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Danio Bolognini, 50 anni fa la morte del vescovo cremonese che partecipò al Concilio

“Vir prudentia cautus”: così recita l’epitaffio dettato da don Carlo Bellò per la tomba, nella cripta della Cattedrale di Cremona, del vescovo Danio Bolognini, morto cinquant’anni fa, il 2 dicembre 1972, dopo quasi vent’anni di episcopato a Cremona, ove aveva fatto solenne ingresso il 15 marzo 1953. Non una pleonastica ripetizione di concetti, ma l’indicazione che la sua cautela, pazienza e ponderazione nelle decisioni erano dettate da virtù, che si accompagnava al mai dismesso temperamento bolognese.

Era nato, infatti, ad Amola di San Giovanni in Persiceto il 27 ottobre 1901; entrato in Seminario divenne sacerdote nel 1926, studiò alla Facoltà teologica di Bologna, a Roma all’Università Gregoriana e, infine, a Bergamo, conseguendo i titoli dottorali in Teologia e in Scienze sociali. Fu docente nel Seminario regionale e parroco fino a quando, nel 1946, il cardinale Giovanni Nasalli Rocca non lo nominò suo vescovo ausiliare. Incarico tenuto per un anno anche con il nuovo arcivescovo Giacomo Lercaro, dopo avere retto la sede come vicario capitolare.

A fine 1952, mentre si pensava destinato a una diocesi emiliana, Bolognini fu nominato vescovo di Cremona dove, il 26 agosto, si era spento il venerato arcivescovo Giovanni Cazzani. Dovette così confrontarsi (ed essere confrontato) con la memoria dei due “giganti” dell’episcopato che lo avevano preceduto – Bonomelli e Cazzani – ma, pur custodendone la continuità, non se ne lasciò intimidire.

Ricordo del vescovo Bolognini, Scampa: «Quello che in quell’epoca ci sembrava difficile da accettare, si è dimostrato saggezza e prudenza che ha salvato la Diocesi»

“Prospettando una situazione nella quale già si intravedevano le prime conseguenze concrete di un processo di secolarizzazione ormai avviato” (don Andrea Foglia) si preoccupò innanzitutto, fin dalla prima lettera pastorale, di promuovere e coltivare l’unità nella fede e nella formazione cristiana, con le sue ricadute anche nella testimonianza culturale e nella presenza sociale e politica dei cattolici, pur nella consapevolezza della distinzione tra l’ordine spirituale e quello temporale.

Nella densa commemorazione tenuta in Cattedrale a un anno della scomparsa, l’arcivescovo cremonese di Ferrara Natale Mosconi lo avrebbe descritto “sacerdote sostanzialmente rigido… uomo responsabile nel quale è piena la coscienza del dovere episcopale, senza nessuna ricerca né di effetto, né di pubblicità, né di popolarità, nel quale invece una saldezza di giudizio maturato… mirava al solido, e chiedeva soltanto per il bene delle anime”.

Ricordo del vescovo Bolognini, Zucchelli: «All’apparenza distaccato, teneva nascosto l’amore che aveva per tutti, anzitutto i suoi preti»

Fisicamente imponente, intellettualmente curioso, facondo nel conversare con preti e laici, non altrettanto brillante nella predicazione,  “aveva un buon rapporto con il clero e riusciva simpatico alla gente – ricorda monsignor Giuseppe Soldi, da lui ordinato nel 1957 –  tanto è vero che molti bambini nati in quegli anni furono battezzati con il nome di Danio. Era uomo di governo e noi sacerdoti, quando si andava in udienza, sapevamo l’ora di entrata, ma non quella di uscita, parlava quasi sempre lui. Teneva molto al Seminario e alle vocazioni. Volle che prima della benedizione eucaristica si recitasse la preghiera: perché il Signore conceda al Seminario e alla Diocesi vocazioni sacerdotali e religiose buone, numerose e perseveranti”.

Una preghiera allora esaudita. L’Eucarestia, la Madonna, la fedeltà al Papa e alla Chiesa furono i suoi capisaldi dottrinali e spirituali. Promosse i congressi eucaristici zonali, celebrò l’Anno mariano (1954), indisse il pellegrinaggio diocesano annuale (nella festa dell’Ascensione) al Santuario di Caravaggio e dedicò alla Beata Vergine di Caravaggio, nel quartiere Giuseppina, una delle due nuove chiese parrocchiali da lui consacrate in città (l’altra fu quella di Cristo Re). Dette inizio nel 1955 alla visita pastorale, condotta con meticolosità per oltre un decennio. La carità, il Seminario di Santa Maria della Pace, da lui trasformato e arricchito anche con la nuova cappella centrale, l’Azione cattolica e l’apostolato dei laici furono obiettivi precipui della sua cura episcopale. Fin dal suo primo Natale cremonese volle che la celebrazione di mezzanotte divenisse “Messa della carità” per i poveri; sostenne le Cucine benefiche e l’Opera diocesana di assistenza (che precedette la Caritas) anche con la realizzazione delle colonie estive per bambini e adolescenti, spesso visitate. Una carità fatta anche di coscienza missionaria, come dimostrano le partenze, da lui autorizzate, di sacerdoti cremonesi per l’America latina e la mobilitazione della diocesi per il finanziamento e le dotazioni dell’ospedale di Tabaka (Kenya) voluto dal medico cremonese Mario Marini e poi a lui intitolato.

Ricordo del vescovo Bolognini, Follo: «Maestro di verità nella carità perché pastore e padre»

Pur non condividendone tutte le posizioni, monsignor Bolognini aveva difeso presso il Sant’Uffizio il “suo” sacerdote don Primo Mazzolari, e a lui spettò, a metà dell’episcopato cremonese, di partecipare – lo fece con assiduità e intensità – al Concilio Vaticano II (1962-1965) indetto da san Giovanni XXIII, concluso da san Paolo VI, e che avrebbe recepito non poco dello spirito mazzolariano. Per lui, vescovo residenziale a tutti gli effetti, si trattò dell’assenza più lunga da Cremona, peraltro intervallata da periodici ritorni e contrappuntata dalle lettere che, con frequenza settimanale, dirigeva alla diocesi.

Nelle sessioni conciliari conobbe e si confrontò con altri padri e ne invitò alcuni (come il cardinale dell’Alto Volta o quello cinese di Formosa-Taiwan) a celebrare in Cattedrale il pontificale di Sant’Omobono che, già nel 1960, aveva fatto presiedere a Giovanni Battista Montini, allora arcivescovo di Milano. Lavorò nella commissione sull’ecumenismo, scrisse una notificazione sul suo senso cattolico e fu il primo vescovo di Cremona a intervenire, in Sant’Agostino, alla preghiera con il pastore della comunità metodista nell’annuale Settimana per l’unità dei cristiani.

Ricordo del vescovo Bolognini, Marchesi: “Uomo dotato di prudenza produttiva”

Il post-Concilio lo impensierì, non per chiusura al necessario rinnovamento, ma “per i contrasti, le incertezze, le novità che venivano introdotte spesso in modo affrettato e superficiale” (don Foglia), ad esempio in campo liturgico, dove esigeva decoro e dignità.

Gli ultimi suoi anni furono segnati dalla malattia e dai frequenti ricoveri, talora da un senso di inadeguatezza e di isolamento. “Ventilava l’idea della rinuncia…Ma non l’avrebbe mai fatto, prima dei limiti posti dalla Chiesa; e non l’avrebbe mai fatto per solo motivo di fede” (Mosconi).

Su monsignor Bolognini manca tuttora uno studio storico organico. Uno degli allora giovani sacerdoti a lui più vicini, monsignor Ernesto Cappellini (l’altro era il fedele segretario don Giuliano Gabbani), pubblicò sul settimanale diocesano La Vita Cattolica, a ogni anniversario di morte, un articolo che prendeva in esame un aspetto della personalità, del magistero e della pastoralità del vescovo. Tenne, inoltre, una commemorazione in Seminario, a dieci anni dalla scomparsa, poi trascritta nel 1983 per Cremona, la rassegna della Camera di Commercio, sotto il titolo: “Danio Bolognini Vescovo del Concilio”. “Se qualcuno un po’ più avanti vorrà mettere mano a una biografia, come sarebbe doveroso, qui troverà tutti i riferimenti necessari”, diceva. Si potrebbe incominciare proprio raccogliendo in volume quegli scritti del canonista cremonese, indimenticato parroco di San Pietro.

Gianpiero Goffi

 

Messa per i Vescovi defunti nel 50° della morte di mons. Bolognini




Messa per i Vescovi defunti nel 50° della morte di mons. Bolognini

Nel pomeriggio di giovedì 1° dicembre il vescovo Antonio Napolioni presiederà in Cattedrale la Messa in suffragio dei vescovi cremonesi defunti. La celebrazione, solitamente celebrata il 3 novembre, quest’anno è stata spostata alla vigilia di un significativo anniversario: il 50° della morte del vescovo Danio Bolognini.

La Messa, che sarà concelebrata dal vescovo emerito Dante Lafranconi e dai canonici del Capitolo della Cattedrale, sarà alle 18 nella cripta del Duomo, dove con l’inizio dell’Avvento sono state trasferite le celebrazioni feriali. Così l’Eucaristia sarà proprio non lontana tomba del vescovo Bolognini, morto a Cremona il 2 dicembre 1972.

Originario di Amola di San Giovanni in Persiceto, nel Bolognese, dove nacque il 27 ottobre 1901, Bolognini fu ordinato sacerdote il 20 marzo 1926. Il 18 giugno 1946 fu nominato vescovo ausiliare di Bologna, titolare di Sidone, ricevendo l’ordinazione episcopale il 29 giugno dello stesso anno.

Nel 1952 gli fu affidata la guida della Diocesi di Cremona. Proprio negli anni di episcopato cremonese partecipò ai lavori del Concilio ecumenico Vaticano II durante il quale chiese ed ottenne l’approvazione della Sede Apostolica per elevare Nostra Signora di Caravaggio a compatrona della Diocesi unitamente a sant’Omobono.

 

Il 30 novembre sul portale diocesano uno speciale dedicato al vescovo Bolognini




Ricordo del vescovo Bolognini, Scampa: «Quello che in quell’epoca ci sembrava difficile da accettare, si è dimostrato saggezza e prudenza che ha salvato la Diocesi»

Di seguito, in occasione del 50° anniversario della morte, il ricordo del vescovo Danio Bolognini da parte di dom Carmelo Scampa, vescovo emerito di São Luís de Montes Belos, in Brasile. Dom Scampa, originario di Scandolara Ripa d’Oglio, fu ordinato sacerdote dal vescovo Bolognini il 27 giugno1971.

 

Dom Carmelo Scampa

Il tempo purifica la memoria e restituisce alla persona il suo vero valore. Sono passati cinquant’anni da quel 2 dicembre 1972, quando “alla fine dell’anno liturgico si fermava il cuore del nostro Pastore”, come scriveva mons. Brocchieri su La Vita Cattolica dando l’annuncio della morte del vescovo Bolognini.

La figura del vescovo Danio ha segnato la mia gioventù e il primo periodo di ministero in diocesi. Negli anni Sessanta, come seminarista liceale, è maturata la vocazione missionaria che mi ha portato a essere alunno del Seminario America Latina di Verona nei quattro anni di Teologia, pur restando giuridicamente legato e poi incardinato alla Diocesi di Cremona. “Strappare” il permesso del vescovo non è stato facile. Temporeggiava per mettere alla prova e, pur non essendo convinto che un suo chierico fosse formato da superiori che lui non aveva scelto, accettò e accompagnò il mio percorso di Teologia a Verona come un vero pastore. Lo visitavo spesso e la corrispondenza epistolare di quegli anni è stata intensa e di grande incoraggiamento.

In quegli anni del post Concilio, epoca di profondi cambiamenti ecclesiali e sociali, di grandi idealismi e sogni, mons. Bolognini è stato una figura di grande prudenza, mai incline a novità spregiudicate, più facile a mettere il piede sul freno che sull’acceleratore. Quello che in quell’epoca ci sembrava difficile da accettare, si è dimostrato saggezza e prudenza che ha salvato la Diocesi di Cremona da fracassi che in altre diocesi cominciavano ad apparire, sopratutto nel campo vocazionale.

Non accettava tutto del Concilio, preso forse alle discussioni conciliari più che ai documenti conclusivi. Ricordo molto bene il dialogo, abbastanza teso, nel luglio del 1971 quando mons. Brocchieri, in viaggio per il nord d’Europa, mi chiese di scrivere l’articolo di fondo de La Vita Cattolica sull’obiezione di coscienza, tema che si discuteva alla Camera in quei giorni. Argomentavo con citazioni di don Sturzo, dell’onorevole Fracanzani e anche documenti del Concilio al riguardo, ma lui insisteva sulle discussioni preliminari che si erano tenute in aula, di certa forma non considerando il documento finale.

Ma la prudenza riflessiva e di governo del vescovo Danio manifestava un profondo senso di rettitudine e di amore alla Chiesa e questo non è sfuggito a nessuno. “C’era l’uomo”, l’uomo trasparente e fedele alla Parola, non impaurito dal parere della maggioranza, motivato nelle sue argomentazioni. Potevamo non concordare con lui, ma mai potevamo dire che era ambiguo, insicuro nella dottrina e nel governo pastorale della Diocesi. Ciò dava sicurezza e tranquillità interiore, anche quando scalpitavamo, mossi dall’ardore giovanile del cambiamento e della novità.

Nella mia relazione con lui ci sono stati momenti di forte tensione, sopratutto prima dell’ordinazione presbiterale. Erano intemperanze e imprudenze giovanili che oggi non approverei assolutamente. Nonostante tutto mi ha segnato l’ultimo incontro personale che ho avuto con lui il 27 novembre 1972, cinque giorni prima della sua improvvisa morte. È stato un commiato onde il vescovo mi chiedeva scusa per i vari momenti di conflitto che avevamo avuto e confermando la sua stima e fiducia.

Mons. Bolognini per me è stato una figura positiva di pastore attento, non avventuriero; di uomo rude, ma sincero e capace anche di mostrare il suo lato umano; di uomo de fede, ancorato nel Cristo che “iam non moritur” (omelia di Pasqua che mi impressionò da seminarista del liceo); di cristiano che ha amato con sincerità la Chiesa e per lei ha vissuto.

I limiti che facevano parte della sua esperienza umana sono conosciuti e non è necessario ricordarli, ma è necessario rinnovare il grazie per tutto quanto di positivo è stato per la Chiesa cremonese.

Dom Carmelo Scampa
vescovo emerito di São Luís de Montes Belos




Ricordo del vescovo Bolognini, Zucchelli: «All’apparenza distaccato, teneva nascosto l’amore che aveva per tutti, anzitutto i suoi preti»

In occasione del 50° anniversario della morte, proponiamo il ricordo del vescovo Danio Bolognini da parte di mons. Ruggero Zucchelli, presidente del Capitolo della Cattedrale di Cremona. Il ricordo giovanile negli anni dell’Azione Cattolica e poi durante la formazione in Seminario prima dell’ordinazione, avvenuta il 24 giugno 1972, pochi mesi prima della morte del vescovo Bolognini.

 

Mons. Ruggero Zucchelli

Non mi è facile fare memoria del vescovo Danio Bolognini, perché ho condiviso con lui un tratto fondamentale della mia vita; il passaggio dalla giovinezza, con la scelta vocazionale, alla maturità in cui ho realizzato, con il sostegno del Seminario e del vescovo Danio, la chiamata al Presbiterato.

Conoscevo il vescovo Danio già da alcuni anni, avendo collaborato nell’Azione Cattolica come dirigente diocesano della GIAC; avevo apprezzato la sua parola lenta, pensata, puntuale di padre cauto e fiducioso.

Ricordo un episodio che mi rivelò la sua ricca umanità. Il Vescovo aveva nominato il vicario di Sant’Agostino e assistente di noi giovani parroco​ di uno sperduto e piccolo paesino delle nostre campagne. Don Silvio aveva accettato, ma era tornato a casa con le lacrime agli occhi e non riuscì a tenere segreto il motivo del suo dolore. Con il presidente della Giunta di Azione cattolica, sentito il parroco, decidemmo di chiedere udienza al Vescovo, che la concesse. Con garbo e tanta tristezza lo informammo della situazione; non si poteva interpretare la nomina come una promozione, per un prete paziente, generoso, pieno di vita, sempre presente e disponibile era simile a un castigo. Il Vescovo rispose che la nomina era già in Cancelleria e ci accommiatò. Tornammo a casa con la convinzione di non aver ottenuto nulla; invece, alcuni giorni dopo, don Silvio venne richiamato e fu nominato in un paese con più abitanti, tanto d’avere il parroco anziano e il vicario.

Scoprii così il grande cuore del vescovo Danio: non era, come pensavo, distaccato dalla sua gente; teneva nascosto l’amore che aveva per tutti, anzitutto per i suoi preti.

Questa bontà d’animo la sperimentai quando presentai domanda di entrare in Seminario. Con il mio parroco, l’indimenticabile mons. Erminio Maria Stuani, mi recai dal Vescovo per chiedere, se possibile, di ridurre gli anni di permanenza in Seminario, per la situazione economica precaria della mia famiglia di cui ero il sostegno. Il Vescovo mi esentò dalla frequenza dell’anno propedeutico, sostenni gli esami ed entrai in Seminario per frequentare il Corso teologico quadriennale.

Sorse così l’alba del 24 giugno 1972, quando nell’assolato pomeriggio di cui non sentii il caldo, in Cattedrale, il Vescovo m’impose le mani: fui l’ultimo presbitero ordinato da Lui.

Lo incontrai l’8 settembre di quell’anno, giorno in cui mi assegnò la prima missione; purtroppo non riuscii a ringraziarlo della illustrazione che fece della Parrocchia di Sant’Agata, nella quale fui vicario cooperatore per 17 anni: la realtà coincideva con quanto il Vescovo mi aveva detto. Rimasi meravigliato della sua profonda e minuziosa conoscenza del tessuto umano della comunità parrocchiale e dei problemi connessi.

Il 2 dicembre, sempre del 1972, ricevetti una telefonata: “È morto il Vescovo”. La commozione m’impedì di chiedere notizie, mi raccolsi in preghiera e lo ricordai all’altare. Il lunedì seguente alla commozione si aggiunse la confusione, quando, chiamato in Curia, il Vicario capitolare mi incaricò di preparare un breve saluto da pronunciare alla fine delle solenni esequie, che si celebrarono il mercoledì successivo. Ricordo le parole finali di quel saluto. Mi rivolsi al vescovo Danio dicendo: “Grazie, Eccellenza! Ora che nella gloria dei cieli celebra la liturgia perenne, preghi per noi, suoi figli, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen”.

Oggi posso dire che senz’altro: Egli ha pregato. Tanto che cinquant’anni dopo la sua santa morte (morì recitando il Credo) posso ancora dirgli: “Grazie, vescovo Danio!”

sac. Ruggero Zucchelli




Ricordo del vescovo Bolognini, Follo: «Maestro di verità nella carità perché pastore e padre»

Il vescovo Danio Bolognini e il Seminario, la liturgia e il Concilio Vaticano II nel ricordo di mons. Francesco Follo, sacerdote originario di Pandino recentemente rientrato in diocesi dopo un lungo servizio nella Diplomazia vaticana, prima alla Segreteria di Stato e poi per vent’anni a Parigi come osservatore permanente della Santa Sede presso l’Unesco.

 

Mons. Francesco Follo

È con animo davvero riconoscente che propongo questa mia testimonianza sul vescovo Danio Bolognini, che mi ha confermato nella vocazione sacerdotale, dicendo a me, che gli manifestavo delle esitazioni nell’imminenza dell’ordinazione sacerdotale, di non aver paura. Al fatto che gli dicevo che non avevo ancora 24 anni e che, forse, era meglio attendere, lui mi rispose che la vocazione viene da Dio tramite il Vescovo, che dà la vocazione canonica e che lui si faceva garante di ciò, e aggiunse di non aver cura di me, ma di lasciare che di me avesse cura il Signore.

Riandando con la memoria, molti ricordi di lui mi vengono alla mente, ne racconto solamente alcuni.

Il primo riguarda le sue venute in Seminario a incontrare i seminaristi e a celebrare il conferimento dei vari ordini minori. Memorabile era la lunghezza della sua predicazione, ma ci dava della sostanza su cui riflettere.

Presenziava agli esami in silenzio attento e noi rispondevamo al professore con deferenza e intimiditi dalla sua persona che aveva sempre un atteggiamento solenne. Ma al timore reverenziale subentrava la nostra devozione di figli, confortati dal padre che era maestro di verità nella carità, come recitava il suo motto episcopale “Veritas in caritate” (munus docendi).

Il secondo riguarda la liturgia. Quando celebrava e noi seminaristi incaricati del servizio liturgico assistevamo anche alla vestizione dei vari paramenti pontificali, lo si vedeva assorto in un atteggiamento di pietà virile, che trasmetteva con un “arte di celebrare” solenne ma non pomposa. In tal modo esercitava il suo ufficio di santificare (munus santificandi).

Il terzo riguarda il Concilio Vaticano II. La domenica che precedeva l’11 ottobre 1962 (giorno di inizio dell’Assemblea conciliare) mons. Bolognini invitò i fedeli della diocesi per una Messa solenne augurale. Terminato il Sacro Rito, noi seminaristi, i preti e il popolo che avevamo assistito alla celebrazione liturgica, uscimmo dal Duomo e spontaneamente attorniammo il Vescovo che stava salendo sulla macchina che lo avrebbe portato a Roma. Dopo averci rinnovato la sua benedizione, ci disse con semplicità: “Vado a imparare”. E quello che imparò lo trasmise alla Diocesi, dando avvio alla riforma che i vari documenti conciliari indicavano. Da maestro della verità nella carità insegnò che solamente quando la verità e l’amore sono in accordo la persona umana può essere felice e che solamente la verità rende liberi, come ricorda Cristo nel suo Vangelo. Insegnamento ancora oggi attuale, perché in un periodo in cui si cominciava a presentire la contestazione, mons. Bolognini seppe tenere unito ciò che la mentalità secolare spesso separava. Già allora amore e verità erano considerati come contrapposti, collegando la libertà unicamente all’amore, ma non alla verità. Lui tenne la barra diritta.

Mons. Danio aveva d’abitudine (o almeno così a me sembrava) un atteggiamento austero, ma era un “burbero benefico” e la porta del suo studio era ogni giorno aperta per quanti chiedevano di parlargli e li confortava. Dietro un’apparenza un po’ ruvida c’era un cuore di padre, che ci mostrava anche in vacanza stando con noi sia a Candalino sia a Lanzada (luoghi dove i seminaristi trascorrevano una parte delle vacanze estive): stava in mezzo a noi, allora giovani tesi al sacerdozio, con serietà e delicatezza, e i momenti con lui non erano mai banali, anche se svolti durante la ricreazione.

Personalmente ricordo che mi sostenne in modo significativo nei primi due anni di sacerdozio in cui ero vicario di Casirate d’Adda. È vero che la mia nomina in quella parrocchia la ricevetti con un semplice biglietto in cui mi comunicava questa sua decisione, chiedendomi anche di prendere la licenza in Teologia presso la Facoltà interregionale di Teologia, allora si chiamava così (il dottorato di ricerca in Filosofia lo conseguii nel 1984 su invito del vescovo Tagliaferri). Ma mi fu sempre “burberamente” e paternamente vicino, e gliene sono ancora riconoscente.

Era aperto alle varie, nuove istanze pastorali, anche se dava l’idea di essere eccessivamente prudente. Ma fu lui che, per esempio, invitò il card. Lercaro a Bozzolo per fargli parlare della Chiesa dei poveri.

Fu aperto alla missione, nella pastorale quotidiana, ma anche con gesti significativi come quello di invitare il card. Zoungrana, vescovo di Ouagadougou (Burkina Faso), e favorendo l’apertura di una scuola gestita dalla Suore della Beata Vergine a Tabaka, in Kenya, su suggerimento di mons. Ercole Brocchieri, se ricordo bene.

Quindi esercitò l’ufficio di governo (munus gubernandi) come cooperatore della verità conformemente al suo motto episcopale “Veritas in caritate”. Quale vero pastore e maestro mostrò che amore e verità hanno così bisogno l’uno dell’altra e si nutrono talmente l’uno dell’altra che, per usare le parole di Benedetto XVI, si può affermare che “‘L’amore, senza la verità, diviene cieco e si trasforma in caricatura di se stesso; la verità senza l’amore diviene crudele e perde la sua stessa natura” .

In sintesi, mons. Danio Bolognini fu, come diceva sant’Agostino di se stesso, “con noi cristiano, per noi vescovo”.

Mons. Francesco Follo




Ricordo del vescovo Bolognini, Marchesi: “Uomo dotato di prudenza produttiva”

Da ragazzino di Antegnate poi entrato in Seminario, a giovane prete novello inviato a perfezionare gli studi a Roma: mons. Mario Marchesi, oggi vicario giudiziale dopo essere stato vicario generale della Diocesi dal 2003 al 2016, ricorda alcuni momenti e incontri con il vescovo Danio Bolognini, in occasione del 50° anniversario della morte.

 

Mons. Mario Marchesi

Dopo aver esaminato molto del materiale che si trova pubblicato su di lui, alla morte e negli anni successivi, quindi già disponibile anche a voi, penso che basti limitarmi, per quello che potrà servire, a richiamare alcuni ricordi personali, quelli che mi sono sembrati emblematici di qualche suo tratto personale.

Il 5 novembre 1955, nella parrocchia di Antegnate fu grande festa in onore della Madonna del Rosario, in ricordo dei 250 anni di un fatto singolare. Avevo 17 anni, senza una concreta presenza di vocazione presbiterale. Era domenica. Pioveva a dirotto, come nei due giorni precedenti. Nel pomeriggio, in chiesa vi erano diversi fedeli, forse per la celebrazione dei vespri. Senza preavviso, a un certo punto arrivò il vescovo, che vedevo per la prima volta. Fatti sedere i presenti, incominciò a spiegare che era di passaggio e si era fermato per onorare la Vergine. Poi fece andare il discorso sul simulacro della Madonna con il “vestito” e disse che sarebbe stato bene cambiarlo con una statua vera. Di quel momento mi sono rimaste impresse nella memoria la robusta figura dell’uomo, in piedi rivolto alla gente, e la lunga discussione che ne derivò, con lui, calmo, pacato nel discorrere; ascoltava senza scomporsi, insistendo sulle ragioni per il cambiamento. Se ne andò chiedendo alla gente di pensarci insieme al parroco con serenità e serietà. Una curiosità: qualche tempo dopo il simulacro fu cambiato, ma successivamente, e attualmente, si è ritornati al simulacro vestito!

Il secondo ricordo mi riporta al tempo del Seminario, probabilmente all’anno 1964. Ero il “prefetto” dei ginnasiali (in quinta erano una ventina). Allora, il rito della “vestizione” veniva fatto in parrocchia, prima dell’ingresso al liceo. Il rettore mi disse che il vescovo desiderava sapere che cosa ne pensassero i ragazzi circa la vestizione. Feci il sondaggio richiesto e glielo riferii. Non ne sentii più parlare fino al soggiorno estivo di Candalino. Qui, il vescovo convocò un pomeriggio teologi, liceali e ginnasiali. Parlò per un’ora, insistendo sull’importanza della veste talare per il seminarista e per il prete e poi si rivolse a me, mi fece alzare in piedi e mi chiese quale fosse il pensiero dei ginnasiali (non lo disse ma, ovviamente, già gli era stato comunicato). La sua inaspettata conclusione: «Da quest’anno la “vestizione” non si farà più al termine del ginnasio, ma all’inizio della teologia».

Prima del conferimento del diaconato, il vescovo riceveva ognuno personalmente. Durante l’incontro, a un certo punto mi chiese se amavo la Chiesa. Alla mia risposta affermativa, alzò i gomiti dalla scrivania sulla quale era appoggiato, rizzò la sua mole, batté un pugno e rimarcò con voce forte: «Attento! Io intendo dire se vuoi bene a questa Chiesa, così come essa è fatta, anche con le sue storture umane». Andò avanti a lungo, parlando della Chiesa e delle sue esperienze in essa, buone e meno buone.

Quando divenni prete, la sua scelta fu di mandarmi a Roma per completare gli studi. Tra altre, mi fece queste due raccomandazioni. La prima: «Ho pensato che tu faccia, nel primo anno la licenza in Teologia, poi frequenterai il Diritto canonico, perché mi serve uno che insegni Teologia morale». Proprio così, secondo la prassi del tempo! Tuttavia aggiunse anche di sapere dell’esistenza a Roma di una iniziale università d’indirizzo morale e, pertanto, mi suggerì di frequentare qualche corso per capire gli aggiornamenti che erano in atto. L’altra fu quella che, più o meno in forma simile, ha fatto anche ad altri preti mandati a Roma per lo studio. Disse: «Ti raccomando, conserva la fede. Se hai salda fede e fai qualche sbaglio nei costumi, riesci a recuperarti, ma se perdi la fede andranno in frantumi anche i costumi!».

Al termine dei quattro anni di studio avevo già pronta la tesi di laurea. A quel tempo non esisteva il sistema di sostentamento del clero. Per far dattilografare la copie da depositare presso l’università mi occorrevano dei soldi, e non li avevo. Durante le vacanze pasquali andai da lui, gli esposi il problema e chiesi di poter avere le centocinquantamila lire necessarie. Come sua abitudine mi tenne parecchio tempo, parlandomi di varie cose; poi prese un bigliettino, vi scrisse qualcosa e, dandomelo, mi disse di scendere in Curia. Con mia meraviglia vi lessi che aveva scritto il doppio di quello che avevo chiesto.

Ne avrei diversi altri, significativi del suo modo di essere e di rapportarsi, almeno per quello che mi riguarda. Preferisco chiudere con un suo elogio indiretto, da me sentito in una riunione del clero diocesano. Parlando pubblicamente, un vicario generale, con un suo modo assai caratteristico, lasciò cadere questa osservazione: «Vi ricordate il vescovo Bolognini? Chi di voi si è sentito fare da lui un elogio personale diretto? Con noi è sempre stato piuttosto riservato e anche burbero. Tutti però sappiamo che, fuori diocesi, si vantava di noi suoi preti!».

Sono soltanto aneddoti, ma mi sembra che facciano trasparire, almeno in modo embrionale, la sua caratteristica umana ed episcopale. L’epigrafe sulla sua tomba, composta da don Carlo Bellò, inizia con “Vir prudentia cautus”. La trasformo così: “Uomo dotato di prudenza produttiva”. Ha inciso profondamente sulla nostra Chiesa, in tutte le dimensioni della pastorale diocesana da autentico riformatore, non smantellando quello che c’era, ma facendolo evolvere dall’interno, senza spinte avventate, innestandovi l’essenziale degli orientamenti che il Concilio Vaticano II aveva risvegliato.

Mons. Mario Marchesi