Pizzaballa ai Vescovi lombardi: «Cerco di essere vicino a tutti, soprattutto a chi soffre»

Un’ora abbondante di chiacchierata, in cui i vescovi lombardi hanno potuto percepire la profondità della sofferenza che oggi vive la Terrasanta e comprendere qualcosa in più delle radici, ormai pluridecennali, di tale dolore. E lo hanno fatto con un testimone d’eccezione, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei latini dal 2016. È stato questo il senso dell’ultimo incontro – svoltosi giovedì 30 ottobre a Gerusalemme – nel contesto del fitto programma del pellegrinaggio dei presuli delle dieci Diocesi di Lombardia, organizzato dal segretario della Conferenza episcopale lombarda, mons. Giuseppe Scotti, dall’incaricato regionale per la Pastorale del turismo e dei pellegrinaggi, don Massimo Pavanello, con il supporto di Duomo Viaggi, agenzia della Diocesi ambrosiana.

Con la consueta schiettezza e lucidità, il Patriarca, che è stato anche Custode di Terrasanta dal 2004 al 2016, non ha usato giri di parole per descrivere ai “colleghi” lombardi la situazione a Gaza: «In 36 anni che sono qui non ho mai visto una devastazione simile. I conflitti e le crisi non sono mancate, ma c’era sempre l’idea di un “dopo”, c’era una prospettiva. Questa prospettiva, oggi, sinceramente non c’è. Quanto accaduto il 7 ottobre è una strage orribile, ma bisogna avere anche il coraggio di dire che la reazione ha superato il limite».

Auspicando che la fragile tregua durerà («Se la vogliono Stati Uniti e Paesi arabi sono convinto che reggerà»), ma tenendosi comunque lontano da valutazioni di tipo politico, il cardinale ha poi raccontato come vivono questa situazione i cristiani e come lui stesso cerca di interpretare il suo ruolo di pastore: «Come Chiesa abbiamo avuto bisogno di tempo per capire il 7 ottobre, lo sconvolgimento che ha rappresentato, le reazioni che avrebbe innescato: molti, me compreso, pensavano che la risposta israeliana si sarebbe esaurita in due mesi o poco più, come accaduto in altre occasioni. Invece quella tragedia ha rappresentato uno spartiacque, ha scavato un solco profondo tra le due società: in questi anni c’è stata una polarizzazione mai sperimentata, si è diventati incapaci di ascoltare le ragioni dell’altro, perché ognuna delle due parti vede se stessa come l’unica vittima, e si assiste a una negazione dei fatti da una parte e dall’altra».

Su un concetto è tornato più volte il porporato francescano: «Io come pastore devo sempre cercare di essere vicino a tutti. Tenete sempre presente la peculiarità della Chiesa locale che guido, che comprende Israele, Palestina, Giordania e Cipro: questo significa che del Patriarcato latino fanno parte lavoratori immigrati di fede cattolica che sono morti il 7 ottobre e altri deceduti sotto i missili di Hezbollah nel nord del Paese; ci sono cristiani che combattono nell’esercito israeliano e altri che sono sotto le bombe a Gaza: io sono vescovo di tutti e ho il dovere di cercare sempre un equilibrio, di essere presente a fianco di chiunque soffre, anche se questo a volte non viene capito.

Il racconto della situazione a Gaza, che Pizzaballa ha potuto visitare anche recentemente, è da brividi: «Gaza di fatto non esiste più: c’è solo una distesa di macerie, sotto le quali ancora ci sono molti cadaveri. L’odore dei morti, unito a quello delle fognature distrutte, crea una puzza che è inimmaginabile. La maggior parte delle persone vive nelle tende, senza acqua, fognature, corrente elettrica. E adesso arriva l’inverno. Ci sono anche molti mutilati, ovviamente tantissimi orfani e anziani soli, e ricordo sempre che da due anni a Gaza di fatto le scuole sono chiuse».

Che cosa sta facendo e potrà fare la Chiesa cattolica? «Intanto va detto che per iniziare una vera ricostruzione occorre capire chi la dovrà gestire, su quali risorse potrà contare, con quali obiettivi. Come Chiesa ovviamente noi ci siamo, ma vorremmo promuovere progetti che poi saremo in grado di mantenere nel tempo. Per ora cerchiamo di rispondere all’emergenza: la parrocchia di Gaza è diventata come una specie di “hub” per tutto il circondario, che distribuisce aiuti a 50mila persone. Cerchiamo soprattutto di coinvolgere i giovani, di dare loro dei compiti, in modo che non vivano solo aspettando le bombe».

Non manca una riflessione del cardinale sulla situazione del rapporto tra le fedi: «Il 7 ottobre è stato uno spartiacque anche per il dialogo interreligioso, una cesura netta. In questo clima molto difficile, registro però il fatto che ebrei e musulmani, alcuni almeno, ci chiedono di aiutarli a interpretare questo tempo: noi non possiamo ignorare le ferite ma nemmeno si deve lasciare che le ferite diventino l’unico criterio. Nessuno può pensare di avere il monopolio del dolore». Si può ancora sperare? Chiede qualcuno in conclusione: «Non bisogna confondere la speranza con una soluzione politica, per la quale non vedo spazio. Questa guerra forse finirà ma il conflitto più generale no. La speranza per noi cristiani però è un’altra cosa: è figlia della fede. Se credi in qualcosa poi lo puoi realizzare, a livello personale e comunitario».

 

 

Per i vescovi lombardi l’ultima giornata di pellegrinaggio in Terra Santa era iniziata all’alba, con una celebrazione eucaristica alle 6.30 al Santo Sepolcro, pellegrini tra Betlemme e Gerusalemme da lunedì 27 ottobre. In una Basilica che durante il giorno torna lentamente ad affollarsi di fedeli dopo il crollo di affluenza degli ultimi due anni, ma che a quest’ora resta ancora sostanzialmente deserta, l’arcivescovo di Milano e metropolita di Lombardia, mons. Mario Delpini, ha presieduto l’ultima Messa in programma, dopo quelle alla Chiesa dei Melchiti, alla Basilica della Natività a Betlemme e al Getsemani.

«Coloro che credono in Gesù risorto si rendono conto di dover pronunciare parole incomprensibili per il pensiero rassegnato e per la speranza proibita – ha detto l’arcivescovo nell’omelia –. La gente di oggi non si aspetta che ci sia una risurrezione, quindi l’annuncio si riduce alla rassicurazione di un lieto fine a una storia drammatica». Occorre allora tornare al cuore del mistero della Risurrezione: «Non è uno spettacolo da vedere, non è un fatto che si impone. È piuttosto una relazione, è la dimora dove possiamo, desideriamo, dobbiamo rimanere: Gesù risorto è con i suoi discepoli. L’essere-con di Gesù morto e risorto è il principio dell’umanesimo cristiano».

La riflessione del metropolita di Lombardia si è poi fatta più specificamente riferita al contesto incontrato nei giorni del pellegrinaggio: «In questo tempo e in questa terra molti trovano buone ragioni per disperare della possibilità dell’umanità di sopravvivere. Ma coloro che sono con Cristo, risorti con lui, non possono semplicemente essere cauti per sopravvivere; devono piuttosto vivere, vivere in pienezza, vivere felici, vivere sempre, vivere e dare vita, vivere e fare della propria vita un dono». E ancora: «Queste parole siamo incaricati di pronunciare nello stesso discorso: figli di Israele, pace, Gesù. Sono tre parole difficili da pronunciare insieme, tre parole impopolari, ma noi questo dobbiamo dire. Questo siamo venuti a dire qui al sepolcro: per mezzo di Gesù, il risorto, sono stati riconciliati i popoli e a noi è stata affidata la parola della riconciliazione».

Un messaggio che ha idealmente anticipato quanto i vescovi hanno ascoltato poco dopo, nella sede del Patriarcato latino, nella testimonianza del cardinale Pierbattista Pizzaballa, che ha di fatto concluso il breve ma intenso pellegrinaggio dei 13 vescovi lombardi e dei loro accompagnatori.

 

 

 

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