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A Caravaggio una tre giorni di formazione per fare proprie le indicazioni del Convegno di Firenze

Dall’8 al 10 gennaio al Centro di spiritualità del santuario di Caravaggio, su invito di mons. Lafranconi si è ritrovato un gruppo di una cinquantina tra preti e laici qualificati per le loro responsabilità nella pastorale diocesana: i vicari zonali, i responsabili degli Uffici pastorali diocesani e laici facenti parte delle Commissioni pastorali diocesane e dei Consigli pastorali zonali. Tema della formazione “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”, con la finalità di recuperare e fare proprie le indicazioni del Convegno nazionale della Chiesa italiana tenuto a Firenze dal 9 all’11 novembre dello scorso anno, centrato nella riflessione sul rapporto tra proposta del Vangelo e la cultura di oggi: come comunicare Cristo alla società italiana dentro un cambiamento d’epoca, così come papa Francesco ha sottolineato nel suo discorso ai convenisti.

L’appuntamento formativo per preti e laici insieme è stato proposto dallo stesso vescovo Dante per dare nuovo slancio alla formazione diocesana ispirandosi a nuovi modelli formativi, così come la riflessione sulla formazione del clero da parte della Conferenza Episcopale Italiana aveva, tra altre proposte, suggerito.

La formazione si è articolata in tre fasi. Un primo momento ha posto la base teologica del tema, proposta dal teologo lombardo don Francesco Scanziani, docente di antropologia alla facoltà teologica e al Seminario della diocesi di Milano. Don Scanziani ha recuperato la lezione della Costituzione conciliare “Gaudium et spes” in ordine allo stile che deve caratterizzare l’atteggiamento della Chiesa rispetto alla società degli uomini e alla cultura moderna e post moderna. Lo stile che si sostanzia nel metodo del “dialogo” e la mediazione culturale. Dialogo che ha come fondamento il rapporto con Cristo modello di umanità e ha le sue fasi di sviluppo nella lettura dei segni dei tempi, intesa come individuazione dei segni della presenza di Dio nella storia, l’individuazione degli interrogativi fondamentali che la cultura pone circa l’uomo, la sua vita e la convivenza nella comunità umana, la risposta che ne proviene dal modello umano di Cristo, e infine il discernimento rispetto ai valori già presenti nella cultura per operare la loro purificazione e ricondurli alla loro divina sorgente.

Intervento di don Francesco Scanziani:     schema della relazione     testo approfondito

È seguito autorevole l’intervento di mons. Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, già rettore della Facoltà Teologica di Milano e ispiratore del Convegno nazionale di dieci anni fa celebrato a Verona, che propose di riformulare l’unitarietà della proposta cristiana dentro i cinque ambiti vitali dell’affettività, del lavoro-festa, della fragilità, della tradizione-educazione, della cittadinanza attiva.
Mons. Brambilla ha tracciato la continuità della riflessione ecclesiale italiana all’interno della serie di convegni nazionali, da Roma 1976, a Loreto 1985, Palermo 1995, Verona 2006 e Firenze 2015.

Ha soprattutto sottolineato la prospettiva antropologica operata dal convegno di Verona e che trova continuità nel Convegno di Firenze. Poi ha coniugato le cinque vie proposte a Firenze (uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare) con le azioni proprie della generatività della vita umana: desiderare il figlio, concepire il figlio, darlo alla luce, prendersene cura, lasciarlo alla propria vita, proponendo in forma analogica un possibile itinerario della proposta cristiana nella cultura di oggi. Passare dalla proposta della fede come bisogno umano alla fede come desiderio, cioè ad una fede che esprima la tensione ad una pienezza di umanità: il cambiamento chiede una conversione di mentalità. La fede esige di essere accolta dentro la profondità della propria umanità per essere custodita e cresciuta nell’interiorità; la fede deve essere poi trasmessa e generata nel cuore degli uomini: è il momento che implica un vero e proprio rischio, quello del parto, nel confronto con la cultura del tempo; il prendersi cura, cioè l’opera educativa deve seguire l’annuncio della fede in forma tale che l’opera educativa sbocchi nell’adultità della fede evitando il rischio che un’azione educativa virtuosa da seducente si trasformi in seduttiva, impedendo il processo di maturazione della fede stessa nelle persone.

Relazione di mons. Franco Giulio Brambilla

Il testo della relazione di mons. Brambilla a Caravaggio

Approfondimento del vescovo Brambilla sulle parole del Papa a Firenze

La lettura del messaggio del Convegno di Firenze è stata completata con la presentazione dell’esperienza di partecipazione da parte di alcuni membri della delegazione diocesana al Convegno, i coniugi Nelli e Paolo Reggiani e don Luigi Donati Fogliazza, con la riproposta della cinque vie enunciate dal Convegno nazionale: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare.

L’esperienza raccontata dai coniugi Reggiani

L’intervento di don Donati Fogliazza

Dall’ascolto dei contenuti del Convegno di Firenze si è passati alla fase di confronto per favorirne l’appropriazione e l’elaborazione in termini di atteggiamenti che come comunità diocesana siamo chiamati ad assumere nel rapporto con la cultura di oggi.

Le sintesi del confronto saranno recuperate nella riflessione che come comunità diocesana saranno condotte in seguito e già in forma imminente della proposta degli incontri interzonali già programmati nei venerdì di gennaio, il 15 e il 22, rivolti a preti e operatori pastorali insieme. Leggi il programma

L’itinerario di formazione si è concluso con un momento di verifica e la Messa del vescovo Dante nel Santuario di S. Maria del fonte.




Accoglienza diffusa: il bilancio dell’attività coordinata sul territorio della Coop. Nazareth

È ormai un dato consolidato il fatto che il flusso migratorio crescente a cui si sta assistendo non rappresenta una situazione emergenziale straordinaria, ma il riflesso di un quadro geopolitico instabile che da anni scuote gran parte dell’Africa e del Medio-Oriente. Proprio a partire da questa consapevolezza in questo anno pastorale la Chiesa cremonese è stata chiamata a prendere coscienza del fenomeno, con una riflessione che possa portare a concreti passi di accoglienza, che in questo Anno giubilare rappresentano vere e proprie opera di misericordia.

Se alla Caritas Cremonese – con le strutture a essa collegate – compete la cosiddetta “prima accoglienza”, in base a un vero e proprio progetto diocesano di accoglienza e integrazione seguono poi fasi di accompagnamento sul territorio con l’attivazione di percorsi d’integrazione. A questo scopo la Caritas si avvale della collaborazione della Cooperativa Nazaret, attiva dal 2001 sul territorio cremonese nell’ambito dell’accoglienza dei migranti. Ne abbiamo parlato con la dott.ssa Giuseppina Biaggi, vicepresidente della Cooperativa Nazareth.

Il vostro impegno guarda alla cosiddetta “accoglienza diffusa”: il contributo attivo delle comunità risulta dunque essenziale?

“Sì, per la realizzazione di percorsi di accoglienza diffusa e di coinvolgimento delle comunità risulta indispensabile accompagnare i territori a essere protagonisti di azioni di accoglienza, integrazione e accompagnamento all’autonomia. Fondamentale risulta il lavoro con i volontari. Proprio per questo, in collaborazione con le Parrocchie e i Comuni, sono stati realizzati percorsi informativi e formativi con l’obiettivo anzitutto di fornire un quadro realistico del fenomeno migratorio a Cremona, ascoltando le storie dei migranti e analizzando gli aspetti sociali, politici ed economici connessi a questo fenomeno”.

Quale lo scopo di questi interventi?

“Anzitutto quello di generare riflessioni e accompagnare le azioni dei volontari per accantonare l’approccio emergenziale e fare spazio a un’azione “progettuale”. Potremmo dire: dal senso all’agire, dall’assistenza alla cura dell’altro. Fatta di presenza, ascolto e sostegno”.

Attraverso quali modalità?

“Ad esempio con la costruzione di spazi di “espressione” e partecipazione alla vita di un territorio, per far sì che i migranti possano far emergere le proprie potenzialità, costruire canali di comunicazione con la comunità locale ed essere nella condizione di poter donare qualcosa proprio alla territorio, ad esempio con azioni di volontariato da parte degli stessi migranti. Questo permette di creare una rete relazionale locale capace di far fronte alle necessità di chi attraversa periodi di fragilità”.

L’attività formativa quante persone e realtà ha coinvolto?

“Si trata di numeri abbastanza significativi, con diverse persone coinvolte. Sono stati organizzati diverse decine di incontri pubblici, sia a Cremona che fuori città”.

Guardando nello specifico all’accoglienza dei migranti sul territorio è possibile fare un bilancio?

“Al 31 dicembre 2015 erano una decina le realtà coinvolte: Casteldidone, Torre de’ Picenardi (Emmaus), Corte de’ Frati, Gadesco Pieve Delmona, Stagno Lombardo, Grumello Cremonese, Porcellasco, Casalbuttano, Castelverde e Solarolo Monastero (presso l’ostello). In ogni realtà abbiamo allestito un appartamento (a volte in comodato d’uso dal comune o dalla parrocchia, altre volte affittando da privati), con una media di 3-4 posti letto, in molti casi usati per accogliere una famiglia”.

Con l’avvio del 2016 il progetto di accoglienza è desitinato ad allargarsi?

“Sì, ci sono già tre strutture in fase di allestimento: a Sospiro, Spinadesco e Pieve S. Giacomo. Nel primo caso per una famiglia di cinque persone, negli altri due con disponibilità rispettivamente per 4 e 3 adulti”.

Quali sono le prospettive e le preoccupazioni?

“Nei prossimi mesi tutti questi migranti saranno convocati dalla Commissione che dovrà decidere sul loro status giuridico di richiedenti asilo politico. Poi, in ogni caso, si prospetta la fase più delicata: in tempi rapidi, qualsiasi sia la risposta rispetto al permesso di soggiorno, andare in autonomia. Questo vuol dire lavoro, casa e inserimento stabile nei territori. Per questo, oltre alla fase dei primo mesi di accoglienza, dovremo avere comunità attente e preparate”.




Migranti: numeri stabili nell’accoglienza. L’attenzione ora si focalizza su chi deve lasciare le varie strutture

Continuano anche in queste settimane gli arrivi di migranti sul nostro territorio, ma il problema principale non quello del reperimento dei posti, quanto la condizione di coloro che, ottenuto o meno l’agognato permesso, devono lasciare le struttere di accoglienza. Una situazione a cui Caritas Cremonese guarda con particolare attenzione, nella consapevolezza che, nel periodo più rigido dell’anno, nessuno può essere messo alla porta da un giorno all’altro.

“Il picco degli arrivi – conferma don Antonio Pezzetti, direttore di Caritas Cremonese – è stato in estate. L’8 luglio le presenze erano 360. Da allora la situazione si è stabilizzata all’interno di Casa Accoglienza dove il numero dei nuovi arrivi, come nel caso dei 6 di questi giorni, è controbilanciato dalle partenze. Dal punto di vista della prima accoglienza siamo in un periodo di relativa calma”.

Questo anche grazie alle diverse disponibilità di collocazione individuate dalle Prefettura sul territorio. Così dei 26 arrivi di questi giorni solo 6 sono stati destinati al complesso di viale Trento e Trieste.

La situazione cremonese rispecchia quella a livello nazionale, dove risultano attualmente presenti 100mila migranti a fronte di circa 350mila arrivi.

“Chi ottiene la protezione sussidiaria o l’asilo politico – precisa don Pezzetti – ha la possibilità di rimanere nella struttura per ancora sei mesi o viene collocato in altre città italiane attraverso lo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Agli altri è chiesto di lasciare le strutture e rientrare nel loro paese, anche se intendono presentare appello”.

Il via vai presso la Casa dell’Accoglienza è dunque continuo. Una cinquantina di persone hanno ottenuto il permesso o sono in attesa di riceverlo, mentre a una ventina è stato rifiutato. È proprio a loro che si guarda con una certa preoccupazione, complice anche il clima rigido del periodo, e la consapevolezza che i criteri di selezione oggi sono molto più restrittivi.

“Il lavoro della Commissione – continua il direttore di Caritas Cremonese – sta accelerando, ma c’è anche da dire che le valutazioni avvengono con criteri differenti rispetto al passato. Un esempio: per i giovani neomaggiorenni prima almeno il permesso umanitario era scontato, ora non è più così. Abbiamo avuto casi di ragazzi, maggiorenni solo da pochi mesi, e che già erano inseriti nel progetto Sprar e frequentavano la scuola per la formazione edile, che hanno avuto il diniego. In questo modo non si è tenuto minimamente conto di quanto era stato fatto e ancora si stava facendo”.

“Se all’inizio era un problema di accoglienza – conclude don Pezzetti – ora il problema è di persone che, dopo un anno o due di attesa della decisione della Commissione, si vedono costrette a lasciare la struttura d’accoglienza. Su questa nuova situazione come Caritas siamo chiamati a interrogarci se davvero siano garantiti i diritti umani di queste persone”.

La provenienza da paesi in cui vi sono dittature meno “famose” di altre non garantisce la possibilità di ottenere un documento, ma interroga certamente sull’accoglienza che, almeno per legge, dovrebbe interrompersi e su come dall’oggi al domani le possibilità di tanti a costruirsi un futuro crollino come castelli di carte. E non va meglio per chi, pur con un permesso in tasca, rimane senza soldi e lavoro. È questa la nuova emergenza a cui Caritas Cremonese cerca di far fronte.




Sabato 16 gennaio nella Biblioteca del Seminario la storia dell’ebreo Sidney Zoltak nel Displaced Persons Camp di Cremona

Sabato 16 gennaio, presso la Biblioteca del Seminario Vescovile di Cremona, in via Milano 5, nell’ambito delle celebrazioni della Giornata della Memoria, sarà presentata la storia di Sidney Zoltak, ebreo nato in Polonia, che ha trascorso i suoi primi 14 anni nel paese natale e poi ha peregrinatio per l’Europa, per poi arrivare a Cremona, dove è rimasto per quasi due anni nel Displaced Persons Camp, un campo di raccolta per profughi ebrei sito nel “Parco dei monasteri”. La vicenda di Sidney Zoltak sarà presentata attraverso le parole del suo volume e la narrazione delle vicende che lo portarono a scegliere poi la strada del Canada. L’incontro (ore 17), aperto a tutta la cittadinanza, è curato dalle bibliotecarie Roberta Aglio e Monica Feraboli insieme all’architetto e studioso di storia locale Angelo Garioni.

Yehoshua Sidney Zoltak è un ebreo. Nato in Polonia nel 1931, oggi vive con la sua famiglia a Montreal, in Canada. Ha trascorso i suoi primi 14 anni nel paese natale e peregrinando per l’Europa, per poi arrivare a Cremona. Proprio qui è rimasto per quasi due anni (dall’estate del 1946 alla metà di aprile del 1948) nel “Displaced Persons Camp”, un campo di raccolta per profughi ebrei sito in quello che è noto come il “Parco dei monasteri”, un insieme di strutture di impianto medievale utilizzate nei secoli per scopi prevalentemente comunitari come monastero, caserma, campo profughi e struttura per rifugiati. Oggi, questa vasta area in prevalente stato di abbandono, lascia ancora scorgere qualche traccia del suo passato, racconta delle storie vissute, come quella di un semplice uomo tra tanti, un ebreo, sfuggito alla morte, e che da qui, come altri 4mila ebrei, ha ritrovato una strada per la vita.

La storia cremonese di Sidney Zoltak è narrata in alcuni capitoli del libro “My silent pledge: a journey of struggle, survival and remembrance”, edito nel 2013 in Canada. In esso è contenuto il racconto di un viaggio, fatto dalla terra natia a una nuova terra, una nuova prospettiva, del tutto sconosciuta. Non si tratta della sola storia di un uomo, legata alla grande sofferenza umana degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, ma di fatto si propone come un esempio, un racconto che vuole stimolare gli uditori a una riflessione, un parallelismo sull’essere profugo, senza una terra, “senza un sogno”, come dice lo stesso protagonista.

Per descrivere la condizione di coloro che dovettero lasciare la propria casa nel paese di origine, senza potervi fare ritorno a causa di una persecuzione o di una guerra, fu coniato il termine “Displaced Persons” (abbreviato in DP). Il sociologo russo Eugene M. Kulisher pensò a questa denominazione proprio riferendosi alla situazione di forzata migrazione, che riguardò moltissimi cittadini provenienti dall’Europa centrale ed orientale, conseguentemente alla Seconda Guerra Mondiale.

L’esistenza di campi profughi, chiamati appunto “Displaced Persons Camp” è nota da anni agli storici della metà del secolo XX, ma di fatto poco conosciuta dai più. Questi campi, luoghi di passaggio, accoglienza e talvolta di formazione, furono dislocati nei territori di Germania, Austria e Italia. Vi si trovavano più di 10 milioni di profughi di varia nazionalità, che per lo più erano internati e sopravvissuti ai campi di concentramento, ex-prigionieri di guerra o semplicemente civili in fuga.

L’Italia fu un importante crocevia per i flussi di spostamento delle DP di origine ebraica, grazie alle caratteristiche geografiche del territorio: i numerosi valichi alpini costituivano facili possibilità di oltrepassare i confini settentrionali e le lunghe coste offrivano piccoli porti da cui potevano partire le navi verso l’occidente americano o la Palestina. Le autorità italiane furono tra quelle più clementi nei confronti dei profughi giunti illegalmente ed esercitarono un controllo molto meno restrittivo e severo di quello mantenuto dagli inglesi, dagli Stati Uniti e dal Canada, fino alla nascita del nuovo stato d’Israele.

Attraverso i documenti, alcuni studiosi hanno ricostruito la storia dei DP Camp e le dinamiche gestionali che li hanno fatti funzionare a partire dal 1945. Per Cremona, Angelo Garioni, architetto e studioso di storia locale, in collaborazione con la Biblioteca del Seminario Vescovile di Cremona, sta portando avanti da qualche anno le sue ricerche sul campo sito in città dal 1945 al 1948 e ha stabilito un contatto con Sidney Zoltak, classe 1931, cittadino canadese dal 1948.

Figlio di due ebrei polacchi, di una piccola cittadina a 150 km a est di Varsavia, Sidney visse una prima infanzia serena, attorniato da una grande famiglia e godendo di una buona stabilità economica. Solo alla fine del 1938 la situazione cambiò, le questioni razziali e le persecuzioni tedesche nei confronti degli ebrei sconvolsero l’equilibrio della sua normalità: lo spostamento nel Ghetto, la fuga, i mesi passati a nascondersi nei boschi, nei fienili, nell’ombra e con enorme paura, la liberazione della Polonia, l’arrivo dei russi e di nuovo la decisione di scappare dalla terra che ormai non era più propria, l’attraversamento dell’Europa, l’Italia e una nave per Halifax, poi Montreal, la nuova terra e la nuova casa. Un viaggio, quello di Sidney, lungo e difficile, ma sostanziato dalle esperienze, dall’apprendimento, dalla crescita di un adolescente che ha saputo far tesoro di ciò che ha incontrato. Stupisce la capacità di cantare e di ricordare, nel filmato della CBC Television, principale rete televisiva pubblica canadese, che ha raccolto un estratto della storia. Colpisce ancora di più la conclusione in cui Zoltak vuole credere che i timori di un oblio e di una reiterazione delle tragedie come l’Olocausto, condivisi dai tanti sopravvissuti e non solo, siano solo immaginari e che nessuno mai dimentichi ciò che è accaduto.

ZOLTAK




Pensieri per Nadia della referente “Pronto Intervento Donna” di Caritas Cremonese, dopo il femminicidio di Cremona

Di seguito una riflessione della dott.ssa Nicoletta D’Oria Colonna, referente “Pronto Intervento Donna” della Caritas diocesana, dopo il femminicidio avvenuto a Cremona nella notte tra il 10 e l’11 gennaio.

C’è stato un femminicidio a Cremona. La furia del caino omicida è esplosa per un eccesso d’amore, d’insicurezza o di follia. In una normale sera d’inverno, una coppia non ha trovato la soluzione ai propri problemi, grandi, immensi, irrecuperabili. La violenza contro le donne coinvolge ogni estrazione sociale e ogni livello culturale e può spesso essere messa in relazione al profondo cambiamento del ruolo della donna-moglie nella società.

Specialmente nei confronti delle donne straniere che arrivano nei paesi occidentali, impreparate sia loro che i loro mariti ad affrontare un altro modo di intendere l’amore, la vita, la famiglia, la libertà. Donne (molte italiane) che da inette subordinate diventano protagoniste attive della vita familiare. “Capo famiglia” perché spesso sono le uniche a lavorare, si occupano di crescere ed educare i figli, mandano avanti la casa, curano maternamente i loro uomini. Quante umiliazioni per la virilità di questi piccoli re detronizzati che vorrebbero le donne relegate in camera da letto ed in cucina, schiave pronte ad ubbidire ad uno schioccare delle dita. La donna, che per secoli è stata una proprietà della famiglia, del padre prima e del marito dopo, oggi chiede di essere un soggetto autonomo, di essere ascoltata e capita, rispettata e valorizzata in quanto persona. La donna si ribella. Un’onta impossibile da accettare per un uomo cresciuto nell’idea di essere il superiore, il sesso forte cui tutte le donne della sua casa si sottomettono. A cominciare dalle madri, proprio dalle madri che vengono vessate  se è vero che una donna su tre nella sua vita subisce violenza tra le mura domestiche.

Quanta responsabilità nella genitorialità! Eppure quanto è attaccata e consumata la famiglia, “smangiucchiata” nella sua identità da ogni ideologia pseudo liberale in nome dell’uguaglianza e della parità dei diritti. Non è forse fondamentale investire nei concetti di prevenzione ed integrazione? E non è altrettanto importante evidenziare l’importanza di una educazione culturale, sociale, morale e affettiva fin da piccoli? Dove nasce la ferocia di un uomo, un cucciolo rabbioso perso nel bosco dell’incomprensione, della solitudine, del terrore, dell’abbandono … fagocitato dall’incapacità di guardarsi dentro e di vedere negli occhi della donna che sta strangolando la fiducia che diventi un padre prezioso.

Forse potremmo educare i futuri uomini alla possibilità dell’insoddisfazione, ma facendoli sentire profondamente amati. Potremmo puntare al rispetto reciproco, all’assunzione di ruoli e responsabilità ed al riconoscimento delle diversità, intese come valorizzazione delle potenzialità e delle risorse e non piuttosto come terrore delle stesse. Perché poi sono la paura e l’impossibilità a gestire la situazione che ci fanno scadere nella violenza.

In questo mondo globalizzato in cui le relazioni si intrecciano e si rincorrono sul web, ma da casa, sarebbe invece utile ricreare il buon vecchio rapporto di vicinato, quella sorta di controllo sociale spontaneo che una volta svolgevano i vicini di casa. Osservare e lasciarsi osservare alla ricerca di un modo di essere da emulare o da allontanare. Aiutare e lasciarsi aiutare.

I “dati ufficiali” ci mostrano un calo dei casi di femminicidio, ma un aumento delle denunce per maltrattamento e stalking, anche grazie alle leggi emanate in questi anni. Ma si verificano ancora tanti casi di femminicidio: perché un solo caso è già troppo. In questi anni è cresciuta la sensibilità nei confronti della violenza di genere, ma resta difficile entrare nelle case, nelle coppie, nei silenzi, nelle paure delle donne e nella loro determinazione a tenere unita la famiglia, di solito in  nome dei figli.

E adesso il mio pensiero, quando faticosamente supera la paura dell’immagine di un corpo violato, non riesce che a correre all’angoscia delle figlie. La mamma non c’è più, il papà è in carcere nella speranza che la macchina della giustizia lo riesca a rieducare e che la sua coscienza lo faccia pentire ed invocare il perdono di Dio.

Ma i figli dei femminicidi che fine fanno? Dice Anna Costanza Baldy (docente di Psicologia, Università degli Studi di Napoli): “Si tratta di un trauma enorme, da cui è difficile riprendersi perché se già il lutto legato alla perdita di un genitore è gravissimo, perderlo per mano dell’altro genitore è una ferita, un dramma impossibile da gestire e comprendere, è un trauma irreparabile. Finita la ribalta dei riflettori queste piccole vittime sono lasciate a loro stesse e alle mille difficoltà dei loro affidatari. Questi sono spesso anche loro parenti che devono gestire il proprio lutto per aver perso una figlia, una sorella”.

A queste orfane e a tutte le donne che subiscono violenza auguriamo di trovare abbastanza voce ed abbastanza coraggio per aiutare loro stesse e prevenire nuove tragedie. Ma non le lasciamo sole.

Nicoletta D’Oria Colonna
referente Pronto Intervento Donna
Caritas Cremonese




Vespri dell’Epifania al monastero domenicano di Cremona. Mons. Lafranconi: “Tutti dobbiamo essere contemplativi”

È nella chiesa monastica di S. Sigismondo, a Cremona, che nel pomeriggio di mercoledì 6 gennaio, come ormai tradizione, mons. Lafranconi ha celebrato i Secondi Vespri della solennità dell’Epifania. Una consuetudine iniziata otto anni fa quando il Vescovo di Cremona pose ufficialmente la clausura papale sul monastero domenicano di S. Giuseppe presso S. Sigismondo, a meno di un mese dall’insediamento ufficiale in città delle claustrali dell’Ordine dei Frati Predicatori. Un anniversario che quest’anno è stato caratterizzato da due particolari circostanze: la conclusione del ministero episcopale di mons. Lafranconi, che fortemente ha voluto questa presenza, polmone spirituale per la diocesi insieme al monastero della Visitazione di Soresina; e il Giubileo per gli 800 anni di fondazione dell’Ordine domenicano, che si intreccia con l’Anno Santo della Misericordia.

Accanto a mons. Lafranconi c’era il delegato episcopale per la Vita consacrata, don Giulio Brambilla e il superiore della comunità camilliana di Cremona, padre Virginio Bebber, oltre al cappellano del Monastero, don Daniele Piazzi. Presenti anche altri sacerdoti, alcuni dei quali hanno preso posto sull’altare, mentre altri hanno seguito la preghiera del Vespro tra l’assemblea.

Nel coro le monache di clausura, con la priora, madre Maria Lucia Soncini, affiancata dalla vice, madre Maria Caterina Aliani.

Dopo il canto del Vespro è stata esposta l’Eucaristia per l’adorazione, aiutata anche dalla meditazione dell’amministratore apostolico che ha iniziato la propria riflessione guardando all’Epifania. Proprio l’Incarnazione – ha sottolineato – è il modo più evidente del manifestarsi di Dio. Se il farsi uomo di Dio da un lato può essere la manifestazione divina più comprensibile per l’uomo, dall’altro non semplifica il mistero che unisce insieme la natura divina e umana di Cristo.

“Di fronte al mistero – ha detto mons. Lafranconi – noi non possiamo mai sottrarci al bisogno interiore e alla necessità della contemplazione”. E ancora: “La contemplazione è una dimensione connaturale della fede cristiana, per questo è un’esigenza di tutti”. Quindi il riferimento esplicito alla presenza delle Domenicane: “Avere in mezzo a noi un monastero di monache contemplative richiama costantemente a tutti i cristiani la necessità di mantenere il cuore, la mente e il desiderio aperto alla contemplazione di Dio. Tutti dobbiamo essere contemplativi!”. “Grazie a voi, sorelle, – ha proseguito – perché con la vostra vita ce lo ricordate e in qualche maniera ci aiutate a viverla, anche se magari in modo un po’ zoppicante”.

Poi il riferimento al Giubileo Misericordia che “mette dentro di noi il desiderio della contemplazione, per riconoscere Dio per quello che è” e all’anno giubilare dell’Ordine dei Frati Predicatori, iniziato il 7 novembre 2015 (festa di Tutti i Santi dell’Ordine) e che si concluderà il 21 gennaio 2017 (data della bolla “Gratiarum omnium largitori” di Papa Onorio III) in occasione degli 800 anni di fondazione dell’Ordine domenicano. Due eventi – ha affermato mons. Lafranconi – che “si compenetrano, perché di fatto un giubileo, comunque esso venga compiuto, è sempre un atto di misericordia”. E ha aggiunto: “Allora ci sentiamo ancora di più uniti nel vivere insieme questi due percorsi che conducono tutti allo stesso fine e nascono tutti e due dalla stessa sorgente: la misericordia di Dio”.

Il motto del giubileo domenicano – “Mandati a predicare il Vangelo” – è stato quindi lo spunto per alcune riflessioni sul significato della predicazione del Vangelo. Anzitutto riguardo alla metodologia: “fatta di parola che tocca l’intelligenza dell’uomo e favorisce la cultura – ha detto mons. Lafranconi – ma che nello stesso tempo è vita e testimonianza, qualcosa che si rende visibile attraverso le opere. Il Vangelo non può essere predicato solo in un modo o solo nell’altro, perché la sua metodologia è l’unità di queste due dimensioni”.

Poi l’aspetto dei destinatari dell’annuncio: tutti gli uomini, non sono coloro che frequentano la Chiesa.

Infine mons. Lafranconi si è soffermato sul fatto che si tratta di una missione affidata da Dio. “Questo da una parte – ha spiegato il Vescovo – dice la fiducia che Dio ha negli uomini, in noi”. Ma “Proprio perché è un compito che ci è affidato è giusto viverlo, esprimerlo e metterlo in atto senza pretese, cioè lasciando a Dio di determinare il tempo dei frutti che la predicazione del Vangelo opera”.

“Care sorelle – ha concluso mons. Lafranconi – la vostra presenza, voluta fin dall’inizio come sostegno vigoroso a coloro che viaggiano sulle strade per annunciare il Vangelo, vi faccia sentire partecipi di questo ministero, vi faccia condividere la fatica, la gioia e l’impegno di coloro che sono chiamati ad annunciare il Vangelo. E, mentre vi fa sentire partecipi di questo mandato affidato dal Signore, vi dia anche la gioia – come sono certo che ve la dà – di vedere nella segretezza della vostra vita contemplativa – forse più di noi predicatori del Vangelo – i frutti che questa predicazione suscita. Me l’avete detto tante volte quando leggevate i messaggi delle Sentinelle del Mattino. Il Signore si è manifestato: raccogliamo la sua grazia, viviamo nella sua gioia e nella sua pace”.

Il testo dell’omelia del vescovo Lafranconi

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Al Museo Civico di Cremona lavori in corso alla sala Cremona dove tornerà l’Armadio del Platina

Sopralluogo del sindaco di Cremona, Gianluca Galimberti, al Museo Civico dove da dicembre sono in corso i lavori per la climatizzazione della sala Cremona. L’intervento, costato 175mila euro, è stato fortemente voluto dall’Amministrazione, di concerto con il Perinsigne Capitolo della Cattedrale e con la Soprintendenza, dopo aver accertato l’inadeguatezza della sala del Quattrocento ad ospitare l’Armadio del Platina, restaurato nel 2007. La sala Cremona, che già prima del restauro ospitava il prezioso Armadio, è stata individuata come nuova sede perché ha caratteristiche dimensionali e fisiche appropriate.

Dal punto di vista architettonico, la sala non ha avuto bisogno di particolari modifiche per adeguarla alla sua nuova destinazione.

Sarà condizionata attraverso due macchine esterne condensate ad aria, collocate sul tetto, due condizionatori di precisione e un impianto di ricambio forzato. Affinché la climatizzazione sia sempre efficace, gli ingressi della sala verranno tamponati con serramenti trasparenti a tenuta d’aria e dotati di meccanismo di autochiusura.

Il cronoprogramma dei lavori prevede la chiusura del cantiere entro il mese di gennaio. Al termine, sempre in sinergia con il Capitolo della Cattedrale (proprietario dell’Armadio) e la Soprintendenza, saranno eseguite adeguate verifiche tecniche sulle condizioni microclimatiche della sala, dove sarà quindi rimontato qui l’Armadio del Platina, dopo il suo smontaggio. Nella stessa sala sarà valutata la collocazione anche delle opere lignee e di alcuni dipinti su tavola che attualmente sono in deposito, come la Grande Pala di Altobello Melone o San Girolamo di Boccaccio Boccaccino.

Per quanto riguarda la sala Quattrocento, la proposta del Conservatore è quella di dedicarla al ‘300, anche in questo caso rimettendo nel percorso espositivo alcune opere ora in deposito.

“Era da anni che non si vedevano operai al lavoro al Museo – la dichiarazione del Sindaco Galimberti -. Questa Amministrazione ha deciso di investire nella cultura, anche strutturalmente, e questi lavori ne sono la prova. L’inaugurazione della nuova Sala Cremona, che avverrà dopo l’estate, sarà un vero e proprio evento per la nostra Pinacoteca e per la città”.

E sull’Armadio del Platina il Sindaco ha aggiunto: “Con il Capitolo e con la Soprintendenza, abbiamo preso in mano le problematiche fin da giugno 2014. Abbiamo fatto alcuni piccoli interventi alla sala Quattrocento di risoluzione di guasti preesistenti ed effettuato precisi monitoraggi delle sue condizioni microclimatiche. In questi mesi, abbiamo incontrato il Capitolo, il responsabile diocesano per i Beni culturali e la Soprintendenza, condividendo con loro la necessità di spostare l’Armadio per evitare l’ulteriore peggioramento dello stato di conservazione. Una scelta importante che risolve una situazione che si trascina da anni e contribuisce, insieme a nuove mostre e animazioni, a rilanciare la nostra Pinacoteca”.

Al sopralluogo, insieme al sindaco Galimberti, hanno preso parte l’assessore alla Rigenerazione urbana e Città vivibile Barbara Manfredini, i dirigenti Maurizia Quaglia (Cultura) e Ruggero Carletti (Patrimonio), il conservatore Mario Marubbi e l’architetto Paolo Rambaldi, responsabile del progetto architettonico.

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L’Armadio del Platina

L’Armadio del Platina, di proprietà del Perinsigne Capitolo della Cattedrale, dagli anni ’50, è in deposito presso il Museo Civico. Nella consapevolezza del suo valore, il Comune si è adoperato a reperire i fondi necessari per il suo recupero. Il restauro, durato circa tre anni, si è concluso nel 2007. A lavori ultimati, l’Armadio è stato collocato nella sala del Quattrocento del Museo Civico, unica dotata di condizionamento, a seguito di una scelta condivisa dall’allora Amministrazione comunale e dalla proprietà.

Negli anni successivi, situazioni microclimatiche non adatte, dovute anche all’inefficienza degli impianti, sono state spesso evidenziate dal Conservatore della Pinacoteca. Inoltre, la Soprintendenza ha più volte ribadito le proprie riserve sulla collocazione dell’Armadio nella sala dei Quattrocento.

Subito dopo il suo insediamento, nel luglio 2014 l’Amministrazione Galimberti ha voluto fortemente intervenire innanzitutto per riparare i guasti su impianto di condizionamento e porta di accesso della sala Quattrocento, che contribuivano ad incrementare il peggioramento dello stato di conservazione dell’Armadio, e ha dato il via ad un monitoraggio intensivo delle condizioni microclimatiche. Dopo numerosi incontri tra Amministrazione, Capitolo, responsabile diocesano per i Beni culturali e Soprintendenza, acquisiti gli ulteriori dati rispetto alle condizioni microclimatiche della sala del Quattrocento, l’Amministrazione, in sinergia con tecnici e Conservatore della Pinacoteca, Proprietà e Soprintendenza, ha deciso di dotare di un impianto di climatizzazione la sala Cremona e di spostare lì, a lavori ultimati, l’Armadio e le tavole lignee.

Armadio_Platina




Il Vescovo nella Messa dell’Epifania: la manifestazione di Dio deve essere riconosciuta

Non basta che Dio si manifesti nella storia: è necessario anche che l’uomo sia disposto a riconoscerlo. “Siamo anche noi testimoni, nella quotidianità della nostra vita, con la gioia di essere cristiani e con la competenza umile di dichiarare la nostra fede a tutti”. È questo l’invito che l’amministratore apostolico, mons. Dante Lafranconi, ha rivolto nella Messa pontificale dell’Epifania presieduta la mattina di mercoledì 6 gennaio in Cattedrale.

La liturgia è stata concelebrata dal canonici del Capitolo della Cattedrale con il presidente mons. Giuseppe Perotti, il vicario generale mons. Mario Marchesi e il delegato episcopale per la Pastorale don Irvano Maglia. Hanno prestato servizio all’altare i diaconi permanenti Cesare Galantini ed Eliseo Galli.

La Messa, con la presenza dell’Associazione Nazionale Carabinieri di Cremona per il servizio d’ordine, è stata animata dal coro della Cattedrale accompagnamento all’organo Mascioni del maestro Fausto Caporali e sotto la direzione del maestro don Graziano Ghisolfi.

Dopo la proclamazione del Vangelo da parte del diacono Galantini, mons. Lafranconi dalla cattedrale ha introdotto la proclamazione dell’annuncio della data di Pasqua, proposto subito dopo nel canto dal solista Alessandro Ciapessoni. Una antichissima tradizione, che risale al IV secolo.

L’annuncio di Pasqua

Il testo dell’annuncio:

Fratelli carissimi, la gloria del Signore si è manifestata
e sempre si manifesterà in mezzo a noi fino al suo ritorno.
Nei ritmi e nelle vicende del tempo
ricordiamo e viviamo i misteri della salvezza.
Centro di tutto l’anno liturgico è il Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto
che culminerà nella domenica di Pasqua il 27 marzo.
In ogni domenica, Pasqua della settimana,
la santa Chiesa rende presente questo grande evento
nel quale Cristo ha vinto il peccato e la morte.
Dalla Pasqua scaturiscono tutti i giorni santi:
le Ceneri, inizio della Quaresima, il 10 febbraio,
l’Ascensione del Signore, l’8 maggio,
la Pentecoste, il 15 maggio,
la prima domenica di Avvento, il 27 novembre.
Anche nelle feste della santa Madre di Dio, degli Apostoli e dei Santi
e nella commemorazione dei fedeli defunti
la Chiesa pellegrina sulla terra proclama la Pasqua del suo Signore.
A Cristo che era, che è e che viene, Signore del tempo e della storia,
lode perenne nei secoli dei secoli. Amen.

Ha quindi fatto seguito l’omelia di mons. Lafranconi che, ricordando come nella festa dell’Epifania si riconosca la manifestazione di Dio, ha voluto ripercorrere la strada compiuta in queste festività dove non sono mancate occasioni in cui la presenza di Dio si è resa visibile.

L’amministratore apostolico si è quindi soffermato su come gli uomini hanno accolto questa manifestazione: lo sguardo è andato ai pastori, a Simeone e Anna, giungendo sino ai Magi. Senza dimenticare i segni offerti dalla liturgia: dalla proclamazione di “figlio prediletto” durante il battesimo al Giordano al miracolo a Cana di galilea, ma anche i tanti miracoli, sino alla morte in croce. “Riconoscere il Signore Gesù nel suo manifestarsi attraverso varie modalità è senz’altro frutto della grazia di Dio”, che però ha bisogno della disponibilità degli uomini, quella che il Vescovo ha definito “rettitudine della coscienza”.

“Anche di fronte ai miracoli non tutti hanno creduto, anzi alcuni trovato un pretesto per condannarlo”, ha ricordato mons. Lafranconi, che poi ha proseguito: “Senza coscienza retta, disponibile e aperta, l’uomo non conosce neppure i fatti miracolosi come indicatori che colui che li opera è il Salvatore”.

Da qui tre indicazioni che mons. Lafranconi ha voluto rivolgere come spunti di riflessione e conversione.

Anzitutto “non possiamo non essere grati al Signore perché Egli ci ha condotti a riconoscere che Gesù è davvero il Figlio di Dio. È una grazia per noi! Essere cristiani non è un evento così, fatto per tradizione, soprattutto oggi! Essere cristiani è riconoscere con gioia che davvero Gesù è il Figlio di Dio, che davvero la sua parola e la sua azione sono ciò che salva anche noi e dà senso alla nostra vita. Allora siamo contenti di essere cristiani, di essere stati favoriti in qualche maniera dalla grazia di Dio”.

Però di fronte a questa grazia ciascuno ha “il dovere di rendere personale, interiore e radicato dentro di sè questo manifestarsi del Signore: dobbiamo rendere nostra la fede in Lui attraverso la preghiera, attraverso il Vangelo che leggiamo, attraverso quella formazione della coscienza che ci permette di essere, dentro il nostro tempo e dentro la nostra cultura, capaci di dichiarare in chi crediamo e perché crediamo!”. E qui un forte monito: “Tra noi cristiani c’è un’eccessiva superficialità nella conoscenza del Signore Gesù. Allora, come già diceva Paolo ai suoi tempi, succede che noi siamo sballottati dal vento di qualsiasi dottrina, di qualsiasi opinione! Rendere la nostra adesione al Signore Gesù un’adesione convinta, personale, interiore, ragionata!”.

“Conseguenza normale e naturale è quella di testimoniarlo – ha concluso il vescovo –. Testimoniarlo sì con le nostre parole, ma soprattutto con la nostra coerenza di vita. Testimoniarlo in un certo senso come l’hanno testimoniato anche i santi innocenti che, pur non sapendo parlare, pur non conoscendo per chi morivano, hanno però unito la loro breve esistenza alla presenza e all’opera salvatrice di Dio. E quanti martiri oggi rivivono la stessa vicenda! Siamo anche noi testimoni, nella quotidianità della nostra vita, con la gioia di essere cristiani e con la competenza umile di dichiarare la nostra fede a tutti”.

Il testo dell’omelia del vescovo Dante Lafranconi



A Cassano l’ultimo saluto a don Sandro Fagnani, deceduto improvvisamente all’età di 55 anni

Sono state celebrate nella mattinata di sabato 2 gennaio a Cassano d’Adda le esequie di don Alessandro Fagnani, sacerdote classe 1960 originario della cittadina milanese deceduto nella notte tra il 29 e il 30 dicembre mentre si trovava a Cassano, presso l’abitazione della madre, per alcuni giorni di riposo. Insieme ai familiari tanti sacerdoti e quanti lo hanno conosciuto, in particolare a Spineda. I funerali sono stati presieduti dall’amministratore apostolico mons. Dante Lafranconi, che ha espresso la vicinanza anche del vescovo eletto di Cremona Antonio Napolioni.

Il corteo funebre è partito dalla casa, non lontana dalla parrocchiale di S. Maria Immacolata e S. Zeno, dove don Sandro è deceduto nel sonno. Dietro alla croce, alcuni ministranti e il parroco mons. Giansante Fusar Imperatore precedevano il carro funebre, seguito dall’aniziana madre, i familiari più stretti, gli amici e conoscenti di questo sacerdote scomparso improvvisamente all’età di 55 anni.

Percorrendo via Vittorio Veneto, scortato dalla polizia locale, il feretro è giunto nella grande chiesa di Cassano dove, subito dopo, è iniziata la Messa presieduta dal vescovo Dante Lafranconi. Accanto all’amministratore apostolico, nella processione d’ingresso, c’erano il vicario generale, mons. Mario Marchesi, il parroco di Cassano con il vicario don Gianluca Gaiardi, e il parroco di Spineda, don Ernesto Marciò, dove don Fagnani risiedeva ormai da diversi anni.

Nato a Cassano il 29 maggio 1960, era stato ordinato sacerdote il 23 giugno 1984. Dopo una prima esperienza pastorale come vicario a Misano Gera d’Adda, poi cappellano della Pro Juventute di don Carlo Gnocchi, quindi vicario a Rivolta d’Adda, si era trasferito a Spineda dove risiedeva collaborando prima con don Angelo Piccinelli, suo compagno di ordinazione, e poi con don Ernesto Marciò.

Proprio don Piccinelli, insieme agli altri compagni di Messa (don Gian Battista Aresi, don Maurizio Compiani, don Angelo Ferrari, don Angelo Guerreschi Parizzi, don Martino Morstabilini, mons. Giancarlo Perego, don Giambattista Piacentini, don Samuele Riva e don Attilio Spadari) era presente sull’altare insieme a parecchi altri sacerdoti, circa una trentina.

Folta la delegazione proveniente da Spineda, dove è stato organizzato un pullman. Presente anche il primo cittadino Davide Caleffi. Una comunità che mons. Lafranconi nell’omelia ha voluto ringraziare pubblicamente per aver “accolto e amato” don Sandro, senza “mai giudicarlo e standogli vicina in tutti i passaggi della sua vita”. Lo ha detto facendo riferimento alla coincidenza della morte nell’anno giubilare della Misericordia: un “richiamo a riconoscere la misericordia di Dio per ciascuno di noi e a essere misericordiosi come il Padre”. “Don Sandro – ha detto il Vescovo – era consapevole di avere avuto tanti segni di misericordia: da Dio e dagli uomini. Ricordava sempre con affetto, nonostante i momenti di turbamento e angoscia spirituale, di sentirsi accolto. Accolto dai confratelli, dai familiari, dalla comunità cristiana di Spineda, dove ha vissuto questi ultimi anni e dove ha ripreso il gusto e il senso della sua via sacerdotale”. Un clima che il Vescovo ha voluto prendere come vero esempio per tutte le comunità parrocchiali, chiamate ad amare i propri pastori “per quello che sono e per quello che hanno ricevuto”, con un atteggiamento di affetto che sappia trasformarsi in forme di autentica collaborazione anziché intessuto da semplici pretese e sterili critiche.

Nell’omelia mons. Lafranconi ha fatto anche riferimento a una seconda coincidenza per questa morte improvvisa: il tempo di Natale. “È bello – ha affermato – ricordare che la nostra fede nel Signore Gesù ci dà anche la sicura promessa della vita eterna, che noi condividiamo già grazie all’appartenenza alla Chiesa, ma che al momento della morte risalta con pienezza per ciascuno di noi, come oggi per don Sandro”. E ancora: “Il mistero del Natale illumina la morte di ogni persona e noi, che condividiamo il passaggio di una persona cara, aiuta a ricordare che la promessa del Signore non è vana. La vita eterna la costruiamo giorno per giorno”.

Affidando don Sandro al Signore, attraverso l’intercessione di Maria, mons. Lafranconi ha espresso anche l’unione spirituale del vescovo eletto di Cremona, mons. Antonio Napolioni, “che ha voluto essere presente – ha spiegato – in comunione di preghiera e di fede con noi”.

Al termine della Messa, dopo la benedizione del feretro, si è mosso il corteo funebre verso il cimitero. Ad accompagnare don Sandro mons. Fusar Imperatore e don Marciò.

L’improvvisa scomparsa di don Fagnani è avvenuta a pochi giorni dalla morte di un altro sacerdote originario di Cassano: don Vincenzo Gatti, classe 1935, ordinato a Cremona nel 1962, ma appartenente al clero della diocesi di Milano. Licenziato in teologia e laureato in liturgia, era direttore della Fondazione Scuola Beato Angelico di Milano. Il decesso domenica 27 dicembre. Le esequie sono state celebrate la mattina di mercoledì 30 dicembre a Milano, presso il Beato Angelico e il giorno successivo a Civate al Monte, dove risiedeva da alcuni anni nella Casa del Cieco “Mons. E. Gilardi”. La salma è stata tumulata nella basilica di Civate che don Vincenzo ha curato, restaurato ed amato. Lunedì 4 gennaio Messa di suffragio nella chiesa di Cascine S. Pietro (ore 20.30).

Il testo dell’omelia di mons. Dante Lafranconi

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Nella Messa del 1° gennaio l’augurio dell’amministratore apostolico ad accogliere la misericordia per vincere l’indifferenza e conquistare la pace

La consapevolezza che la pace non è solo il frutto delle scelte dei grandi della terra, ma viene garantita nella misura in cui il tessuto sociale è capace, nella quotidianità, di rapporti pacifici. E proprio l’Anno della Misericordia potrà essere occasione per imparare dal Signore a vivere questo atteggiamento, fatto di condivisione delle sofferenze e dei disagi degli altri, disponibilità al perdono, apertura di cuore che non giudica le apparenze. È questo l’augurio per il nuovo anno fatto da mons. Lafranconi nella Messa del 1° gennaio in Cattedrale. Un augurio che non ha voluto essere di parole, anche se non sono naturalmente mancate neppure queste, con l’amministratore apostolico che si è fatto portavoce anche del saluto del suo successore, il vescovo eletto di Cremona mons. Antonio Napolioni, che proprio a fine mese farà il proprio ingresso in diocesi nel giorno in cui riceverà anche l’ordinazione episcopale.

In tanti hanno preso parte, nel pomeriggio di venerdì 1° gennaio in Cattedrale, alla Messa presieduta dall’amministratore apostolico mons. Dante Lafranconi nella solennità di Maria Madre di Dio, che come consuetudine ha coinciso anche con la Giornata mondiale della pace. “Vinci l’indifferenza e conquista la pace” il titolo scelto da Papa Francesco per l’edizione 2016.

Proprio il messaggio del Pontefice è stato lo spunto per fare gli auguri per il nuovo anno. “Da Dio – ha detto nell’omelia mons. Lafranconi – vorremmo imparare a fare dei nostri auguri non solo espressioni cordiali di benevolenza, ma vorremmo diventassero gesti concreti che ci incamminano verso ciò che forse desideriamo di più: realizzare la nostra convivenza all’insegna della fiducia, della stima e dell’affidabilità reciproca”.

Auguri che sono stati tradotti concretamente nell’Incarnazione, ha ricordato il Vescovo riferendosi alla prima lettura (Nm 6, 22-27), sottolineando poi la dignità di figlio di Dio di ogni uomo “grazie a un Dio – ha proseguito richiamando la seconda lettura (Gal 4,4-7) – che condivide la nostra vita e la nostra storia dandoci la possibilità di condividere la sua vita”.

Poi il riferimento diretto al messaggio del Papa per la Giornata della pace di quest’anno, con l’invito a “guardare all’altro non con indifferenza, ma con la stessa attenzione premurosa e cordiale con cui ci guarda Dio”.

Mons. Lafranconi ha quindi sottolineato come il successo della pace del mondo non derivi sono dalle decisioni dei grandi della terra, ma “nella misura in cui il tessuto sociale è capace, nella quotidianità, di rapporti pacifici”. “Ciascuno può fare qualcosa – ha precisato – se iniziamo nelle nostre relazioni quotidiane a vincere l’indifferenza e costruiamo quel tessuto di vita condivisa che mette in pista una possibilità di fraternità vissuta e condivisa”.

Quindi il richiamo all’Anno della Misericordia, nel quale è necessario imparare dal Signore ad avere nei confronti degli altri un atteggiamento fatto di condivisione delle sofferenze e dei disagi, disponibilità al perdono, apertura di cure che non giudica le apparenze.

Un augurio che mons. Lafranconi ha voluto porre sotto la protezione di Maria, nel giorno in cui si celebra la sua festa. “Ci aiuti la Vergine Maria all’inizio di quest’anno – ha concluso – a vivere in pienezza l’augurio di accogliere la misericordia di Dio e di essere misericordiosi tra noi, perché vincendo l’indifferenza possiamo anche noi conquistare la pace”.

La Messa, animata dal coro della Cattedrale, diretto dal maestro don Graziano Ghisolfi e con accompagnamento all’organo Mascioni del maestro Fausto Caporali, è stata concelebrata dai canonici del Capitolo della Cattedrale con il presidente mons. Giuseppe Perotti, il vicario generale mons. Mario Marchesi e il delegato episcopale per la Pastorale don Irvano Maglia. Hanno prestato servizio all’altare i diaconi permanenti Cesare Galantini ed Eliseo Galli. Presenti come ormai consuetudine i ministranti adulti della parrocchia di Casalbuttano.

Il testo dell’omelia dell’amministratore aspostolico

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