Nel 1926 venne celebrata per la prima volta la “Giornata missionaria mondiale per la propagazione della fede”, stabilendo che ciò avvenisse ogni penultima domenica di ottobre, tradizionalmente riconosciuto come mese missionario per eccellenza. In questo giorno i fedeli di tutti i continenti sono chiamati ad aprire il loro cuore alle esigenze spirituali della missione e a impegnarsi con gesti concreti di solidarietà a sostegno di tutte le giovani Chiese. Vengono così sostenuti, con le offerte della Giornata, progetti per consolidare la Chiesa mediante l’aiuto ai catechisti, ai Seminari con la formazione del clero locale e all’assistenza socio-sanitaria dell’infanzia.
Lo splendido racconto pasquale dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) fa da cornice e da motivo ispiratore del Messaggio di Papa Francesco per la Giornata missionaria mondiale di quest’anno, giunta ormai al suo 97° anno. Cuori ardenti, occhi aperti, piedi in cammino sono tre passaggi dell’esperienza dei due discepoli con il Risorto, che il Papa evidenzia e, con la sua profonda semplicità, propone per la sempre più urgente opera di evangelizzazione.
Come Chiese locali ci siamo ripiegati troppo su noi stessi, forse ingabbiati da tante paure e timidezze e schiavi di una routine che nella pastorale ci porta a fare sempre le stesse cose: una prova di questo è il calendario pastorale che, durante il mese di agosto, molti parroci compilano, programmando iniziative ed eventi che da decenni ormai si ripetono e che hanno una sola cosa nuova: il titolo o la grafica. Francesco non perde occasione per dire a tutto il popolo di Dio che mai come in questo momento dobbiamo rilanciarci nell’opera evangelizzatrice:
Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta… Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale. In realtà, ogni autentica azione evangelizzatrice è sempre “nuova” (Evangelii Gaudium 3).
Il messaggio di quest’anno merita di essere letto e approfondito, perché contiene delle linee guida che, attinte direttamente dall’autorevolezza del Vangelo, possono rendere feconda l’opera missionaria della Chiesa.
Cuori ardenti per le parole spiegate da Gesù
Evangelizzare è il miracolo dei miracoli, perché ci rende figli di Dio al di là di tutti i nostri programmi. Questo brano è un modello che può essere seguito da ciascuno di noi. Prima di pronunciare qualunque parola, il testo dice che: «Gesù in persona camminava con loro». Accostare una persona e dialogare con lei è il modo normale con cui la fede cresce e si diffonde, è il segreto e la base di ogni evangelizzazione. Non servono corsi o specializzazioni in Teologia. In passato erano le nonne a far vivere ai nipoti questa esperienza. Lo ha ricordato con orgoglio Papa Francesco fin dai primi momenti del suo pontificato: «Ho ricevuto il primo annuncio cristiano da una donna: mia nonna! È bellissimo questo: il primo annuncio in casa, con la famiglia!» (Veglia di Pentecoste 2013). L’amore ricevuto dal Signore ci spinge a comunicarlo. Ogni uomo e ogni donna hanno un solo bisogno: quello di essere amati. L’evangelizzazione non è frutto di un nostro programma, ma dell’azione di Dio che, anche attraverso lo strumento o la vicenda più indegna o impensabile, entra nella storia di una persona, anche in quella più lontana, e la innamora di Gesù e della sua Parola. Ogni volta che un uomo o una donna intercetta il Vangelo, ne sente la nostalgia, il profumo, il sapore, lo vuole. Sembra quasi che nell’uomo ci sia un bisogno innato di essere evangelizzato.
Il Vangelo non lo cogliamo nell’apice delle nostre virtù. È nelle nostre lontananze, è nelle nostre perdizioni che abbiamo bisogno di qualcosa d’altro. Non va dimenticato che quel «si fermarono con il volto triste», ci ricorda che i due di Emmaus stavano vivendo un momento di sconfitta e di fallimento, dovuto alla tragedia del Venerdì Santo.
Il primo passo da fare, dunque, è avvicinarsi, accostarsi, mettersi di fianco all’altro e fare il suo stesso cammino, come Gesù risorto che, per tutto il viaggio cammina con i due discepoli anche se «i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». Un episodio simile lo troviamo nel libro degli Atti degli Apostoli (8,29), dove c’è un espressione ancora più incisiva: «Disse lo Spirito a Filippo: «Va’ avanti e incòllati a quel carro». E Filippo si mette a correre. Incòllati è un comando meraviglioso. Il primo passo dell’evangelizzazione è entrare in punta di piedi nella vita dell’altro, ascoltare la sua storia, le sue ferite e, nel momento propizio, suggerito dalla grazia, annunciargli il Signore e il suo amore. Quando uno vede l’altro disponibile ad ascoltarlo e a dialogare con lui veramente, apre il cuore, si mette in gioco fino ad arrivare a chiedergli: «Perché non ti siedi vicino a me?».
«La Chiesa sa ascoltare – disse Francesco il 4 maggio 2017 –, la Chiesa sa che in ogni cuore c’è un’inquietudine: tutti gli uomini e tutte le donne hanno un’inquietudine nel cuore, buona o brutta, ma c’è l’inquietudine. Ascolta quell’inquietudine. Bisogna ascoltare cosa sente la gente, cosa sente il cuore di questa gente, cosa pensa. E anche se pensa “cose sbagliate” occorre capire bene dove è l’inquietudine».
Occhi aperti nel riconoscerlo
La grande sfida, annunciata dal Vangelo, che interpella i discepoli di oggi e di tutti i tempi sta negli occhi. Dov’è il Signore? Dove lo incontro? Noi cosiddetti “fedeli”, cresciuti pensando che fosse sufficiente il rito della domenica per obbedire al comandamento “Ricordati di santificare le feste”, dobbiamo riconoscere che il posto privilegiato della presenza del Signore Risorto sono le persone. Davanti a un uomo o a una donna, cosa vedo? Quando incontro gli altri non basta guardare: bisogna saper vedere, accorgersi che l’altro, che ha la mia stessa dignità, è un tabernacolo della presenza di Dio, anche se si trova ai margini o ha intrapreso strade sbagliate, perché preda della sofferenza o di un bisogno che lo ha portato a cadere. Stupende a questo riguardo sono le parole del servo di Dio don Primo Mazzolari: «Ci sono delle chiese piene, mi dicono. Vorrei domandarvi, non abbiatene a male: E quelli che sono fuori, li abbiamo dentro, o miei cari fratelli, nella nostra ospitalità cristiana? È facile credere in un Padre che non ha figliuoli, se non noi… l’unico figliuolo! Non si può, o miei cari fratelli, entrare nella casa di tutti con il nome del Padre e lasciarne fuori uno. Anche la comunione. Tocco la balaustra: è facile, o miei cari fratelli, ricevere una presenza eucaristica dove il colloquio finisce per diventare il piccolo dialogo del nostro egoismo, sia pure spirituale; è facile guardare un’ostia, anche con un occhio di fede. Ma che tremenda responsabilità se, dopo aver aperto il nostro occhio su questa presenza eucaristica, noi non sappiamo discernere il volto del fratello. C’è qualche cosa, o miei cari, che la paternità del Padre stabilisce inequivocabilmente per me, per tutti». (Missione Milano, 19 novembre 1957).
L’animo di chi annuncia il Vangelo non si forma con degli sforzi, né tantomeno obbedendo a norme imposte da chi sta in alto o da una ricerca intellettuale, ma quando uno inizia a vedere. Ogni volta che un cristiano e ancor di più un pastore accosta una persona deve chiedersi: cosa vedo? chi ho davanti? Se in quella persona riconosco il Cristo cambia tutto. In qualunque persona, anche in quella più lontana o apparentemente perduta. Una persona non è mai il suo errore, ma il risultato di una storia che lo ha portato a compiere questo errore. Sempre don Mazzolari, aggiunge: «Vedere è un dovere, il primo dovere. L’amore è occhi aperti».
Oggi, in un contesto dove da tempo “Dio è morto” ed è giunta “l’ora della morte del prossimo”, la Chiesa dovrebbe ricordare con forza che il dogma proclamato direttamente dal Vangelo è quello della presenza reale di Gesù nel prossimo. Che Gesù sia presente nell’Eucaristia è una verità di fede ormai maturata dal popolo cristiano. Ma che Gesù sia realmente presente nelle persone, specialmente in quelle più fragili e deboli, non è ancora una verità recepita e maturata da tutti.
Il Papa, nell’omelia per la festa del Corpus Domini, ad Ostia nel 2018, è stato chiaro: «Quante persone sono prive di un posto dignitoso per vivere e del cibo da mangiare! Ma tutti conosciamo delle persone sole, sofferenti, bisognose: sono tabernacoli abbandonati. Noi, che riceviamo da Gesù vitto e alloggio, siamo qui per preparare un posto e un cibo a questi fratelli più deboli. Egli si è fatto pane spezzato per noi; chiede a noi di donarci agli altri, di non vivere più per noi stessi, ma l’uno per l’altro. Così si vive eucaristicamente: riversando nel mondo l’amore che attingiamo dalla carne del Signore. L’Eucaristia nella vita si traduce passando dall’io al tu. Al termine della Messa, saremo anche noi in uscita. Cammineremo con Gesù, che percorrerà le strade di questa città. Egli desidera abitare in mezzo a voi. Vuole visitare le situazioni, entrare nelle case, offrire la sua misericordia liberatrice, benedire, consolare. Avete provato situazioni dolorose; il Signore vuole esservi vicino».
Piedi in cammino
Quando veniamo a conoscenza di una notizia stupenda non vediamo l’ora di raccontarla a qualcun altro, di condividerla e trasmettere a chi amiamo la stessa gioia che batte nel nostro cuore. Potrà sembrare un esempio banale, che toglie sacralità ai pensieri precedenti, ma lo trovo capace di esprimere tutta la forza di questi piedi in cammino, dopo aver riconosciuto la presenza del Signore. Da piccolo abitavo in una cascina. Come tutti i bambini avevo una predilezione per gli animali. Non dimenticherò mai la prima volta in cui ho visto con i miei occhi lo schiudersi delle uova, sotto una chioccia che stava covando. Avrò avuto sei anni. Era la settimana dell’Ottava di Pasqua. L’emozione provata nel cuore nel vedere questi pulcini la sento ancora dopo quarant’anni. Il primo pensiero? Quello di dover raccontare a qualcuno la cosa. Quella mattina a casa non c’era nessuno. Allora – contro tutti i divieti dei miei genitori – sono uscito e son passato da un negozio all’altro per cercare la mamma e annunciarle ciò di cui ero stato spettatore. Ecco il motore dell’evangelizzazione. Ecco ciò che da cristiani sedentari ci rende capaci di andare, coinvolgere, contagiare: la gioia di aver visto e vissuto un’esperienza che rende bella la vita.
È l’esperienza che fanno suor Carla, suor Veronica e suor Philomène, dell’Istituto delle suore Adoratrici di Rivolta D’Adda, quando dalla loro città di residenza, in Argentina, partono per i villaggi poveri della Patagonia e, insieme a un gruppo di giovani, visitano villaggi sperduti e condividono con la povera gente le pagine dure e piene di speranza del Vangelo.
È quanto vivono don Davide Ferretti, fidei donum della Diocesi di Cremona, e don Andrea Perego di Milano in una favela poverissima e violenta di Salvador de Bahia, in Brasile, visitando ogni mattina una o due famiglie della sua parrocchia, portando, insieme alla cesta basica, un sorriso e un messaggio di bontà o di riconciliazione.
È il quotidiano vissuto dal missionario saveriano padre Andrea Facchetti, originario di Viadana, che da diversi anni opera a Chemba, sulle rive dello Zambesi, in Mozambico: mentre fa scuola ai ragazzi o insegna un lavoro agli adulti non perde occasione per annunciare che il Vangelo ha il potere di cambiare la vita delle persone e, più di qualunque altro messaggio, è capace di dare all’uomo la sua vera dignità.
È la storia di Anna e Reno, coppia di sposi di Cremona, dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, che, da trent’anni, in Brasile, prima ad Araçuaì e ora a Salvador de Bahia, gestendo una casa famiglia con l’unico scopo di “seguire Gesù condividendo la vita degli ultimi”, hanno donato a decine e decine di bambini e ragazzi abbandonati un po’ dell’amore che ricevono ogni giorno dalla loro fede.
In mezzo a tanta confusione, immersi in un vortice che ha investito tutto rubandoci gli elementi fondamentali per vivere serenamente, non possiamo abbandonare la speranza e soprattutto – come Chiesa – perderci dietro quisquiglie liturgiche o pastorali di poco conto.
Illuminanti al riguardo sono ancora le parole di quel profeta che fu don Primo Mazzolari, in un suo libro commento all’episodio dei discepoli di Emmaus, scritto nel 1941, Tempo di credere: “Come sarebbe buono un apostolato che, invece di preoccuparsi delle cause per cui tanta gente non crede, provvedesse a far vivere la propria fede in chi non ha la grazia di viverla”.
Si, bisogna tornare a far vivere la fede e questo lo potranno fare solo cuori umili che messo da parte il proprio io o i propri interessi, abbracceranno senza giudizio le persone ferite dalle fragilità e dagli errori della vita, e doneranno loro l’unica persona veramente necessaria oggi: il Signore Gesù.
don Umberto Zanaboni
incaricato diocesano Pastorale missionaria
e vicepostulatore Causa di beatificazione don Primo Mazzolari