Il “mio” Congo, il racconto del missionario laico Paolo Carini

La testimonianza del giornalista dopo due anni e mezzo trascorsi nel Paese africano per seguire il progetto di ristrutturazione di un ospedale

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Pubblichiamo la testimonianza di Paolo Carini, missionario laico cremonese da poco rientrato da un’esperienza di due anni e mezzo nella Repubblica Democratica del Congo, dove ha seguito il progetto di ristrutturazione e di rilancio dell’ospedale St Jean Baptiste di Kansele. Il progetto è stato proposto dall’Ascom, un’associazione di Legnago che da 35 anni lavora in Africa e finanziato dalla Cei. Tornato in Italia Paolo ha ripreso la sua attività di giornalista collaborando con la testata locale Mondo Padano.

Avevo ancora qualche pallone e delle magliette da distribuire.

E’ sempre complicato portare dei palloni in Africa perché occupano spazio in valigia anche se sono sgonfi. La durata media, poi, non supera la settimana. E adesso a Mbuji Mayi sarebbe stato inutile perché la squadretta dei bambini dell’orfanatrofio è stata virtualmente chiusa da suor Christine: a suo avviso, era meglio che i bambini pensassero alla scuola. Un bel provvedimento visto che, a fine anno, Johnny e Adalbert sono stati bocciati mentre l’anno prima, quando suor Celestine li mandava a giocare, erano stati promossi. Ma il sistema educativo delle suore congolesi è di stampo ottocentesco e non contempla gli aspetti positivi del gioco e del divertimento. Non potrebbe essere diversamente. Per contro, suor Christine, qualche miglioramento nella vita dei ragazzi ha cercato di portarlo. Ha realizzato una cisterna per l’acqua piovana, ha attrezzato le camere di nuovi materassi e sta approntando un piccolo sistema pannelli fotovoltaici per avere alcune lampadine in funzione anche la sera.

Sono a casa da un paio di settimane e mi trovo a riflettere su quello che ci sarebbe da fare a Mbuji Mayi, nel Kasai orientale, al centro del Congo.

Sono tornato perché il progetto era finito, ma quando mai si può considerare finito qualcosa in Africa?

Certo, il progetto principale era il nuovo reparto di maternità all’ospedale di Kansele. Era stato finito nel settembre dello scorso anno. Poi si è ristrutturata anche la Pediatria. Ma la Maternità funziona e la Pediatria di meno. Forse occorreva capire il perché e trovare delle soluzioni. L’ospedale continua a non avere sacche di sangue per gli interventi urgenti. Qui il problema era la raccolta di sangue perché – credo di aver già avuto occasione di scriverlo – il sangue in Congo si vende e non si dona. Con un po’ di tentativi, qualcosa eravamo riusciti a fare, anche a costi ridotti. Bisognerebbe continuare.

Il problema di fondo per la gestione dell’ospedale è comunque sempre lo stesso: non ci sono finanziamenti statali e il solo reddito prodotto dal pagamento delle fatture da parte dei malati è sufficiente solo per una gestione giorno per giorno.

Oggi non ci sono i soldi per comprare le lastre per la Radiologia, si aspetta domani. Se non c’è acqua nei reparti, perché tutta la città è senza corrente da 3 giorni, bisognerebbe fare andare il gruppo elettrogeno. Ma quanti soldi ci sono, in cassa, per comprare il gasolio?

Fuori dell’ospedale, immagino la solita vita. Bambini che non vanno a scuola perché non ci sono soldi per pagare la retta. Oppure ci vanno, ma a stomaco vuoto. Non so quanto possa durare la concentrazione, se la prospettiva è quella di aspettare le 4 del pomeriggio per il primo e unico pasto giornaliero. Forse, per un giorno, ce la farei anch’io, ma tutta la settimana, come si fa? E gli insegnanti sono nella stessa situazione. E cosa possono insegnare, se già loro hanno studiato in qualche modo e non c’è possibilità di aggiornamento?

Paolo Carini

La figura che mi torna in mente in questi giorni è Shambuye, il guardiano serale e notturno della casa. Shambuye, nel Kasai, è il nome che si dà al padre di due gemelli. Negli ultimi 2 anni e mezzo e non ha mai voluto fare un giorno di ferie. C’era quando eravamo là ed era presente anche nelle nostre vacanze per controllare la casa. Adesso è disoccupato, così come la signora che puliva la casa e preparava da mangiare.

Di Shambuye ricordo un bell’episodio. Ero stato ad una celebrazione e dovevo cambiare collina per partecipare alla festa. Una mezz’oretta a piedi, oppure una moto taxi col rischio di peggiorare il mal di schiena a causa delle buche. In quell’occasione ero andato a piedi ed ero stato subito accompagnato da 3 bambini. Che non avevamo niente di meglio da fare che accompagnare un bianco. L’inizio non era stato però incoraggiante perché mi avevano indicato dei dolci su un banchetto e non li avevo presi, poi della manioca ma anche lì era andata male. Questo bianco non vuole darci da mangiare. E’ bastato però che chiedessi: adesso, che strada faccio? perché l’accompagnamento non richiesto, fosse diventato un lavoro di consulenza, quindi da retribuire. Nell’ultimo tratto ho incrociato Shambuye che mi ha invitato a vedere la sua casa. Ero sicuramente un ospite d’onore per quella casa, i 3 ragazzini forse di meno. Ma le bambine di Shambuye, credo senza ordini, sono andate subito a prendere una sedia per me e 3 sedie per i bambini che mi accompagnavano.

Ho pensato che la vera ospitalità africana si trova nelle case dei poveri.

Interessa la fine dell’episodio? Giunto a destinazione, ho regolato la fattura di consulenza prendendo dei dolci ad un banchetto. Tre a testa, per 900 franchi in totale. Ho dato 5 mila e la signora è andata a cercarmi il resto. Ho preso i 4 mila di resto e ho lasciato i 100 franchi. Qualche passo dopo ho visto uno dei bambini rubare un dolce dal banchetto. Il suo avviso è che l’avesse già pagato.

Cedric, il ragazzo albino iscritto all’università grazie al sostegno della diocesi di Cremona

Continuo a ricevere messaggi da Mbuji Mayi. Adesso si sono riaperte le iscrizioni all’Università. La diocesi di Cremona ha aiutato due studenti a iniziare i corsi e il primo anno è ormai alle spalle. Entrambi hanno superato alcuni esami alla seconda sezione, come tutti, ma ce l’hanno fatta. Ladine è una ragazza che continua a vivere all’orfanatrofio mentre Cedric ha trovato accoglienza da un compagno di studi perché lo zio, proprietario della casa, l’ha venduta e si è spostato in capitale. I nipoti troveranno qualcos’altro, deve aver pensato. Adesso devo chiedere a don Maurizio se possiamo coinvolgere un altro ragazzo dell’orfanatrofio che ha terminato le superiori e non ha concrete possibilità di lavoro.

Ho sentito stamattina alla radio che l’Africa, per compensare la crescita demografica, dovrebbe creare 25 milioni di posti di lavoro ogni anno. A Mbuji Mayi se ne perdono. L’unica soluzione è prendere una sedia e cercare di vendere qualche unità del telefono. Ma è un lavoro?

Al momento, dunque, cerco di pensare a cosa ancora possiamo fare. Per un bilancio della mia esperienza di 2 anni e mezzo, non c’è fretta.

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