sensibilità e il meglio dell’arte contemporanea: per questo ringrazio tantissimo il gruppo dei progettisti[2] coordinato dall’arch. Massimiliano Valdinoci e impreziosito dall’intervento creativo del maestro Gianmaria Potenza. Un grazie speciale a tutti loro e a quanti, a vario titolo, hanno portato in diocesi il peso di questo percorso. Che ci permette oggi di dirci convinti e contenti delle scelte compiute.

Con questa lettera pastorale il Vescovo non intende spiegare ciò che si è fatto, quanto dar voce alla gioia della Chiesa, la sposa del Signore, che ha il privilegio di abitare la casa dello Sposo per stare con Lui e ricevere i suoi doni vivificanti. Canterò gli sguardi e i pensieri che si accendono in me da questo luogo ricchissimo e affascinante, plasmato nel tempo dai diversi modi di celebrare, per offrire anche ai miei fratelli e sorelle un sentiero da continuare a esplorare personalmente, con cuore aperto, senza pregiudizi o nostalgie.

Per questo, qui finisce il prefazio e inizia il canto, che immagino come le litanie processionali di un popolo in cammino, che sale al monte di Dio. Perché questo noi siamo davvero, specie in questo tempo, e in questo tempio. Attualizzando le parole del Salmo 122:

Quale gioia quando mi dissero:
“Andremo alla casa del Signore!”.
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!
È là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge d’Israele,
per lodare il nome del Signore.

 

Come un canto

 

  1. Mistero nuziale

Chiedo scusa
se ne parlo io che sposato non sono,
ma posso farlo perché porto un anello
dato dalla Chiesa, dato da Dio.
Sulla scia di un evento d’amore
che ha il Verbo, Gesù, per protagonista,
e l’umanità intera come incredula consorte.
“Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello!”[3].
Invitati e sposi a un tempo!
La vita cristiana come un fatto nuziale,
perché davvero “non è bene che l’uomo sia solo”[4].
È il mistero grande di cui scriveva Paolo[5]
per mettere in divina luce ogni coppia e famiglia.
È il frutto maturo della Pasqua di Gesù,
che tutti sono invitati a gustare, nella comunione[6].
L’evento della salvezza, infatti,
si è consumato come passione d’amore, morte e risurrezione
di Colui che ha dato la vita per noi,
come lo sposo per la sposa,
il capo per il suo stesso corpo.
Così nasce la Chiesa, il mattino di Pasqua,
redenta dal sangue prezioso di Cristo, agnello senza macchia[7].
Così essa cresce nel tempo, facendone memoria,
sacramentale, liturgica, eucaristica… e vissuta.
Anche il futuro, la fine, l’eterno
danno speranza per questa promessa:
“Vieni, ti mostrerò la sposa dell’Agnello”[8].
Nel tempo dell’attesa, la liturgia, umilmente,
ci introduce, per la via della fede,
in questa esperienza del Cristo risorto e vivo.
Lo Spirito conduce la Chiesa, specie ogni domenica.
E lo Sposo l’aspetta.
Vestiti di bianco e oro: i colori della festa,
delle nozze, della gloria.
Ora risplendono al centro della cattedrale,
ben visibili e inconfondibili,
coronati dalle pagine della storia sacra e dai volti dei santi:
altare, ambone, cattedra,
dove le nozze si rinnovano,
a ogni Sì di Dio e degli uomini.

 

  1. Casa di Dio

C’è una casa che chiamiamo chiesa,
perché in essa la Chiesa si raduna, e si rigenera.
Nacque nelle case l’esperienza cristiana: domus ecclesiae,
novità di relazioni fraterne, credenti,
da coltivare anche nel più grande duomo.
Che storia, quella della dimora di Dio con gli uomini[9]!
Dal primo “Dove sei?” di Dio all’uomo,
cerchiamo casa,
un po’ per paura, un po’ per amore.
Dal cielo alla terra, dal giardino al deserto,
dalla tenda al tempio, persino sulle acque,
e sul santo monte…
finalmente nel cuore dell’uomo, nella carne di Gesù.
Lì si compie davvero il progetto dell’alleanza.
Tempio profanato, distrutto e ricostruito, ucciso e risuscitato,
in tre giorni[10].
Perché si dia uno spazio liberato dalla morte,
dilatato dalla risurrezione,
che ci spalanca la casa del Padre[11].
Casa di preghiera, ricolma della gloria del Signore,
perché i suoi figli la intuiscano, con stupore e nella lode.
Dove diventare noi stessi tempio di Dio[12],
dimora di Cristo,
che ci fa crescere in speranzosa libertà[13].
L’edificio spirituale, fatto di pietre vive,
ben attaccate all’unica Pietra angolare[14],
è lo scopo e il senso delle chiese di pietra,
di cui hanno bisogno gli uomini, e non Dio.
Come luogo e come simbolo.
Che nei fatti e negli stili faciliti l’accoglienza,
l’incontro, la preghiera, la celebrazione della vita,
appunto… in Cristo e nella Chiesa.
Specie in questo tempo, di eclissi della fede,
c’è da aprire ogni chiesa all’ospitalità:
“essere ospitati da Dio e ospitarlo,
ospitare i fratelli ed esserne ospitati,
ospitare il mondo che ci ospita!”[15].
Dando corpo all’agape che Dio è,
ieri oggi e sempre, per ogni uomo.

 

  1. Croce di croci

Ce ne sono tante di croci in cattedrale.
Si entra in essa, senza saperlo,
attraversando l’affresco del Pordenone,
che in uscita impegna tutti a una scelta di campo,
e a generosa sequela.
Si guarda avanti, e Gesù, nudo e inerme sulla croce,
dall’altare dello Zaist[16], tiene il centro della scena
e chiama alla fede, e suscita amore.
Per chi cerca l’amato del suo cuore[17],
il Crocifisso del Bertesi[18] si offre, in disparte,
alla muta adorazione.
C’è però una croce più vasta, che tutti ci accoglie,
che tutti formiamo
nella pianta stessa della nostra chiesa madre,
greca o latina, ma col capo chino per il dolore[19],
di cui fa memoria e di cui si fa grembo.
Il popolo che affolla navate, transetti, presbiterio,
dà carne alle membra di una Chiesa viva,
in cui ciascuno porta il proprio dono[20],
la sua croce, persino il peccato.
E tutto la chiesa incastona, come piccola gemma,
nella medesima vicenda di salvezza,
narrata con maestria nelle forme e nei colori.
I Padri insegnano che la Chiesa nasce
dal costato di Cristo dormiente sulla croce,
come Dio trasse Eva da quello del primo Adamo.
E Gesù, l’Uomo nuovo, guarda noi sua Chiesa e dice:
“Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne”[21].
Si mostra e ci riconosce. Sempre sulla croce,
luogo cruciale, del vero appuntamento.
Una croce speciale, gloriosa e pasquale,
è tracciata dal bronzo e sul marmo
del nuovo altare[22].
Da guardare e carezzare.
Come il sudario divenuto tovaglia per la mensa.
Come i teli del risorto, così deposti,
ad attestare ancora che la tomba è vuota,
che le porte del regno degli inferi sono divelte,
e che la croce è il nuovo albero della vita.

 

  1. Corpo di Lui

Corpo di Cristo: lo sappiamo,
ce lo ripete il sacerdote a ogni comunione.
E il nostro Amen annuisce con facilità,
fin troppa!
Ma è Lui! Proprio Lui. Solo Lui.
L’unico, non uno dei tanti.
Il Figlio unigenito, lo Sposo eterno,
l’unico Redentore dell’uomo, del cosmo e della storia[23].
Nella liturgia cristiana si dà come un unico soggetto[24]:
Cristo e la Chiesa, il capo e il suo corpo.
Corpo reale, mistico, sacramentale, ecclesiale.
Corpo come il mio, fatto per l’incontro.
Quel corpo che Dio ha preparato
perché il Figlio entrasse nel mondo, da uomo[25],
libero di obbedire fino alla morte, e alla morte di croce[26].
Quel corpo, e quel sangue, che nel pane e nel vino
ci fanno diventare Lui[27],
prima tutti insieme, come Chiesa sposa,
poi ciascuno, in essa, come anima dal respiro ecclesiale.
A volte oso dirlo a qualche persona dal cuore puro,
specie se provata dal dolore di un grande distacco:
nella comunione al corpo di Cristo
si fa unità profonda e totale con tutti,
magari proprio con chi non c’è più,
e che prima toccavi e baciavi.
Tanto ti manca…
ora ti nutre insieme a Gesù!
E il sigillo sponsale dell’Amato di Dio
riscatta ogni schiavo, e riapre alla vita.
Maria, che quel corpo ha sentito crescerle dentro,
e che ha saputo perdere per ritrovare,
è Colei che meglio conosce il potere di questa mensa[28].
Lei ci accompagna al Figlio,
Lei ci sposa a Lui.
Lei è la nostra cattedrale, ovunque:
spazio e tempo per l’incontro, il banchetto, l’unione.

 

  1. Centro del cosmo

Le norme parlano chiaro:
in ogni chiesa dovrebbe esserci un solo altare,
centro visibile al quale la comunità si rivolge[29].
Diverse le tradizioni del passato,
chiara l’esigenza cui rispondere[30].
Oggi l’altare si vede, attrae,
si offre, tutto, rivestito di semplice bellezza,
proprio come il Signore.
A Dio solo è dedicato, di Lui ci parla.
È saldo, nobile, indiscusso
erede di forme antiche
e sobrio testimone del futuro della fede.
Ci aiuta a vivere la santa liturgia per ciò che è:
fonte e culmine della vita della Chiesa[31].
È mensa e ara, dove la cena ripresenta il sacrificio,
riconciliando anime e passioni dei credenti
nell’unica obbedienza che ci salva.
Ogni benedizione da lì promana (su di noi)
e da lì si eleva (verso Dio),
in Colui che prima della creazione del mondo[32]
ci ha pensato commensali dell’eterno Padre,
facendoci posto gratis in casa sua.
Offrendoci un vero pasto, in cui tutto il creato
assolve finalmente la sua più alta funzione:
manifestare l’amore di Dio[33].
Verso l’altare tutto converge nello spazio sacro
e nei gesti dell’assemblea radunata per il culto,
generato dalla Risurrezione[34].
È traguardo e sorgente[35],
ove sostare, attorno a cui danzare,
tanta è la gioia feconda che ne sgorga,
per la sposa abbracciata dal suo Sposo.
“E danzando canteranno:
sono in te tutte le mie sorgenti”[36].
Il re David cantava e danzava, con tutte le forze,
davanti all’arca del Signore[37].
E noi?
La compostezza non impedisca l’esultanza!
L’abitudine non prevalga sulla commozione,
quando bacio l’altare, a nome della sposa.
E da lì guardo l’assemblea,
che lo Sposo mi affida come suo amico e servo.

 

  1. Mensa del convito

Salgo quell’altare,
portando con me nomi e volti di una grande famiglia
perché la nutra, non di me certamente[38], ma di Lui.
È davvero la mensa del Signore[39],
dove si mangia la carne e si beve il sangue
del Figlio dell’uomo, che si offre sulla croce.
Segno di Cristo, vero pane di vita eterna[40].
Mensa, infatti, unta del Crisma,
come i battezzati, come i ministri.
Mensa di figli, con briciole preziose
anche per i cagnolini,
come una madre straniera insegna persino al Maestro[41].
Mensa dei poveri,
che sant’Omobono ci affida ancora,
nel solco della sua concretissima santità.
Mensa della festa,
che solleva dagli affanni
anche il figlio che torna disperato,
e infonde rinnovato vigore al suo cammino[42].
Mensa che anticipa quella senza fine,
in cui Lui stesso ci servirà[43].
Mensa sempre aperta,
anche a chi arriva per storie e vie diverse,
e solo in parte condivide il senso che vi accade.
Mensa e non spettacolo,
azione di un popolo,
che abbatte le distanze con i gesti della carità
più che con gli espedienti della tecnologia.
La nostra cattedrale è troppo bella per tenerla nascosta,
ma solo la liturgia da noi vissuta in verità
può farne motivo di attrazione
per i cercatori di Dio.
Che sull’altare del cuore,
misteriosamente uniti a Cristo,
non sanno ancora quanto vivono di Lui.

 

  1. Parola vivente

Una duplice mensa
è imbandita dal Signore: Parola e Pane.
Altare e ambone, perciò,
gareggiano nello stimarsi a vicenda,
perché il Verbo si faccia carne, ancora, sempre.
Se la fede nasce dall’ascolto[44],
la Parola diventa Sacramento e vita
in un percorso sempre da rifare[45].
Per essere suoi discepoli[46],
prima e al di là di tutto.
La bellezza del libro, specie dei Vangeli,
gli onori tributati con l’incenso, il bacio, il canto,
la presenza evocante del candelabro
per il cero pasquale, segno del Risorto…
tutto vuole esaltare il dono della Parola.
Perché qui quella Parola non resta solo scritta,
ma diventa voce del Vivente, Presente che ci chiama.
Un dubbio deve pungerci sul vivo:
desideriamo davvero ascoltare il Signore,
e far sì che i suoi pensieri giudichino i nostri,
e le sue vie diventino le nostre vie[47]?
Ascolta, Israele![48]
E tu Chiesa, fatti umile discepola del Vangelo[49],
imparando da Maria
a fare ogni giorno quello che Lui ci dirà[50].
La maestria di artisti e artigiani
ha tracciato sull’ambone come un rotolo della Torah,
una pergamena che si distende e viene incontro,
come un Exsultet miniato che annuncia la Pasqua.
Perché l’ascolto converta gli uomini
e il mondo si trasfiguri.
Così la scena di Nazareth si rinnova[51]
e lo Spirito permetterà di dire ancora:
“Oggi si è compiuta questa Scrittura
che voi avete ascoltato”.

 

  1. Trono dell’Agnello

Si chiama cattedrale
la chiesa madre della diocesi,
perché vi si trova la cattedra del vescovo.
Cattedra e non trono[52]!
Abbiamo osato
un capolavoro d’arte contemporanea[53],
ispirato nella forma e nella misura
alle cattedre di epoca romanica,
quella in cui nasce la nostra cattedrale.
Abbiamo osato
porre un segno forte
della signoria di Cristo,
Pastore fatto Agnello, immolato e vittorioso.
In coerenza con il linguaggio artistico e spirituale
ereditato dai nostri padri.
Il grande affresco del Boccaccino[54], infatti,
esalta il Redentore tra i santi patroni
e tra i viventi dall’aspetto di leone e di vitello,
di uomo e di aquila,
come nella visione dell’Apocalisse:
“Vidi, in mezzo al trono, circondato dai quattro esseri viventi
e dagli anziani,
un Agnello, in piedi, come immolato…”[55];
“l’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il loro pastore
e li guiderà alle fonti delle acque della vita”[56].
Quell’agnello è lo Sposo della Chiesa e dell’umanità.
Commoventi pagine bibliche lo confermano:
litostroto – lo sappiamo – è il pavimento di pietra
ove i soldati giocano e Pilato giudica Gesù[57];
ma è anche il pavimento del tempio
su cui Salomone e i sacerdoti pregano e offrono sacrifici
nel giorno della sua solenne dedicazione[58];
ed è addirittura il trono nuziale, il seggio di porpora,
il cui interno è un ricamo d’amore,
che Salomone ha fatto ed esalta nel Cantico dei cantici[59].
Non può essere dunque una sede facile,
quella dei successori degli apostoli,
perché davvero l’amore è forte come la morte[60],
di Chi è venuto per servire
e dare la sua vita[61], per la vita del mondo.
Perciò il vescovo
salirà sempre la cattedra con timore e tremore[62],
facendo rinnovata memoria della sua responsabilità:
permettere a tutti di “accostarsi con piena fiducia
al trono della grazia, per ricevere misericordia”[63].
Da Lui, per se stesso e per tutti noi.

 

  1. Assemblea santa

Convocati alla vita e alla fede,
formiamo – agli occhi di Dio – un solo popolo[64],
tentato dall’illusione di Babele[65],
erede dell’epopea del piccolo Israele,
rinato a Pentecoste nella varietà delle lingue[66].
Popolo tutto sacerdotale[67], per la grazia del battesimo.
Raccolto nelle navate della medesima barca ecclesiale,
per attraversare i tempi e le burrasche,
forte solo della fedeltà del suo Signore.
Ogni cattedrale rispecchia così[68]
cammino e vita dei cristiani, nei secoli.
È casa e icona della Chiesa locale.
Non più recinti esclusivi per i ministri,
né confusione di ruoli e vocazioni,
ma armonia e apertura
al “noi” dell’assemblea in preghiera[69],
che si esprime nell’unità cordiale e visibile
dei gesti, delle voci, delle posture[70],
degli animi,
tutti in dialogo con lo stesso Dio,
che fa di noi il corpo di suo Figlio.
Il Papa ce lo richiama con vigore,
con la bella lettera che qui ho molto citato.
Il vescovo per primo
anima e serve, con trepidazione e gioia,
questo mistero di unità.
Si scongiura così, passo dopo passo,
la moda del fai-da-te anche nella fede,
e ci si edifica nell’amore paziente,
di cui siamo, proprio qui, alla fonte più sicura.
Un gesto lo dice con semplicità:
quando si incensano altare e offerte,
pastore e popolo[71],
a fondere tutto in unico atto
di riconsegna a Dio
di quanto Egli stesso ci ha dato[72].
Solenni eventi di grazia lo manifestano al massimo:
la messa crismale, le sante ordinazioni,
che ci fanno sentire tutti generati
proprio nella nostra cattedrale.

 

  1. Fiume di luce

Riverberi dorati e luminosi
occhieggiano da tempo
da capitelli, colonne e fregi,
a squarciare il buio di un’aula
fatta per intercettare i raggi
del Sole che non conosce tramonto.
Lui, lumen gentium[73],
grazie al quale la Chiesa, come la luna,
può solo vivere di luce riflessa.
Ma fino a ieri,
era come se brillasse la cornice
e restasse in ombra il soggetto, il centro della scena.
Altare, cattedra e ambone,
aspettavano come di risorgere
per occupare fieramente il proprio posto,
dopo averci imposto la fatica di cercarli,
nell’impasto di forme e colori che li imprigionava.
è sgorgato come un torrente di luce,
grazie ai bagliori del bronzo sulla candida pietra.
Dai raggi del Redentore e dai riflessi dorati del suo manto,
giù, attraverso il trono dell’Agnello,
i teli cruciformi che fasciano l’altare,
lo srotolarsi della Parola che illumina la strada,
un solo fiume di benevolenza divina si offre a noi.
Non cercate un disegno che si spieghi,
ma lasciate che la realtà si impregni di luce[74],
come sul Tabor,
perché dove arriva la grazia tutto si trasforma.
Si fermi la ragione, prevalga la meraviglia,
e nulla trattenga l’eccesso dell’amore[75],
che l’Artefice di tutto
suggerisce agli artisti del creato.
È la luce della Pasqua,
che il mondo attende con impazienza[76]
per continuare a sperare nella vita.

 

  1. Nuova Gerusalemme

Sembra scesa dal cielo,
anche la nostra cattedrale,
tanto è bella, dentro e fuori.
Ci aiuta a credere la profezia dell’Apocalisse:
“Vidi la città santa, la Gerusalemme nuova,
scendere dal cielo, da Dio,
pronta come una sposa adorna per il suo sposo”[77].
Dunque, la casa dello Sposo è la sposa stessa,
per un mistero di comunione
non commisurato a noi, ma alla Santa Trinità!
La cattedrale, scrigno di un composito passato,
ci apre così al compimento ultimo
di ogni passo che già muoviamo nel presente.
Lo attestano quegli infiniti corpi e volti
che la affollano, anche quando noi non ci siamo.
Dagli affreschi e dai monumenti,
in ogni angolo di questa casa universale,
si leva come un coro, che ripete:
“Vieni, Signore Gesù”[78].
Lo ripetono i nostri santi:
Omobono, padre dei poveri,
cui abbiamo voluto dare nuovo onore,
per non passare in fretta davanti a Lui
e imparare le vie della perfetta carità.
Facio, Imerio e gli altri
che ricordiamo nella cripta.
Ne abbiamo posto reliquie nell’altare[79],
insieme ai santi nostri preti,
le cui figlie ancora onorano la Chiesa.
Mentre le tombe dei vescovi defunti
attendono insieme una preghiera di suffragio
e la resurrezione dei morti.
Come scrive il Papa:
la liturgia ci introduce nella gloria di Dio[80].
Con Maria Assunta che, nella pala d’altare,
ci attrae e porta tutti verso il Figlio.
Nel quadro, gli apostoli mancanti
siamo noi, chiamati a costruire
quaggiù la “città della pace”[81].

 

  1. Capo di tutte le cose

“Benedetto sia Dio…”[82]:
così inizia l’inno della lettera agli Efesini,
che canta il sapiente disegno divino,
concepito prima che tutto esistesse,
intorno al Figlio incarnato
e alla sua Pasqua di riconciliazione,
in vista del Suo ritorno, alla pienezza dei tempi.
Per “ricondurre al Cristo, unico capo,
tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”[83].
Un unico verbo dice tutto: ri-capitolare,
come quando il rotolo della Legge viene riavvolto
intorno al suo capitulum,
come quando tutti si stringono al capo, per non disperdersi.
È l’ultima chiave di lettura che propongo
per l’adeguamento liturgico della nostra cattedrale.
La casa dello Sposo, capo del corpo ecclesiale,
è dove tutto si ricapitola,
nell’ascolto della Parola,
nella celebrazione della Pasqua,
nella comunione del popolo con il suo Pastore,
di cui il vescovo è pallido ma necessario segno.
In un mondo e in un tempo
in cui troppe cose “non hanno né capo né coda”,
la Chiesa si ritrova tutta nel suo Signore,
fedele e misericordioso,
e rinnova ogni giorno
l’esperienza delle nozze,
di cui, misteriosamente, è anche figlia.

 

Come un congedo

Questa litania potrebbe continuare, sia perché la cattedrale contiene tanti altri tesori da scoprire e ascoltare nel loro messaggio, sia perché chiunque vi entri ha cuore e mente per invocare in modi liberi e nuovi il Mistero di Dio che si manifesta ancora.

È tempo, tuttavia, che questo percorso di osservazione e di lode termini, venendo congedati come nella liturgia, per tornare carichi di benedizione e fiducia alle opere e ai giorni che ciascuno ha in sorte. Ci aiuta la collocazione stessa della cattedrale, che si apre sulla piazza, vedendo partire a raggiera le strade che portano in tutte le principali direzioni del territorio, sulla fertile pianura, verso il mondo.

Questo congedo assume quindi una tonalità missionaria, per invitarci a raccontare con la vita, e se necessario con la parola, quanto visto e udito, vissuto e condiviso nella bellissima cattedrale della Chiesa cremonese. Oggi essa non ha accanto altre strutture pastorali, salvo il palazzo del vescovo, offerto in gran parte alla fruizione culturale e sociale della comunità. è chiesa nuda e libera, totalmente aperta sulla realtà di cui è vertice estetico e spirituale. Con i suoi portici esterni e con le sue navate, tutto fatto per accogliere e incontrare. Non per alimentare la nostalgia di un nido, ma per spiccare il volo della vita secondo il Vangelo. Ci aiutano, per questo, alcuni altri richiami particolari.

La cappella del Sacramento e quella della Riconciliazione ampliano gli spazi alle esigenze dell’adorazione e del dialogo spirituale in cui ricevere personalmente la grazia del perdono. La nostra cattedrale, grazie a Dio e al servizio puntuale e saggio dei canonici e di altri presbiteri, è come un santuario, in cui tanti vengono a pregare e a sperimentare la misericordia di Dio. Tanta bellezza circostante non distrae, ma incoraggia e conforta.

Il silenzio fa da principale colonna sonora al dinamismo delle forme, in cui il credente, il pellegrino, e persino il turista, si immergono ogni volta. Dico anche a me stesso la necessità di riscoprire e curare maggiormente il silenzio, cominciando da quello liturgico, in cui la Chiesa sposa offre amorevolmente allo Spirito lo spazio per esprimersi e agire[84].

Se la cattedrale è la chiesa madre della diocesi, rimanda sempre alle parrocchie e dovunque si celebri l’eucaristia domenicale, Pasqua settimanale che plasma cuore e vita di ogni comunità[85], famiglia di famiglie, che così tessono rapporti e assumono responsabilità, in particolare verso i piccoli e i deboli.

Quando termina la celebrazione, il ministro che presiede sale nuovamente l’altare e lo bacia, come ha fatto all’inizio. L’assemblea canta di gioia, ma di lì a poco tutti usciranno. La cattedrale resterà vuota, le luci si spegneranno e tutto sarà consegnato all’attesa, non al nulla. Non è una scatola vuota, ma un simbolo reale che continua ad assolvere la sua funzione: evocare e favorire la comunione con Dio. La chiesa è segno e simbolo delle realtà celesti, “simbolo della casa paterna verso la quale il popolo di Dio è in cammino”[86], ed è bello che lo rammenti a chiunque, di giorno e di notte. A maggior ragione, la nostra cattedrale, monumento popolare, sacro e civile allo stesso tempo, voluta quasi mille anni fa più dal popolo che dal clero, e perciò davvero casa di tutti i figli che Dio ama.

Quando la fretta non mortifica le nostre relazioni, terminata la santa Liturgia, è bello restare sul sagrato, salutarsi, augurarsi ogni bene… è così che scelgo di concludere questa riflessione, dandovi l’appuntamento non solo in cattedrale, nelle più belle celebrazioni dell’anno liturgico, ma anche sulle strade della nostra città e dei diversi paesi. Perché il dialogo fraterno, imparato da piccoli nella casa dello Sposo, continui donando a tutti ragioni di speranza e forza per la vita.

 

Cremona, 6 novembre 2022

Dedicazione dell’altare della cattedrale

+ Antonio, vescovo

 

 

 

[1] La diocesi ringrazia quanti hanno affiancato il Vescovo nella Commissione: don Gianluca Gaiardi, direttore ufficio diocesano beni culturali; don Daniele Piazzi, direttore ufficio liturgico diocesano; mons. Attilio Cibolini, rettore della Cattedrale; don Antonio Bandirali, parroco dell’unità pastorale S. Omobono; don Gianni Cavagnoli, docente di liturgia; madre Isabella Vecchio, nominata dal Consiglio pastorale diocesano; don Valerio Pennasso, direttore ufficio nazionale CEI per i beni culturali ecclesiastici; arch. Giuseppe Giccone, esperto indicato dalla CEI (sostituito poi dall’arch. Andrea Longhi); don Pier Angelo Muroni dell’ufficio liturgico nazionale (sostituito poi da don Mario Castellano, direttore del medesimo ufficio); arch. Alessandro Campera, consulta regionale per i beni culturali ecclesiastici; dott. Gabriele Barucca, Soprintendente MIBAC di Mantova; arch. Laura Balboni, della medesima Soprintendenza.

[2] Il gruppo di progettazione che ha vinto il concorso e ha seguito la realizzazione delle opere è formato da: responsabile arch. Massimiliano Valdinoci; artista Gianmaria Potenza; liturgista fr. Goffredo Boselli, progettisti Maicher Biagini, Annalisa Petrilli, Francesco Zambon e Carla Zito; consulente Francesca Flores D’Arcais.

[3] Ap 19,9.

[4] Gen 2,18.

[5] Ef 5,32.

[6] Cfr. Francesco, lettera apostolica Desiderio desideravi (d’ora in poi cit. DD) 5.

[7] 1Pt 1,19-20.

[8] Ap 21,9.

[9] Ap 21,3.

[10] Gv 2,19-22.

[11] Cfr. Corbon J., Liturgia alla sorgente, Qiqajon, Magnano 2003, 202.

[12] 1Cor 3,16; 16,17; 2Cor 6,16; Ef 2,21.

[13] Eb 3,6.

[14] 1Pt 2,4-9.

[15] Valenziano C., L’anello della sposa, Qiqajon, Magnano 1993, 136.

[16] Giambattista Zaist, cremonese, architetto, pittore e scrittore d’arte, realizzò l’altare settecentesco che, inglobando quello voluto dal vescovo Cesare Speciano nel XVI sec., domina nell’abside della cattedrale.

[17] Ct 3,1-2.

[18] Giacomo Bertesi, scultore in legno (Soresina 1643 – Cremona 1710).

[19] Il riferimento è all’inclinazione delle absidi sulla propria sinistra.

[20] L’immagine è resa ulteriormente dalla “Grande croce”, conservata nel Museo diocesano, dove ben 150 figure di santi concorrono a manifestare l’unità tra croce di Cristo e vita dei credenti.

[21] Gen 2,23, nel contesto di DD 14.

[22] “L’altare della Nuova Alleanza è la croce del Signore dalla quale scaturiscono i sacramenti del Mistero pasquale. Sull’altare, che è il centro della chiesa, viene reso presente il sacrificio della croce sotto i segni sacramentali. Esso è anche la Mensa del Signore, alla quale è invitato il Popolo di Dio. In alcune liturgie orientali, l’altare è anche il simbolo della Tomba (Cristo è veramente morto e veramente risorto)” (Catechismo della Chiesa cattolica 1182).

[23] Ricordiamo la prima enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis (1979), e l’importante dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede (presieduta dall’allora card. Ratzinger), Dominus Iesus, sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, 6.8.2000.

[24] “Senza questa incorporazione non vi è alcuna possibilità di vivere la pienezza del culto a Dio. Infatti, uno solo è l’atto di culto perfetto e gradito al Padre, l’obbedienza del Figlio la cui misura è la sua morte in croce. L’unica possibilità per poter partecipare alla sua offerta è quella di diventare figli nel Figlio. È questo il dono che abbiamo ricevuto. Il soggetto che agisce nella Liturgia è sempre e solo Cristo-Chiesa, il Corpo mistico di Cristo” (DD 15).

[25] Eb 10,5.

[26] Fil 2,8.

[27] “La celebrazione riguarda la realtà del nostro essere docili all’azione dello Spirito che in essa opera, finché non sia formato Cristo in noi (cfr. Gal 4,19). La pienezza della nostra formazione è la conformazione a Cristo. Ripeto: non si tratta di un processo mentale, astratto, ma di diventare Lui. Questo è lo scopo per il quale è stato donato lo Spirito, la cui azione è sempre e solo quella di fare il Corpo di Cristo. È così con il pane eucaristico, è così per ogni battezzato chiamato a diventare sempre più ciò che ha ricevuto in dono nel battesimo, vale a dire l’essere membro del Corpo di Cristo” (DD 41).

[28] Impressionanti queste parole di Germano di Costantinopoli, Contemplazione mistica: “(La Sapienza) ha mescolato il suo vino nella coppa della Tutta Santa Vergine unendo alla nostra carne la sua divinità che è vino puro. Il Salvatore, generato da lei Dio e uomo, ha preparato in lei la sua mensa e dopo ha potuto mandare a invitare tutte le genti ancora inesperte della grazia dello Spirito Santo: Venite mangiate il mio pane, bevete il vino che ho mescolato per voi (Sap 9,2-5)”.

[29] “L’altare nell’assemblea liturgica non è semplicemente un oggetto utile alla celebrazione, ma è il segno della presenza di Cristo, sacerdote e vittima, è la mensa del sacrificio e del convito pasquale che il Padre imbandisce per i figli nella casa comune, sorgente di carità e unità. Per questo è necessario che l’altare sia visibile da tutti, affinché tutti si sentano chiamati a prenderne parte ed è ovviamente necessario che sia unico nella chiesa, per poter essere il centro visibile al quale la comunità riunita si rivolge” (CEI, Commissione episcopale per la liturgia, L’adeguamento liturgico delle chiese, nota pastorale del 31.5.1996, 17).

[30] Il vescovo cremonese Sicardo nel XII sec. dedicò pagine densissime all’altare nel suo Mitrale seu De officiis ecclesiasticis summa, Lib. I cap. III, PL 213, col. 18B-19C, facendo memoria degli altari citati nella Scrittura, lavorando sulla stessa etimologia (alta res, alta ara, area dove ardono i sacrifici), sulla sua forma e consistenza di materia (quadrata, di pietra e d’oro), sul suo significato (segno di Cristo stesso, della croce e dell’agnello il cui corpo lì viene consacrato e offerto). Sono proprio le idee-guida che ritroviamo nell’attuale nuova realizzazione del nostro altare.

[31] Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium 10.

[32] Ef 1,3-6.

[33] “La Liturgia è fatta di cose che sono esattamente l’opposto di astrazioni spirituali: pane, vino, olio, acqua, profumo, fuoco, cenere, pietra, stoffa, colori, corpo, parole, suoni, silenzi, gesti, spazio, movimento, azione, ordine, tempo, luce. Tutta la creazione è manifestazione dell’amore di Dio: da quando lo stesso amore si è manifestato in pienezza nella croce di Gesù tutta la creazione ne è attratta. È tutto il creato che viene assunto per essere messo a servizio dell’incontro con il Verbo incarnato, crocifisso, morto, risorto, asceso al Padre” (DD 42).

[34] “L’altare significa infatti che il corpo di Cristo non è più qui o là come in un luogo mortale, ma che è risorto e che riempie tutto con la sua presenza” (Corbon, cit. 203).

[35] Così preghiamo, infatti, nel Prefazio per la Messa nella dedicazione dell’altare: “Alle sorgenti di Cristo, pietra spirituale, attingiamo il dono del tuo Spirito per essere anche noi altare santo e offerta viva a te gradita”.

[36] Sal 87,7.

[37] 2Sam 6,5.

[38] Il Papa raccomanda che il presbitero presidente nella celebrazione non rubi la centralità all’altare (DD 60).

[39] 1Cor 10,21.

[40] Gv 6,51.

[41] Mt 15,21-28.

[42] Cfr. preghiera di dedicazione dell’altare.

[43] Lc 12,37.

[44] Rom 10,17.

[45] “L’ambone è il luogo proprio dal quale viene proclamata la parola di Dio. La sua forma sia correlata a quella dell’altare, il cui primato deve comunque essere rispettato. L’ambone deve essere una nobile, stabile ed elevata tribuna, non un semplice leggio mobile; accanto a esso è conveniente situare il candelabro per il cero pasquale, che vi rimane durante il tempo liturgico opportuno. L’ambone va collocato in prossimità dell’assemblea, in modo da costituire una sorta di cerniera tra il presbiterio e la navata” (CEI, Commissione episcopale per la liturgia, L’adeguamento liturgico delle chiese, 18).

[46] Gv 15,8.

[47] Is 55,8.

[48] Dt 6,3-4.

[49] “Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunità d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore” (Paolo VI, Evangelii nuntiandi 15).

[50] Gv 2,5. In questa luce, rimarco la scelta pastorale di promuovere in ogni comunità il “giorno dell’ascolto”, dedicando ogni settimana un momento significativo alla lettura fraterna del Vangelo domenicale, anche per esercitare il discernimento spirituale comunitario.

[51] Lc 4,14-21.

[52] “La sede del presidente è unica e non abbia forma di trono” (CEI, Commissione episcopale per la liturgia, L’adeguamento liturgico delle chiese, 19). E papa Francesco ribadisce che il presbitero “non siede su di un trono perché il Signore regna con l’umiltà di chi serve” (DD 60).

[53] I documenti della Chiesa incoraggiano la realizzazione e la collocazione di nuove opere d’arte nelle chiese di cui si provvede l’adeguamento liturgico.

[54] Boccaccio Boccaccino (Ferrara, ante 22 agosto 1466 – Cremona, 1525), pittore i cui capolavori sono proprio nella nostra cattedrale.

[55] Ap 5,6.

[56] Ap 7,17.

[57] Gv 19,13.

[58] 2Cr 7,1-6.

[59] Ct 3,6-11.

[60] Ct 8,6.

[61] Mc 10,45.

[62] “La sproporzione tra l’immensità del dono e la piccolezza di chi lo riceve è infinita e non può non sorprenderci. Ciò nonostante – per misericordia del Signore – il dono viene affidato agli Apostoli perché venga portato a ogni uomo” (DD 3).

[63] Eb 4,16.

[64] Sul tema del popolo di Dio, meditiamo le pagine di Francesco, Evangelii gaudium 110-121, 268-274.

[65] Gen 11,1-9.

[66] At 2,1-13. “È la comunità della Pentecoste che può spezzare il Pane nella certezza che il Signore è vivo, risorto dai morti, presente con la sua parola, con i suoi gesti, con l’offerta del suo Corpo e del suo Sangue. Da quel momento la celebrazione diventa il luogo privilegiato, non l’unico, dell’incontro con Lui. Noi sappiamo che solo grazie a questo incontro l’uomo diventa pienamente uomo. Solo la Chiesa della Pentecoste può concepire l’uomo come persona, aperto a una relazione piena con Dio, con il creato e con i fratelli” (DD 33).

[67] 1Pt 2,9.

[68] “è l’assemblea celebrante che ‘genera’ e ‘plasma’ l’architettura della chiesa. Chi si raduna nella chiesa è la Chiesa – popolo di Dio sacerdotale, regale e profetico – comunità gerarchicamente organizzata che lo Spirito Santo arricchisce di una moltitudine di carismi e ministeri. La Chiesa, in qualche modo, proietta, imprime se stessa nell’edificio di culto e vi ritrova tracce significative della propria fede, della propria identità, della propria storia e anticipazioni del proprio futuro” (CEI, Commissione episcopale per la liturgia, L’adeguamento liturgico delle chiese, 11).

[69] “Se lo gnosticismo ci intossica con il veleno del soggettivismo, la celebrazione liturgica ci libera dalla prigione di una autoreferenzialità nutrita dalla propria ragione o dal proprio sentire: l’azione celebrativa non appartiene al singolo ma a Cristo-Chiesa, alla totalità dei fedeli uniti in Cristo. La Liturgia non dice “io” ma “noi” e ogni limitazione all’ampiezza di questo “noi” è sempre demoniaca. La Liturgia non ci lascia soli nel cercare una individuale presunta conoscenza del mistero di Dio, ma ci prende per mano, insieme, come assemblea, per condurci dentro il mistero che la Parola e i segni sacramentali ci rivelano. E lo fa, coerentemente con l’agire di Dio, seguendo la via dell’incarnazione, attraverso il linguaggio simbolico del corpo che si estende nelle cose, nello spazio e nel tempo” (DD 19).

[70] “Penso a tutti i gesti e le parole che appartengono all’assemblea: il radunarsi, l’incedere in processione, lo stare seduti, in piedi, in ginocchio, il cantare, lo stare in silenzio, l’acclamare, il guardare, l’ascoltare. Sono molti modi con i quali l’assemblea, come un solo uomo (Ne 8,1), partecipa alla celebrazione. Compiere tutti insieme lo stesso gesto, parlare tutti insieme a una sola voce, trasmette ai singoli la forza dell’intera assemblea. È una uniformità che non solo non mortifica ma, al contrario, educa i singoli fedeli a scoprire l’unicità autentica della propria personalità non in atteggiamenti individualistici ma nella consapevolezza di essere un solo corpo” (DD 51).

[71] “Gli antichi Padri della Chiesa, meditando sulla parola di Dio, non esitarono ad affermare che Cristo fu vittima, sacerdote e altare del suo stesso sacrificio” (Pontificale romano, Rito della dedicazione di un altare, Premesse 152).

[72] Una stupenda preghiera sulle offerte recita: “Accogli, o Signore, i nostri doni in questo misterioso incontro tra la nostra povertà e la tua grandezza: noi ti offriamo le cose che ci hai dato, tu donaci in cambio te stesso”.

[73] Significativamente la costituzione del Concilio Vaticano II sulla Chiesa esordisce chiarendo che non la Chiesa, ma Cristo suo Signore è la vera “luce delle genti”.

[74] I riflessi scolpiti nel bronzo esprimono ciò che afferma Gregorio di Nissa, In bapt. Christi, PG 46, 581B, per il quale con la risurrezione “la materia… riceve in sé la forza di Dio”.

[75] “Se venisse a mancare lo stupore per il mistero pasquale che si rende presente nella concretezza dei segni sacramentali, potremmo davvero rischiare di essere impermeabili all’oceano di grazia che inonda ogni celebrazione. Non sono sufficienti i pur lodevoli sforzi a favore di una migliore qualità della celebrazione e nemmeno un richiamo all’interiorità: anche quest’ultima corre il rischio di ridursi a una vuota soggettività se non accoglie la rivelazione del mistero cristiano. L’incontro con Dio non è frutto di una individuale ricerca interiore di Lui, ma è un evento donato: possiamo incontrare Dio per il fatto nuovo dell’incarnazione che nell’ultima Cena arriva fino all’estremo di desiderare di essere mangiato da noi. Come ci può accadere la sventura di sottrarci al fascino della bellezza di questo dono?” (DD 24).

[76] Rom 8,18-25.

[77] Ap 21,2.

[78] Ap 22,20.

[79] Questa l’iscrizione che descrive le reliquie poste nell’altare: “Insieme a Omobono e Antonio Maria che riposano nella cripta, – Imerio, Facio, Paola Elisabetta Cerioli, Arsenio Migliavacca, Francesco Spinelli, Vincenzo Grossi, Enrico Rebuschini – pregate per la Chiesa Cremonese presso il Signore nostro Dio”.

[80] “La liturgia dà gloria a Dio non perché noi possiamo aggiungere qualcosa alla bellezza della luce inaccessibile nella quale Egli abita (cfr. 1Tm 6,16) o alla perfezione del canto angelico che risuona eternamente nelle sedi celesti. La Liturgia dà gloria a Dio perché ci permette, qui, sulla terra, di vedere Dio nella celebrazione dei misteri e, nel vederlo, prendere vita dalla sua Pasqua: noi, che da morti che eravamo per le colpe, per grazia, siamo stati fatti rivivere con Cristo (cfr. Ef 2,5), siamo la gloria di Dio” (DD 43).

[81] è il significato del nome “Gerusalemme”.

[82] Ef 1,3.

[83] Ef 1,10.

[84] “La sposa dello stesso Verbo, la Chiesa, non lascia il silenzio dell’eterna quiete, a esso con amore porge l’orecchio udendo che Dio le dice: Ascolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio (Sal 44,11). Ascolta la fama del tuo sposo poiché profumo olezzante è il suo nome (Ct 1,3), guarda la bellezza del tuo diletto poiché egli è il più bello tra i figli dell’uomo (Sal 44,3)” (Adamo di Perseigne, Ep.29 De silentio, passim). In DD 52 papa Francesco raccomanda i vari momenti di silenzio nella liturgia.

[85] “Penso alla normalità delle nostre assemblee che si radunano per celebrare l’Eucaristia nel giorno del Signore, domenica dopo domenica, Pasqua dopo Pasqua, in momenti particolari della vita dei singoli e delle comunità, nelle diverse età della vita: i ministri ordinati svolgono un’azione pastorale di primaria importanza quando prendono per mano i fedeli battezzati per condurli dentro la ripetuta esperienza della Pasqua” (DD 36).

[86] Catechismo della Chiesa cattolica 1186.

 

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