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Il Burundi e l’uccisione di tre religiose nel 2014 raccontati da Giusy Baioni

Per la prima volta invitata da un ente ecclesiastico, Giusy Baioni ha presentato il suo libro «Nel cuore dei misteri. Inchiesta sull’uccisione di tre missionarie nel Burundi delle impunità» lo scorso venerdì 10 novembre a Caravaggio. L’obiettivo della serata, promossa dall’Ufficio missionario diocesano, era quello di parlare di missionarietà come ricerca di verità e difesa dei più deboli. L’autrice, giornalista free lance, ha raccontato, prima tramite articoli pubblicati on line dal Fatto Quotidiano e poi nel suo libro, l’inchiesta da lei condotta intorno alla barbarica uccisione delle tre suore saveriane avvenuta in Burundi nel 2014. Ha partecipato alla serata anche Paolo Carini, giornalista che ha vissuto tanti anni in Burundi e in altri stati africani come missionario laico.

«Il mio lavoro – ha detto Baioni – è partito perché l’efferatezza del crimine mi ha colpito molto e le versioni ufficiali non mi convincevano. Così mi sono fatta delle domande e ho avanzato delle ipotesi che ho provato ad approfondire. Un passo alla volta emergevano delle verità sempre più sconvolgenti. Mi sono più di una volta chiesta se andare avanti. È stato pericoloso e ci ho speso degli anni, ma a un certo punto mi sono detta che dovevo fare la mia parte e la mia parte è confluita in questo libro».

Sono stati toccati diversi temi importanti, come il bisogno della ricerca della verità per liberare un popolo, quello burundese, oppresso da un sistema di potere fatto di corruzione e violenza impunita; l’importanza di dare valore alle morti di martiri ricercando sempre la giustizia, passando anche per un inquadramento della situazione politica e sociale burundese. Ampio spazio si è dato alla riflessione intorno al tema del fenomeno dei riti propiziatori che spesso hanno come vittime i bambini e le persone albine. Fenomeni moderni e in aumento esponenziale nella città, dove c’è più miseria e disagi socio economici rispetto ai villaggi.

Ha proseguito la giornalista: «Molti anni fa sono partita per i miei viaggi nel continente africano con l’idea di provare a dare il mio contributo nella ricerca della pace, ma mi sono presto scontrata con realtà incancrenite da anni. Mi sono resa conto che spesso si parte da presupposti zoppi, perché manca la base comune di un discorso basato sulla giustizia. Non posso pensare alla pace se non c’è una riconciliazione e non c’è riconciliazione se non c’è una verità condivisa».

Baioni ha poi raccontato l’iter del suo lavoro, spiegando come ha accertato la responsabilità dei mandanti, tutti i possibili moventi dell’omicidio ipotizzati e quello che, probabilmente, è la reale causa del delitto. Tutte le sue ricerche sono state possibili grazie soprattutto alla presenza di numerosi testimoni che hanno raccontato ciò che sapevano, mettendo anche a rischio la propria vita. Tra questi c’erano anche gli stessi esecutori materiali del triplice omicidio.

Il prossimo passo è la pubblicazione del libro in lingua francese, per consentirne la diffusione in Burundi e negli altri stati africani francofoni. Questo potrebbe svegliare le coscienze della popolazione e della chiesa locali. Nel frattempo, l’immenso e coraggioso lavoro di indagine è stato depositato al Tribunale speciale dell’Aja e protocollato. Alla Corte Penale Internazionale, infatti, si sta svolgendo un’indagine intorno ad alcuni crimini avvenuti nel Burundi negli anni successivi al 2014 e che potrebbero trovare nell’inchiesta di Baioni una base importante.

Legato al tema dei delitti causati da giochi di potere, si è parlato anche della morte del nunzio apostolico Michael Courtney nel 2003, primo diplomatico del vaticano ucciso della storia. «Era una persona retta» racconta la giornalista «che in Burundi aveva affrontato diversi temi scomodi, scontrandosi con chi era in quel momento in una posizione di potere».

La serata si è chiusa con una citazione del libro che racchiude il motivo per cui Giusy Baioni ha deciso di affrontare questo lavoro: «Attendo con ansia il giorno in cui le differenze non saranno più motivo di astio o paura e nemmeno di diffidenza. Attendo con ansia il giorno in cui le differenze non saranno nemmeno negate in modo artefatto o antistorico, ma semplicemente accettate e abbracciate, perché nelle differenze si cresce e ci si arricchisce».




Il 10 novembre a Caravaggio la presentazione del libro inchiesta sull’uccisione in Burundi di tre missionarie

Proseguono anche all’inizio del mese di novembre le iniziative promosse dall’Ufficio missionario diocesano in occasione dell’ottobre missionario. L’ultimo appuntamento sarà venerdì 10 novembre con la presentazione del libro inchiesta Nel cuore dei misteri. Inchiesta sull’uccisione di tre missionarie nel Burundi delle impunità scritto dalla giornalista Giusy Baioni e uscito l’anno scorso per la casa editrice All around.

Un testo che la sera del 10 novembre, presso l’auditorium del Centro di spiritualità del Santuario Caravaggio (ore 21), sarà presentato proprio dall’autrice, giornalista freelance che collabora – tra gli altri – con Famiglia Cristiana, Il Fatto Quotidiano, Il Manifesto e Io Donna e che segue da anni le vicende dell’Africa subsahariana e in particolare dell’Africa centrale, grazie anche ai numerosi viaggi in Repubblica Democratica del Congo, Rwanda, Burundi, Repubblica Centrafricana, Kenya, Sudafrica e Tunisia.

Scarica la locandina dell’evento

«In queste pagine – precisa Giusy Baioni nell’introduzione del libro – non desidero parlare solo delle vittime occidentali. Né soltanto delle vittime illustri». «Il libro nasce in Italia e da qui si dipana, con questo angolo prospettico. Ma non è e non vuole essere solo un libro per bianchi, anche se inevitabilmente parte da una prospettiva europea. Desidero ricordare tutte le persone uccise in Burundi, in una lunga, lunghissima scia di sangue». E conclude: «Questo lavoro non è guidato da altro scopo che la ricerca della verità, laddove possibile, per restituire giustizia e pace a chi non ne ha ancora avuta».

La serata al Santuario di Caravaggio sarà anticipata, nella mattinata di venerdì 10 novembre, da un incontro riservato agli studenti del liceo Vida di Cremona.

Occasioni nelle quali la giornalista avrà modo di parlare del suo libro e, soprattutto, di raccontare la storia delle tante religiose, dei tanti religiosi e dei laici che nello stato africano del Burundi sono stati uccisi e intorno alle cui morti ha indagato. Durante la presentazione serale sarà possibile acquistare una copia del libro.

Nel frattempo prosegue la possibilità di visitare la mostra itinerante dedicata a Salvador de Bahia che fino all’8 novembre è esposta proprio al Santuario di Caravaggio, dopo le tappe a Casalmaggiore e Cremona. La mostra intende raccontare la realtà di Salvador de Bahia, gemellata con la Diocesi di Cremona attraverso la presenza di un sacerdote fidei donum. Curatore è don Emilio Bellani, che nella città brasiliana ha vissuto come fidei donum per undici anni, dal 2010 al 2021, prima di passare il testimone a don Davide Ferretti. Per viste guidate o richiedere la mostra nelle parrocchie contattare l’Ufficio missionario diocesano.

 

Mostra itinerante sulla realtà di Salvador de Bahia: ultima tappa al Santuario di Caravaggio

Nella Giornata missionaria mondiale una veglia di preghiera per cuori ardenti e piedi in cammino

Missioni, Gloria Manfredini in partenza per Salvador de Bahia

 




Mostra itinerante sulla realtà di Salvador de Bahia: ultima tappa al Santuario di Caravaggio

Si potrà visitare fino all’11 ottobre presso l’oratorio di Casalmaggiore la mostra itinerante allestita per raccontare la realtà di Salvador de Bahia, gemellata con la Diocesi di Cremona attraverso la presenza di un sacerdote fidei donum. Curatore è proprio don Emilio Bellani, che nella città brasiliana ha vissuto per undici anni, dal 2010 al 2021, prima di passare il testimone a don Davide Ferretti.

«Desidero ridire a me stesso e raccontare a voi quel che ho visto. E anche quel che ho capito, anche se pochissimo rispetto alla ricchezza di una realtà tanto complessa», queste sono le parole che il sacerdote cremonese ha scritto come introduzione del volume La favela e i suoi volti che raccoglie le foto e la descrizione dei 17 pannelli della mostra. Un vero e proprio itinerario che parte da una contestualizzazione storica della favela, posta nell’estrema periferia di Salvador de Bahia. Novos Alegados, un tempo costruita su palafitte e abitata da pescatori e che oggi ospita più di 30mila persone, per lo più poverissime.

Le foto mostrano il modo di vivere dei suoi abitanti e i valori che li muovono: le feste continue che testimoniano il grande senso di comunità e il forte valore di vicinanza e aiuto reciproco; le vie che – dice don Bellani – sono «luoghi di vita dove accade di tutto» e in cui le case sono edificate con il metodo, tipico bahiano, «goccia a goccia»: «con il tempo, passo dopo passo, la casa si trasforma e cresce, perché tutta la famiglia possa essere accolta».

La sezione della mostra più significativa è dedicata alle storie di alcuni degli abitanti della favela. Come quella di una giovane madre che per il suo compleanno ha deciso di comprare diversi chili di pane e distribuirli alle famiglie più povere.

Dopo gli ultimi pannelli che raccontano la fede e la spiritualità bahiana, chiudono l’esposizione alcune poesie e alcuni canti espressione della cultura di questa realtà.

La mostra, dopo Casalmaggiore, farà tappa a Cremona, all’oratorio di Sant’Ambrogio, dal 15 al 25 ottobre e, successivamente, al Santuario di Caravaggio dal 29 ottobre all’8 novembre. Per viste guidate o richiedere la mostra nelle parrocchie contattare l’Ufficio missionario diocesano.




Suore della Beata Vergine, quando la scuola è una missione

L e realtà missionarie in territorio cremonese sono molte e tra queste gioca un ruolo di particolare significato la Congregazione delle Suore della Beata Vergine di Cremona, con la sua preziosa presenza in Sri Lanka e Kenya.

Le suore della Beata Vergine hanno una storia antica, che inizia proprio a Cremona, nel 1610, grazie all’opera della nobildonna Lucia Perrotti che, con l’aiuto del gesuita padre Giovanni Mellino, scelse di dedicare tutta la sua vita all’aiuto caritatevole dei più bisognosi intuendo quanto fosse importante lavorare per l’educazione e l’istruzione delle donne ai margini della vita sociale, per permettere loro un riscatto e una vita dignitosa. Lucia Perrotti fondò così questa realtà religiosa e culturale insieme. Oltre alla presenza a Cremona e in diverse realtà italiane, da tempo le Suore della Beata Vergine sono impegnate in missioni all’estero. Ne abbiamo parlato con madre Anna Maria Longoni, già superiora generale dell’Istituto.

Madre, il carisma delle Suore della Beata Vergine ha a cuore l’educazione: quanto è importante oggi dedicarsi ai più giovani?

«L’esperienza di madre Lucia Perotti continua a interpellare la coscienza e l’intelligenza di quanti credono nella difficile arte di accostarsi ai giovani motivandoli con certezze: un impegno difficile, ma reso possibile dall’attenzione costante che rivolgiamo ai nostri ragazzi e ai nostri giovani. L’apostolato principale al quale ci dedichiamo è infatti la scuola, portato avanti con l’entusiasmo che esce da una coscienza di fede e da una lettura attenta al mondo dei giovani. A Cremona abbiamo una scuola paritaria che accoglie i bambini della scuola primaria e secondaria di primo grado e i ragazzi che scelgono di frequentare un liceo linguistico».

Oltre a Cremona, però, siete presenti in altre città italiane.

«Sì, a Milano e a Trieste, dove abbiamo scuole dell’infanzia e primaria; e a Roma dove abbiamo una scuola dell’infanzia. Abbiamo poi case in Liguria, a Sestri Levante, e a Castione della Presolana, in provincia di Bergamo, dedicate ad attività estive e momenti di villeggiatura».

Ad un certo punto l’Italia è diventata troppo piccola…

«Nel 1950 la Congregazione si apre alle missioni, precisamente in Sri Lanka per opera di un vescovo italiano, monsignor Bernardo Regno. Nella casa di Gampola, piccola isola a sud dell’India, chiamata “la perla dell’Oceano Indiano”, si accolgono i bambini abbandonati, senza famiglia, orfani. Oggi sono un centinaio quelli affidati alle cure delle suore che vivono lì».

Ed è stato solo l’inizio…

«In Sri Lanka oggi la Congregazione è presente con nove missioni, tutte dedite all’accoglienza e all’istruzione. Qui i ragazzi possono frequentare fino alla scuola superiore e, se riescono, vengono accompagnati anche nel cammino universitario. La Missione diventa la loro famiglia e li segue ovunque. Dal 1964 siamo anche in Kenya: con gli anni anche qui siamo diventati sempre più grandi e ora siamo presenti con venti comunità e scuole attraverso le quali ci dedichiamo all’educazione».

Che cosa significa per voi oggi dedicarsi alla missione?

«In missione si fa di tutto: si fa scuola, si insegna un lavoro, si aiutano i giovani a formare una famiglia, si seguono gli ammalati e si è attenti alle varie necessità delle persone anziane, soprattutto di chi vive nelle capanne. Il messaggio di madre Lucia Perotti, la nostra fondatrice, si diffonde e opera in un’area geografica che si apre al rispetto del patrimonio culturale e dinamico di popoli diversi. Fare scuola diventa una missione apostolica, azione pastorale, occasione privilegiata di annuncio».




Suore Adoratrici a fianco dei più deboli anche in Africa e in America Latina

Le Adoratrici nella missione di Trenque Lauquen in Argentina
Da sinistra: suor Carla Zappulla, suor Philomene Fayé, Regina Crespi Alomar e suor Veronica Sanvito

 

L’istituto delle suore Adoratrici del Santissimo Sacramento, con la sua Casa madre a Rivolta d’Adda, viene fondato alla fine dell’800 da san Francesco Spinelli. In pochi anni vengono aperte comunità in tutta Italia e nel 1958 si realizza un altro desiderio di don Francesco: andare in terra di missione. Si aprono così le comunità in Congo, Sénégal, Camerun, Colombia e Argentina. Abbiamo chiesto a suor Carla Zappulla di raccontarci l’esperienza a Trenque Lauquen, città di circa 50mila abitanti a ovest di Buenos Aires dove lei è nata e dove le Adoratrici sono presenti dal 2003.

Suor Carla, di che cosa si occupano le Suore Adoratrici in Argentina?

«La nostra comunità è ben inserita nella vita parrocchiale: io coordino la pastorale della scuola parrocchiale, che parte dal nido e arriva fino alle scuole superiori. Stiamo creando un cammino di fede per tutti i 1.200 ragazzi che ci sono affidati. La cosa bella è che tutti mi danno fiducia e mi aiutano in questo difficile compito. Suor Veronica Sanvito si dedica alla Caritas e alle visite agli ammalati in ospedale; suor Philomene Fayé è al servizio di alcune comunità periferiche della nostra parrocchia. Infine ci occupiamo di una casa di spiritualità. A causa della pandemia e per mancanza di risorse in passato purtroppo era stata un po’ trascurata, ma ora con l’aiuto prezioso della gente la stiamo ristrutturando ed è tornata a vivere: le persone sono in ricerca continua di questo tipo di luoghi».

Lei è argentina ed è nata proprio a Trenque. Dopo aver trascorso gli anni della formazione in Italia, come è Una mano tesa oltre ogni confine stato tornare a casa?

«Molto bello. Da un lato c’erano paure che si sono sciolte nel tempo. Dall’altro la fiducia nel Signore che dona la grazia degli inizi. Quando siamo arrivate qui, a novembre scorso, la comunità è stata rinnovata. Il Signore non ci ha mai deluse: ci ha accompagnate sempre, anche in momenti difficili. Non era scontato riuscire a inserirci in una realtà tanto grande e complessa e vivere pienamente questo primo anno, invece ci hanno accolte da subito, si sono aperte porte e abbiamo visto la fecondità di realtà che non immaginavamo così ricche».

Parlava di paure sciolte nel tempo. Ce le può confidare?

«Un po’ di timore riguardava il rapporto con la mia famiglia d’origine: per la vita che abbiamo scelto noi consacrate non possiamo stare così vicini quotidianamente e temevo di non riuscire a mantenere il giusto equilibrio. Invece i miei familiari hanno riconosciuto il mio cammino. È l’ennesima prova che il Signore opera in tutti, anche nella mia famiglia».

Che desideri coltivate per la vostra comunità?

«La mia speranza è quella di continuare a essere in continuo dialogo con la comunità parrocchiale e che questa si allarghi sempre più. Il mio desiderio più grande è che la casa di spiritualità sia sempre più viva. Ci sono molti laici impegnati nella vita parrocchiale, ma avremo sempre più bisogno di luoghi come questo per riposarci nel Signore, pregare e incontrarlo, per poi continuare a lavorare e servire. Questo luogo può essere fecondo per tutta la zona. Penso che questa sia la chiamata del nostro tempo. Tutte noi suore qui lo crediamo».

Dove avete sperimentato la fecondità?

«Dopo i primi mesi di preparazione e preghiera intense, abbiamo accolto Regina Crespi Alomar come postulante. È la prima volta che qui accompagniamo una giovane nel primo periodo di formazione. Raccogliamo l’eredità del bene che hanno fatto le suore che c’erano prima. Regina è stata un bel regalo del Signore, che in questo modo ci rende madri».

 

Il saluto di suor Carla Zappulla




Padre Gabriele Guarnieri, saveriano in Brasile: «La missione ti cambia, fa scaturire una conversione»

Sarà padre Gabriele Guarnieri, saveriano originario della parrocchia di San Bernardo, a Cremona, da circa venticinque anni in missione in Brasile, di cui gli ultimi cinque a San Paolo, a presiedere la veglia missionaria diocesana in programma sabato 21 ottobre alle 21 in Seminario. Per alcune settimane in Italia, dopo che per sei anni non vi aveva fatto ritorno, sta incontrando amici e comunità sensibilizzando sul tema missionario tra Cremona e Parma, dove attualmente risiede presso la Casa madre dei Saveriani. Abbiamo avuto l’occasione per incontrarlo e porgli alcune domande.

Padre Gabriele, come è nata la sua vocazione?

«Da giovane sono sempre stato coinvolto nella attività della parrocchia. Sono sempre stato un giovane di Chiesa, che amava anche leggere il Vangelo e ascoltare le parole del Papa. Studiavo alle Magistrali e avevo come professore don Giosuè Regonesi, che ha un po’ incentivato il mio discernimento. Poi un ritiro vocazionale a Folgaria, nel 1981, in cui c’era come conferenziere don Maurizio Galli, allora rettore del Seminario, che mi ha fatto capire che prima della professione ci deve essere la vocazione. Da una parte don Giosuè, dall’altra don Maurizio, mi hanno fatto capire che potevo fare un discernimento più serio sulla mia vocazione. Durante l’ultimo anno delle superiori ho poi conosciuto padre Bruno, un missionario savariano. E ho fatto con lui un cammino di un anno. Sono andato e sono rimasto dentro. E sono ancora qua».

In che cosa consiste la tua attività a San Paolo?

«Io sono un padre saveriano missionario. Non sono parroco, sono animatore. Sono padre spirituale e vocazionale, quindi accompagno ragazzi e ragazze nel loro discernimento. Sono anche un padre missionario “onlife“: faccio interviste via social, videocast a tema vocazioni e missioni, in italiano e in portoghese».

Com’è lì la situazione sociale? 

«Qui in Brasile c’è un abisso tra i ricchissimi e i poverissimi: si spera che un po’ diminuisca. Ci sono 50mila omicidi e 40mila morti a causa di incidenti stradali all’anno, problemi gravissimi di droga e femminicidi. Si vivono le stesse cose ormai da anni, con la speranza che questo Governo aiuti maggiormente i più poveri e i più deboli. L’istruzione è pessima, con professori sottopagati che, per mantenersi, si trovano a dover coprire tre turni lavorativi. E sappiamo benissimo che così facendo viene poi a mancare la qualità. Solo una minoranza dei giovani brasiliani riesce a concludere le scuole superiori, anche se negli ultimi anni stanno aumentando gli iscritti alle università. Sono comunque ancora tantissimi quelli che, dopo la scuola media, vanno a lavorare o, alla peggio, finiscono nel giro della droga e della violenza».

Lei è un animatore vocazionale, come è la situazione da questo punto di vista?

«Vocazionalmente parlando, il Brasile sta andando bene nei Seminari diocesani. Stanno aumentando i sacerdoti, ma diminuiscono i religiosi, soprattutto i missionari, che fanno molta fatica e che, secondo me, in futuro si troveranno ancor più in difficoltà. Stanno anche aumentando le “nuove comunità” guidate da fondatori carismatici».

Che situazione sta vivendo attualmente l’ideale missionario?

«La Chiesa è missionaria, quindi siamo tutti missionari. Prima si parlava di missionari che vivevano totalmente per la missione: c’era molto l’idea di distacco dalla patria, con i missionari che partivano e non tornavano più a casa. Adesso, con le nuove vie di comunicazione e i trasporti veloci, è cambiato tutto: il missionario viene richiamato in patria, magari anche a parlare della sua missione. Diciamo che negli ultimi tempi si è persa questa radicalità della missione. Ma esiste un’altra differenza con il passato: nel mondo stanno crescendo moltissimo le Chiese locali. Prima il missionario era “l’eroe” che andava a rappresentare il Vangelo vivente laddove non c’erano comunità cristiane. Prima eravamo noi missionari a costruire le Chiese locali, ora ci inseriamo nelle Chiese locali, che esistono già».

Una missione, dunque, in continuo cambiamento, ma che resta una fiamma da tenere sempre viva. Ha un messaggio da lanciare alle giovani generazioni?

«Sì. Voglio dire loro che la missione ti cambia, fa scaturire una conversione. Se volete fare missione, ricordate che se è vero che è il missionario a fare la missione, allo stesso tempo è altrettanto vero che la missione fa il missionario».




Quando la missione si fa accoglienza: la storia dal Brasile di Anna e Reno Riboni

Missionarietà vuol dire accoglienza degli ultimi. Questo è il carisma della famiglia che i coniugi Anna Rossi e Reno Riboni di Cremona hanno formato quasi quarant’anni fa e che da subito si è aperta a bambini e ragazzi di ogni età, prima in Italia e dal 1998 in Brasile. Ascoltare i loro racconti apre il cuore a un modo speciale di vivere la fede e la famiglia, seguendo il solco tracciato da don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, di cui fanno parte. Un’esperienza nata nel 1968 e che oggi conta 41mila persone nel mondo.

Come è nato il desiderio di partire?

«Noi diciamo di essere stati chiamati, anche se è un’espressione che ci fa paura. Don Oreste un giorno ci disse: “Non abbiate paura: se vi sentite realizzati e felici, vuol dire che state camminando nel progetto che Dio ha su di voi”. Così abbiamo lasciato l’Italia. Per tredici anni abbiamo vissuto a Minas Gerais e poi, grazie alle suore della Sacra Famiglia di Savigliano che ci hanno donato la casa, ci siamo trasferiti a Salvador de Bahia, che è una megalopoli, quindi più pericolosa, ma che offre ai nostri ragazzi più possibilità per studiare e lavorare. E poi la presenza della Diocesi di Cremona, con don Emilio Bellani prima e don Davide Ferretti ora, è un grande aiuto».

Quanti ragazzi avete accolto in Brasile?

«Tanti, forse una cinquantina, di tutte le età: da neonati ad adulti in recupero dalla tossicodipendenza o ragazze madri. In modo stabile 15 e di questi 9 sono stati anche adottati. Il nostro scopo è accogliere questi giovani fino a che le famiglie di origine non possono tornare a occuparsene».

Avete incontrato momenti di difficoltà?

«È meglio parlare al presente! I momenti di serenità sono i più numerosi, ma come in tutte le famiglie anche qui i problemi non mancano. Tra di noi, con i nostri figli e tra di loro. Noi ora abbiamo otto tra ragazzi e ragazze che vivono insieme. Noi li educhiamo tutti allo stesso modo, ma tra di loro sono molto diversi e con un passato difficile segnato dall’abbandono. Quello che hanno vissuto e che si ricordano riaffiora quando devono affrontare un conflitto o un momento di frustrazione».

Reno, per un periodo ha vissuto con voi anche Gioconda, tua mamma, venuta dall’Italia…

«Sì, ed è stata un’esperienza bellissima. Ha vissuto qui per due anni ed è arrivata che aveva già l’Alzheimer, quindi abbiamo dovuto accudirla. È morta qui, in casa con noi. Ai nostri figli manca il contorno dei parenti fatto di zii e cugini, perciò avere qui la nonna ha permesso loro di vivere anche questa dimensione. E poi è stata una donna eccezionale, che ci ha sempre accompagnato e sostenuto nelle nostre scelte, senza far pesare ai suoi figli l’ansia di dover realizzare ciò che lei non ha potuto. Questo è un grande insegnamento per noi, come genitori e come cristiani».

Cosa vi dà la forza per andare avanti?

«Loro sono figli nostri. Non possiamo abbandonarli. Il nostro compito è far sentire loro che la famiglia è il luogo dove c’è sempre qualcuno su cui contare. Non desistiamo nei confronti di nessuno. Per noi accettare il povero vuol dire accogliere Gesù. Non possiamo lasciarli, anche se irrecuperabili, perché sono strumento della nostra conversione. Lo dice anche lo statuto della Comunità Papa Giovanni XIII. Non siamo qui per salvare qualcuno, non ne siamo in grado, ma per santificare noi stessi».

 

Il saluto di Anna e Reno




Suor Elena Serventi: «In Mozambico ho imparato la gioia dei piccoli»

Per le religiose dell’istituto delle Suore Francescane Missionarie di Susa gli anni che precedono i voti perpetui sono dedicati a esperienze che chiedono loro di vivere pienamente una vita a servizio della Chiesa nel mondo. Lo sa bene suor Elena Serventi, originaria di Cingia de’ Botti, che per nove mesi ha vissuto in Mozambico.

Suor Elena, dove ha prestato servizio?

«Il mio istituto ha in Mozambico due fraternità e io sono stata in entrambe. A Catembe, villaggio della periferia della capitale Maputo, siamo presenti da tre anni; a Morrumbene, nella diocesi di Inhambane, da 27 anni collaboriamo con la Diocesi di Brescia che ha inviato lì il sacerdote fidei donum don Pietro Marchetti Brevi».

Che tipo esperienza ha fatto?

«A Catembe è stato avviato un progetto di doposcuola per i bambini: davo il mio aiuto lì e nelle altre attività della fraternità. A Morrumbene mi sono dedicata alle attività della pastorale e svolgevo il mio servizio anche nella scuola dell’infanzia parrocchiale: mi occupavo principalmente di catechesi e accompagnamento dei giovani. Ho anche curato le adozioni a distanza: le offerte che arrivano dall’Italia sono fondamentali per l’istruzione dei bambini che non possono permettersi la retta scolastica, ma che sono particolarmente meritevoli».

Ha attraversato momenti di difficoltà?

«I mesi sono trascorsi senza ostacoli particolari. Ci sono le difficoltà quotidiane che si possono incontrare quando bisogna adattarsi a uno stile di vita completamente diverso dal proprio. Per mia fortuna, però, conoscevo già il portoghese».

Ha parlato di uno stile di vita diverso dal nostro…

«Sì, la parola chiave è essenzialità. La cosa più d’impatto che si incontra una volta arrivati è la condizione di povertà in cui versa il popolo mozambicano. Il sistema economico è fortemente arretrato e questo si ripercuote sulle condizioni di salute e sull’istruzione».

Come si è sentita di fronte alla povertà?

«Vedere un popolo che soffre e che spesso non conosce una via d’uscita è doloroso, ma non mi sono mai sentita abbattuta. Purtroppo la povertà impone dei limiti dei quali chi vive in Europa non è consapevole. Le istituzioni e la burocrazia non aiutano, anzi, spesso sono di ostacolo».

Ora che è tornata in Italia, che cosa le manca di più del Mozambico?

«Tante cose: soprattutto l’apertura, l‘allegria, la generosità e l’accoglienza che caratterizzano i più poveri. Provano sempre una grande gioia e la sanno trasmettere a chi è vicino. Penso che siano dei maestri nell’arte dell’esprimere questo modo di approcciarsi alla vita con il canto. Anche nelle celebrazioni liturgiche; le loro Messe sono una vera e propria festa, con canti, balli e strumenti musicali».

Che cosa ha imparato?

«Che la grazia di Dio si manifesta più chiara dove la potenza dell’uomo è debole e così la fede, la speranza e la carità trovano un terreno di maggiore disponibilità. L’uomo occidentale crede di poter decidere da solo di tante cose, del proprio tempo. Ma forse si sbaglia. Ho conosciuto comunità che si arrabattano per guadagnare un piatto di riso per pochi giorni, ma non perdono mai la disponibilità e l’apertura verso i fratelli e verso Dio».

 

Il saluto di suor Elena Serventi




Giornata missionaria: cuori ardenti, occhi aperti, piedi in cammino

Nel 1926 venne celebrata per la prima volta la “Giornata missionaria mondiale per la propagazione della fede”, stabilendo che ciò avvenisse ogni penultima domenica di ottobre, tradizionalmente riconosciuto come mese missionario per eccellenza. In questo giorno i fedeli di tutti i continenti sono chiamati ad aprire il loro cuore alle esigenze spirituali della missione e a impegnarsi con gesti concreti di solidarietà a sostegno di tutte le giovani Chiese. Vengono così sostenuti, con le offerte della Giornata, progetti per consolidare la Chiesa mediante l’aiuto ai catechisti, ai Seminari con la formazione del clero locale e all’assistenza socio-sanitaria dell’infanzia.

Lo splendido racconto pasquale dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) fa da cornice e da motivo ispiratore del Messaggio di Papa Francesco per la Giornata missionaria mondiale di quest’anno, giunta ormai al suo 97° anno. Cuori ardenti, occhi aperti, piedi in cammino sono tre passaggi dell’esperienza dei due discepoli con il Risorto, che il Papa evidenzia e, con la sua profonda semplicità, propone per la sempre più urgente opera di evangelizzazione.

Come Chiese locali ci siamo ripiegati troppo su noi stessi, forse ingabbiati da tante paure e timidezze e schiavi di una routine che nella pastorale ci porta a fare sempre le stesse cose: una prova di questo è il calendario pastorale che, durante il mese di agosto, molti parroci compilano, programmando iniziative ed eventi che da decenni ormai si ripetono e che hanno una sola cosa nuova: il titolo o la grafica. Francesco non perde occasione per dire a tutto il popolo di Dio che mai come in questo momento dobbiamo rilanciarci nell’opera evangelizzatrice:

Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta… Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale. In realtà, ogni autentica azione evangelizzatrice è sempre “nuova” (Evangelii Gaudium 3).

Il messaggio di quest’anno merita di essere letto e approfondito, perché contiene delle linee guida che, attinte direttamente dall’autorevolezza del Vangelo, possono rendere feconda l’opera missionaria della Chiesa.

 

Cuori ardenti per le parole spiegate da Gesù

Evangelizzare è il miracolo dei miracoli, perché ci rende figli di Dio al di là di tutti i nostri programmi. Questo brano è un modello che può essere seguito da ciascuno di noi. Prima di pronunciare qualunque parola, il testo dice che: «Gesù in persona camminava con loro». Accostare una persona e dialogare con lei è il modo normale con cui la fede cresce e si diffonde, è il segreto e la base di ogni evangelizzazione. Non servono corsi o specializzazioni in Teologia. In passato erano le nonne a far vivere ai nipoti questa esperienza. Lo ha ricordato con orgoglio Papa Francesco fin dai primi momenti del suo pontificato: «Ho ricevuto il primo annuncio cristiano da una donna: mia nonna! È bellissimo questo: il primo annuncio in casa, con la famiglia!» (Veglia di Pentecoste 2013). L’amore ricevuto dal Signore ci spinge a comunicarlo. Ogni uomo e ogni donna hanno un solo bisogno: quello di essere amati. L’evangelizzazione non è frutto di un nostro programma, ma dell’azione di Dio che, anche attraverso lo strumento o la vicenda più indegna o impensabile, entra nella storia di una persona, anche in quella più lontana, e la innamora di Gesù e della sua Parola. Ogni volta che un uomo o una donna intercetta il Vangelo, ne sente la nostalgia, il profumo, il sapore, lo vuole. Sembra quasi che nell’uomo ci sia un bisogno innato di essere evangelizzato.

Il Vangelo non lo cogliamo nell’apice delle nostre virtù. È nelle nostre lontananze, è nelle nostre perdizioni che abbiamo bisogno di qualcosa d’altro. Non va dimenticato che quel «si fermarono con il volto triste», ci ricorda che i due di Emmaus stavano vivendo un momento di sconfitta e di fallimento, dovuto alla tragedia del Venerdì Santo.

Il primo passo da fare, dunque, è avvicinarsi, accostarsi, mettersi di fianco all’altro e fare il suo stesso cammino, come Gesù risorto che, per tutto il viaggio cammina con i due discepoli anche se «i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». Un episodio simile lo troviamo nel libro degli Atti degli Apostoli (8,29), dove c’è un espressione ancora più incisiva: «Disse lo Spirito a Filippo: «Va’ avanti e incòllati a quel carro». E Filippo si mette a correre. Incòllati è un comando meraviglioso. Il primo passo dell’evangelizzazione è entrare in punta di piedi nella vita dell’altro, ascoltare la sua storia, le sue ferite e, nel momento propizio, suggerito dalla grazia, annunciargli il Signore e il suo amore. Quando uno vede l’altro disponibile ad ascoltarlo e a dialogare con lui veramente, apre il cuore, si mette in gioco fino ad arrivare a chiedergli: «Perché non ti siedi vicino a me?».

«La Chiesa sa ascoltare – disse Francesco il 4 maggio 2017 –, la Chiesa sa che in ogni cuore c’è un’inquietudine: tutti gli uomini e tutte le donne hanno un’inquietudine nel cuore, buona o brutta, ma c’è l’inquietudine. Ascolta quell’inquietudine. Bisogna ascoltare cosa sente la gente, cosa sente il cuore di questa gente, cosa pensa. E anche se pensa “cose sbagliate” occorre capire bene dove è l’inquietudine».

 

Occhi aperti nel riconoscerlo

La grande sfida, annunciata dal Vangelo, che interpella i discepoli di oggi e di tutti i tempi sta negli occhi. Dov’è il Signore? Dove lo incontro? Noi cosiddetti “fedeli”, cresciuti pensando che fosse sufficiente il rito della domenica per obbedire al comandamento “Ricordati di santificare le feste”, dobbiamo riconoscere che il posto privilegiato della presenza del Signore Risorto sono le persone. Davanti a un uomo o a una donna, cosa vedo? Quando incontro gli altri non basta guardare: bisogna saper vedere, accorgersi che l’altro, che ha la mia stessa dignità, è un tabernacolo della presenza di Dio, anche se si trova ai margini o ha intrapreso strade sbagliate, perché preda della sofferenza o di un bisogno che lo ha portato a cadere. Stupende a questo riguardo sono le parole del servo di Dio don Primo Mazzolari: «Ci sono delle chiese piene, mi dicono. Vorrei domandarvi, non abbiatene a male: E quelli che sono fuori, li abbiamo dentro, o miei cari fratelli, nella nostra ospitalità cristiana? È facile credere in un Padre che non ha figliuoli, se non noi… l’unico figliuolo! Non si può, o miei cari fratelli, entrare nella casa di tutti con il nome del Padre e lasciarne fuori uno. Anche la comunione. Tocco la balaustra: è facile, o miei cari fratelli, ricevere una presenza eucaristica dove il colloquio finisce per diventare il piccolo dialogo del nostro egoismo, sia pure spirituale; è facile guardare un’ostia, anche con un occhio di fede. Ma che tremenda responsabilità se, dopo aver aperto il nostro occhio su questa presenza eucaristica, noi non sappiamo discernere il volto del fratello. C’è qualche cosa, o miei cari, che la paternità del Padre stabilisce inequivocabilmente per me, per tutti». (Missione Milano, 19 novembre 1957).

L’animo di chi annuncia il Vangelo non si forma con degli sforzi, né tantomeno obbedendo a norme imposte da chi sta in alto o da una ricerca intellettuale, ma quando uno inizia a vedere. Ogni volta che un cristiano e ancor di più un pastore accosta una persona deve chiedersi: cosa vedo? chi ho davanti? Se in quella persona riconosco il Cristo cambia tutto. In qualunque persona, anche in quella più lontana o apparentemente perduta. Una persona non è mai il suo errore, ma il risultato di una storia che lo ha portato a compiere questo errore. Sempre don Mazzolari, aggiunge: «Vedere è un dovere, il primo dovere. L’amore è occhi aperti».

Oggi, in un contesto dove da tempo “Dio è morto” ed è giunta “l’ora della morte del prossimo”, la Chiesa dovrebbe ricordare con forza che il dogma proclamato direttamente dal Vangelo è quello della presenza reale di Gesù nel prossimo. Che Gesù sia presente nell’Eucaristia è una verità di fede ormai maturata dal popolo cristiano. Ma che Gesù sia realmente presente nelle persone, specialmente in quelle più fragili e deboli, non è ancora una verità recepita e maturata da tutti.

Il Papa, nell’omelia per la festa del Corpus Domini, ad Ostia nel 2018, è stato chiaro: «Quante persone sono prive di un posto dignitoso per vivere e del cibo da mangiare! Ma tutti conosciamo delle persone sole, sofferenti, bisognose: sono tabernacoli abbandonati. Noi, che riceviamo da Gesù vitto e alloggio, siamo qui per preparare un posto e un cibo a questi fratelli più deboli. Egli si è fatto pane spezzato per noi; chiede a noi di donarci agli altri, di non vivere più per noi stessi, ma l’uno per l’altro. Così si vive eucaristicamente: riversando nel mondo l’amore che attingiamo dalla carne del Signore. L’Eucaristia nella vita si traduce passando dall’io al tu. Al termine della Messa, saremo anche noi in uscita. Cammineremo con Gesù, che percorrerà le strade di questa città. Egli desidera abitare in mezzo a voi. Vuole visitare le situazioni, entrare nelle case, offrire la sua misericordia liberatrice, benedire, consolare. Avete provato situazioni dolorose; il Signore vuole esservi vicino».

 

Piedi in cammino

Quando veniamo a conoscenza di una notizia stupenda non vediamo l’ora di raccontarla a qualcun altro, di condividerla e trasmettere a chi amiamo la stessa gioia che batte nel nostro cuore. Potrà sembrare un esempio banale, che toglie sacralità ai pensieri precedenti, ma lo trovo capace di esprimere tutta la forza di questi piedi in cammino, dopo aver riconosciuto la presenza del Signore. Da piccolo abitavo in una cascina. Come tutti i bambini avevo una predilezione per gli animali. Non dimenticherò mai la prima volta in cui ho visto con i miei occhi lo schiudersi delle uova, sotto una chioccia che stava covando. Avrò avuto sei anni. Era la settimana dell’Ottava di Pasqua. L’emozione provata nel cuore nel vedere questi pulcini la sento ancora dopo quarant’anni. Il primo pensiero? Quello di dover raccontare a qualcuno la cosa. Quella mattina a casa non c’era nessuno. Allora – contro tutti i divieti dei miei genitori – sono uscito e son passato da un negozio all’altro per cercare la mamma e annunciarle ciò di cui ero stato spettatore. Ecco il motore dell’evangelizzazione. Ecco ciò che da cristiani sedentari ci rende capaci di andare, coinvolgere, contagiare: la gioia di aver visto e vissuto un’esperienza che rende bella la vita.

È l’esperienza che fanno suor Carla, suor Veronica e suor Philomène, dell’Istituto delle suore Adoratrici di Rivolta D’Adda, quando dalla loro città di residenza, in Argentina, partono per i villaggi poveri della Patagonia e, insieme a un gruppo di giovani, visitano villaggi sperduti e condividono con la povera gente le pagine dure e piene di speranza del Vangelo.

È quanto vivono don Davide Ferretti, fidei donum della Diocesi di Cremona, e don Andrea Perego di Milano in una favela poverissima e violenta di Salvador de Bahia, in Brasile, visitando ogni mattina una o due famiglie della sua parrocchia, portando, insieme alla cesta basica, un sorriso e un messaggio di bontà o di riconciliazione.

È il quotidiano vissuto dal missionario saveriano padre Andrea Facchetti, originario di Viadana, che da diversi anni opera a Chemba, sulle rive dello Zambesi, in Mozambico: mentre fa scuola ai ragazzi o insegna un lavoro agli adulti non perde occasione per annunciare che il Vangelo ha il potere di cambiare la vita delle persone e, più di qualunque altro messaggio, è capace di dare all’uomo la sua vera dignità.

È la storia di Anna e Reno, coppia di sposi di Cremona, dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, che, da trent’anni, in Brasile, prima ad Araçuaì e ora a Salvador de Bahia, gestendo una casa famiglia con l’unico scopo di “seguire Gesù condividendo la vita degli ultimi”, hanno donato a decine e decine di bambini e ragazzi abbandonati un po’ dell’amore che ricevono ogni giorno dalla loro fede.

In mezzo a tanta confusione, immersi in un vortice che ha investito tutto rubandoci gli elementi fondamentali per vivere serenamente, non possiamo abbandonare la speranza e soprattutto – come Chiesa – perderci dietro quisquiglie liturgiche o pastorali di poco conto.

Illuminanti al riguardo sono ancora le parole di quel profeta che fu don Primo Mazzolari, in un suo libro commento all’episodio dei discepoli di Emmaus, scritto nel 1941, Tempo di credere: “Come sarebbe buono un apostolato che, invece di preoccuparsi delle cause per cui tanta gente non crede, provvedesse a far vivere la propria fede in chi non ha la grazia di viverla”.

Si, bisogna tornare a far vivere la fede e questo lo potranno fare solo cuori umili che messo da parte il proprio io o i propri interessi, abbracceranno senza giudizio le persone ferite dalle fragilità e dagli errori della vita, e doneranno loro l’unica persona veramente necessaria oggi: il Signore Gesù.

 

don Umberto Zanaboni
incaricato diocesano Pastorale missionaria
e vicepostulatore Causa di beatificazione don Primo Mazzolari




“Cuori ardenti, piedi in cammino”: sabato sera alle 21 in Seminario la veglia missionaria diocesana

Alla vigilia della Giornata missionaria mondiale, la Chiesa cremonese è invita a vivere un momento comunitario di preghiera e riflessione. “Cuori ardenti, piedi in cammino”, slogan della Giornata missionaria di quest’anno, giunta alla sua 97esima edizione, è anche il titolo della veglia diocesana in programma nella serata di sabato 21 ottobre, alle 21, presso il Seminario vescovile di via Milano 5, a Cremona.

A presiedere la veglia sarà il saveriano padre Gabriele Guarnieri, originario di Cremona, missionario nel Brasile del sud. La serata sarà sviluppata in tre momenti, caratterizzati da altrettante immagini – “occhi aperti”, “cuori ardenti” e “piedi in cammino” – e avrà come sfondo il messaggio che Papa Francesco ha affidato alla Chiesa in occasione della Giornata missionaria mondiale del 22 ottobre 2023. Il Santo Padre prende spunto dal racconto evangelico dei discepoli di Emmaus per ricordare che per quei discepoli prima delusi e confusi «l’incontro con Cristo nella Parola e nel Pane spezzato accese l’entusiasmo per rimettersi in cammino verso Gerusalemme e annunciare che il Signore era veramente risorto».

Interverranno durante la veglia anche alcune delle famiglie che lo scorso luglio hanno ospitato in diocesi i giovani di Salvador de Bahia, venuti a Cremona prima di partecipare alla Gmg di Lisbona.

Durante la serata, la Diocesi avrà inoltre l’occasione di salutare Gloria Manfredini, che partirà nuovamente come missionaria laica per la parrocchia di Gesù Cristo Risorto, dove il cremonese don Davide Ferretti è sacerdote fidei donum dal 2019. Sarà infatti questa un’occasione per ricordare, oltre al sacerdote cremonese, anche don Andrea Perego di Milano che vive a Salvador de Bahia con don Ferretti e per implorare per la pace in Terra Santa, in Ucraina e nel mondo intero.

«La veglia missionaria, così come la Giornata missionaria, a livello ecclesiale ha un’importanza straordinaria – dice don Umberto Zanaboni, responsabile dell’Ufficio missionario diocesano – perché ci ricorda che siamo discepoli del Signore: il suo Vangelo ha reso bella la nostra vita e di conseguenza sentiamo il bisogno di condividere con gli altri la gioia che abbiamo incontrato».

Diversi sono le iniziative che l’Ufficio missionario diocesano ha organizzato in occasione del mese missionario.

Continua a essere visitabile la mostra sulla storia e la vita di Salvador de Bahia ideata da don Emilio Bellani, sacerdote cremonese che per undici anni è state missionario nella città brasiliana: dopo Casalmaggiore, dal 15 al 25 ottobre sarà allestita a Cremona presso l’oratorio di S. Ambrogio; e il 29 ottobre si sposterà al Santuario del Sacro Fonte di Caravaggio, dove resterà esposta fino all’8 novembre.

Proprio il santuario di Caravaggio ospiterà l’incontro con Giusy Baioni, giornalista e autrice del libro Nel cuore dei misteri. Inchiesta sull’uccisione di tre missionarie nel Burundi delle impunità, che sarà presentato il 10 novembre alle 21 presso l’auditorium del Centro di spiritualità del Santuario.

 

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Mostra itinerante sulla realtà di Salvador de Bahia: ultima tappa al Santuario di Caravaggio