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Giornata mondiale del turismo, intervista a don Roberto Rota

“La 41esima Giornata mondiale del turismo ricorre quest’anno nel contesto incerto segnato dagli sviluppi della pandemia COVID-19, di cui ancora non si vede la fine. Ne deriva una drastica riduzione della mobilità umana e del turismo, sia internazionale che nazionale, collocandosi ai minimi storici”. Inizia così il messaggio che il Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, il cardinale Peter Turkson, ha inviato in occasione della GMT, che si celebra ogni anno il 27 settembre.

A causa della pandemia, si legge, la situazione è tragica: “La sospensione dei voli internazionali, la chiusura degli aeroporti e dei confini, l’adozione delle severe restrizioni ai viaggi, anche interni, sta causando una crisi senza precedenti in molti settori connessi all’industria turistica, con una perdita enorme di posti di lavoro nell’intero settore turistico”.

Non solo il turismo vacanziero, ma anche quello religioso ha subito un’inflessione drammatica. Ce lo racconta don Roberto Rota, presidente dell’agenzia ProfiloTours legata alla Diocesi e incaricato diocesano per la Pastorale del turismo e tempo libero.

don Roberto Rota

«Viviamo un momento storico complesso, che ci sfida e ci impone di immaginare un nuovo modo di concepire il turismo. In questo momento è impossibile pensare di organizzare lunghi viaggi di gruppo con voli internazionali: sono troppe le incognite. Bisognerà forse puntare a un turismo di breve gittata, che rispetti le dinamiche ambientali e che si attenga a quella dimensione di fraternità tanto cara a Papa Francesco. Il 4 ottobre prossimo il Santo Padre  firmerà  l’enciclica “Fratelli tutti” e questo è da tenere presente in una dimensione di turismo nuovo».

Non nasconde le difficoltà, don Rota: «Ci siamo trovati impreparati, e non solo per le limitazioni attuali. Non riusciamo ad immaginare il turismo del futuro. Oggi vediamo il crollo delle prenotazioni nelle agenzie, i voli aerei vuoti. Senza contare che per le guide turistiche e le agenzie dei Paesi di accoglienza, le cose si sono fatte in alcuni casi tragiche. Penso alla Terra Santa, dove i lockdown ancora in vigore hanno di fatto bloccato tutti i pellegrinaggi. Per noi andare in Terra Santa ha certamente un valore spirituale enorme, ma è innegabile che i pellegrinaggi fossero un sostegno concreto alle comunità cristiane che vivono tra Israele e Palestina. Ora che è tutto fermo, la situazione è peggiorata drasticamente. Lo stesso vale per luoghi come Lourdes, dove ad oggi è garantito solo l’accesso ai singoli e non ai gruppi».

Per il sacerdote è tempo di avviare una riflessione seria, sia sul lavoro dell’agenzia diocesana ProfiloTour (che traslocherà temporaneamente al primo piano del Palazzo Vescovile in attesa di una definitiva collocazione nel contesto del nuovo museo diocesano) che oggi è in grossa difficoltà, sia sul turismo religioso in generale. «Le nostre parrocchie, le associazioni… ritengono ancora importante usufruire di questo servizio o è stato superato? Io vedo che questo strumento diocesano oggi è in affanno, come lo sono tutte le agenzie turistiche del resto. È ancora utile? Lo trasformiamo in qualcos’altro? Bisognerà pensare a qualcosa di innovativo e credo sia importante che a livello ecclesiale si ragioni su questo, anche se non ho trovato gran condivisione finora».

Don Rota però non è scoraggiato, anzi. E invita a fare nostre le bellissime parole del Messaggio del cardinal Turkson. “E’ vero, siamo di fronte a uno scenario inquietante” – si legge nel testo – ma questo “non deve paralizzarci e privarci di una visione positiva del futuro” perché, come ha detto Papa Francesco, il dramma peggiore di questa crisi sarebbe quello di sprecarla.




Sacra Famiglia, giochi, musica e preghiera per i bimbi di quinta e i ragazzi di terza media

Cinque anni insieme sui banchi. Cinque anni di studio, gioco, lezioni, dialoghi, musica  non potevano certo chiudersi con un breve messaggio su whatsapp o un veloce saluto via zoom. Anche per questo i bambini delle classi quinte della scuola primaria “Sacra Famiglia” di Cremona hanno voluto ritrovarsi insieme – in due momenti distinti e nel rispetto delle norme – per salutarsi prima della grande avventura che li porterà alle scuole medie.

L’appuntamento- negli spazi verdi della città, Porta Mosa e Colonie Padane, è stato un’occasione per i bambini, le famiglie e gli insegnanti di guardarsi in faccia (“in presenza” come ci si è abituati a dire durante il lockdown).

Saluti, giochi, scherzi e anche una piccola esibizione canora hanno fatto da contorno a questo “arrivederci” pieno di gratitudine per il percorso fatto insieme. «I bambini hanno cantato insieme, a cappella, la canzone scritta durante le restrizioni e registrata in video. Finalmente l’abbiamo ascoltata dal vivo ed è stato commovente», raccontano le maestre.

Proprio le insegnanti hanno voluto salutare i loro allievi consegnando a ciascuno il diploma di scuola elementare e il classico cappello da laurea, lanciato poi nel cielo. “Verso l’infinito e oltre”, come recita la frase scelta all’inizio di questo anno scolastico dall’Istituto di via XI Febbraio e che ha segnato, e continuerà a farlo, il percorso dei ragazzi.

Anche gli alunni di terza media – sempre in contatto tra loro durante la quarantena – hanno  voluto incontrarsi di persona, dopo gli esami, presso la bellissima Cascina Farisengo di Bonemerse.

«E’ stato bello potersi rivedere tutti insieme», racconta Giovanni Grandi, docente della secondaria della “Sacra”. «Don Michele Rocchetti – che è anche il professore di religione – ha celebrato la messa, poi abbiamo cantato insieme e fatto qualche ballo sull’aia. Ai ragazzi abbiamo consegnato come saluto un breve scritto con le parole che concludono il video realizzato per la fine dell’anno, spiega il professore.

Parole che recitano: “Quest’anno la fine non c’è. Non c’è l’ultima gita, l’ultimo giorno di scuola, l’ultima campanella… Improvvisamente ci siamo dovuti staccare l’uno dall’altro. Ci siamo scoperti fragili e feriti, abbiamo pianto i nostri amici e i nostri nonni. Abbiamo scoperto quanto è meraviglioso ciò che davamo per scontato. E ora ci ritroviamo più uniti che mai. Tutte le altre classi hanno avuto una fine. La nostra no. Questa classe è infinita. Siamo andati oltre, oltre gli ostacoli, oltre la distanza. Oltre la nostra immaginazione. In noi non c’è fine. C’è l’infinito”.




La testimonianza dei sanitari accolti nelle strutture diocesane durante l’emergenza covid: «Così la carità di Cremona ci ha dato una casa»

Papa Francesco ha voluto esprimere il grazie proprio e quello dell’intera comunità ecclesiale a quegli operatori sanitari e socio-sanitari che durante l’emergenza sanitaria hanno dimostrato di essere “artigiani della cultura della prossimità e della tenerezza”: medici, infermieri, operatori impegnati in diverso modo nell’ambito sanitario, ma anche sacerdoti e volontari [Leggi il resoconto dell’udienza]. Un riconoscimento che anche la Diocesi di Cremona ha voluto da subito esprimere anche in un modo molto concreto: l’ospitalità, nelle proprie strutture, di medici e infermieri giunti sul territorio da altre zone d’Italia o che non potevano rientrare nelle loro abitazioni per scongiurare il contagio nei confronti dei loro familiari.

È stato così a Cremona presso Casa dell’Accoglienza, per gli uomini, e a Casa di Nostra Signora, per le donne; così come a Caravaggio presso il Centro di spiritualità del Santuario. Tra loro Gabriele e Andrea: toscano l’uno e bergamasco l’altro, accorsi a Cremona per dare una mano e ospitati in alcune strutture della diocesi, messe a disposizione proprio per questo scopo.

«Potrei raccontare molte cose di questa esperienza, ma posso solo partire da una gratitudine per come Cremona mi ha accolto», racconta Gabriele Tinti, giovane infermiere di Arezzo. «Scaraventato nel pieno della crisi, mi sono trovato a dover decidere dove passare le poche ore che avevo tra un turno e l’altro. C’era posto nella foresteria dell’ospedale oppure presso la Casa dell’accoglienza della Caritas. Non ho avuto esitazioni: cercavo un posto dove poter “staccare” e che potesse aiutarmi umanamente a rimanere vivo. Così ho incontrato don Pier e tutti gli ospiti della struttura». Racconta di settimane difficili, dove la paura di questo virus sconosciuto impediva i contatti umani. «Anche tra noi colleghi, eravamo in nove a dormire presso la Casa dell’Accoglienza, all’inizio non è stato scontato confrontarci per paura del contagio. Pian piano siamo però entrati in relazione con tutti: tra noi, con i sacerdoti e i volontari, con gli immigrati o le persone in difficoltà. Umanamente era una boccata d’aria fresca». Il lavoro – spiega – non è mai stato così intenso, eppure in qualche modo quei tre mesi gli hanno restituito con chiarezza il fatto che il mestiere d’infermiere è una vocazione, un compito. «Anche in ospedale abbiamo riscoperto il valore di quel che facciamo. Penso a tanti colleghi che avrebbero potuto prendersela con noi “arrivati da fuori”, noi a cui erano state accordate condizioni economiche migliori rispetto a loro e invece no. Ci hanno accolti facendoci esprimere professionalmente al massimo, in una gara di umanità e solidarietà che ricorderò per tutta la vita».

Anche il dottor Andrea Cometti, specializzando di chirurgia generale, si trovava a Cremona da novembre. «Vivevo in un b&b, avrei dovuto rimanere per poco tempo. Poi è arrivato il covid e tutti ci siamo trasformati in medici di medicina interna: gli pneumologici ci hanno insegnato come affrontare queste polmoniti interstiziali laterali. Ogni giorno era una triste routine fatta di ventilazioni forzate, prelievi, pazienti in terapia intensiva. A volte il malumore o le lamentele tra noi prendevano il sopravvento e mi pesava passare perfino le ore di riposo sdraiato su una brandina in ospedale. Il viceprimario, mosso a pietà, mi ha dato il numero di don Pier Codazzi dicendomi che forse avrebbe potuto aiutarmi a trovare una sistemazione. E così è stato. È stata la mia salvezza: un posto in un centro d’accoglienza a San Savino. Per me quel luogo è diventata una seconda famiglia, un luogo dove tornare e sentirmi in pace in un momento in cui – lontano da casa e con i genitori entrambi malati di covid – davo tutto e in ospedale non si parlava d’altro che di morti, letti o ventilatori mancanti, parenti da avvisare. La casa di San Savino è stata una carezza. Una seconda famiglia che, lo ripeto, non dimenticherò».

 

“Io avrò cura di te”, già diversi gli operatori sanitari accolti nelle strutture diocesane: le storie e le testimonianze

Il Papa: tanti gli eroi nella pandemia, ripartiamo da un’umanità che scalda il cuore (VIDEO e FOTO)




Una ripresa attesa, ma graduale: «Continuiamo a tutelare la salute di tutti i parrocchiani»»

Anche le parrocchie della zona pastorale 4 si stanno riorganizzando per la riapertura, attesissima, delle celebrazioni liturgiche. In questi mesi i parroci della zona hanno sempre mantenuto un contatto tra loro e anche con il vescovo, grazie a video-conferenze e telefonate e ora – in pieno accordo con le disposizioni governative e seguendo le indicazioni di Diocesi e CEI – si preparano a ricominciare gradualmente la vita liturgica e parrocchiale.

Ne abbiamo parlato con don Federico Celini, parroco a Sospiro (unità pastorale di Sospiro, Longardore, San Salvatore, Tidolo, Cella Dati, Derovere e Pugnolo).

«Siamo felici di poter iniziare nuovamente a celebrare pubblicamente la santa Messa e i sacramenti. Io e gli altri sacerdoti ci stiamo organizzando al meglio perché vogliamo tutelare la salute di tutti i nostri parrocchiani. Il covid-19 ha purtroppo colpito anche la nostra comunità e sappiamo che è bene non sottovalutare i rischi: abbiamo celebrato diversi funerali in solitudine, accompagnando nel dolore tante famiglie. Per questo non lasciamo alcun dettaglio al caso, anche se stiamo ovviamente approcciandoci a qualcosa di nuovo», spiega.

«Anche grazie alla collaborazione della Diocesi, ci siamo mossi per mettere a disposizione mascherine e guanti, per la sanificazione dei locali, la disposizione di totem per le istruzioni da adottare e segnaposti per il distanziamento. Per ogni chiesa abbiamo valutato metratura, numero di banchi e di sedie (in quella di Sospiro abbiamo calcolato ad esempio circa novanta posti) e abbiamo anche rimodulato gli orari delle messe».

Che, ci tiene a chiarire, non saranno più trasmesse in streaming o in video-party sui social. «Per scelta fin dall’inizio del lockdown abbiamo proposto alla nostra comunità di seguire insieme le celebrazioni che venivano trasmesse dalla Diocesi o dai canali vaticani. Un modo per sentirci ancora più uniti alla nostra Chiesa locale ma anche a quella universale».

Dalla prossima settimana del resto anche le messe a Santa Marta di Papa Francesco non verranno più trasmesse in streaming. «In qualche modo ora continueremo un po’ con il modus operandi adottato in questi mesi: abbiamo sempre mantenuti vivi i rapporti con i parrocchiani, proponendo riflessioni sulla parola di Dio, tenendo video-call con i catechisti, il coro, i circoli e le associazioni che ruotano intorno alla nostra unità pastorale. Anche noi preti della zona pastorale ci siamo sentiti costantemente per aggiornarci e aiutarci in questi tempi difficili. Continueremo a utilizzare questa modalità virtuale finché non ci saranno garanzie sulla tutela della salute di tutti». E poi, aggiunge, «il caro vecchio telefono è stato e resterà sempre acceso per chiunque abbia bisogno».




Uniti dal dolore, fratelli nella preghiera: celebrazione interreligiosa al cimitero di Cremona (VIDEO e FOTO)

Il cimitero di Cremona ha accolto nella mattinata di sabato 16 maggio i rappresentanti religiosi e civili per una preghiera interreligiosa in memoria delle vittime del Covid–19.

Erano presenti i ministri di diverse confessioni cristiane: per i cattolici il vescovo di Cremona mons. Antonio Napolioni, il pastore Nicola Tedoldi della Chiesa Metodista di Cremona e Piacenza, don Anton Jicmon, assistente spirituale della comunità cattolica rumena di Cremona, e don Pietro Samarini vicario zonale e parroco in città. Presenti anche l’imam Hassan Fathi Abouelmagd, del Centro Culturale Islamico “La Speranza” di Cremona, e Gurdwara Sri Guru Kalgidhar Sahib della comunità sikh, oltre al prefetto di Cremona Danilo Gagliardi e il sindaco Gianluca Galimberti.

A introdurre il gesto è stato don Federico Celini, responsabile diocesano per pastorale ecumenica e il dialogo interreligioso.

Il primo a intervenire è stato il pastore metodista, che ha ringraziato medici e infermieri per essere stati «la carezza di Dio» per tutti i malati e i moribondi.

Ha preso poi parola l’assistente spirituale della comunità cattolica rumena, che ha recitato il bellissimo “Tatal Nostru” e alcuni passi dell’Ufficio dei defunti, ricordando che bisogna allenarsi all’unità ogni giorno per non farsi trovare impreparati quando le circostanze sono sfavorevoli.

L’imam e i rappresentanti dei Sikh hanno elevato preghiere per i defunti, ricordando che i loro fedeli si sentono cremonesi e italiani e che per Cremona e l’Italia si sono spesi anche durante la pandemia.

Infine l’intervento di monsignor Napolioni e del sindaco della città. Il vescovo ha ricordato che «il dolore si fa palestra di fratellanza» e ha evocato le parole di San Francesco D’Assisi, capace di lodare la morte perché «quando è accompagnata dalla tenerezza di Dio rivela il senso della vita e ci ricorda che siamo fragili e bisognosi gli uni degli altri». «Il dolore – ha detto –da ferita può diventare feritoia di salvezza».

Il sindaco Galimberti ha chiosato: «Questo virus ci ha tolto il respiro, ma questa preghiera incarnata ci ha ridato il soffio dell’essere umani, fragili, desiderosi dell’altro senza il quale non c’è respiro».

Tutti i presenti, infine, hanno recitato la preghiera comune scritta per l’occasione da Mario Gnocchi, già presidente nazionale del Segretariato per le attività ecumeniche

 

Fotogallery della preghiera

 

https://www.facebook.com/DiocesiCremona/videos/890710204780039/?t=345

 




Scuole paritarie: «Insieme per salvare un servizio al Paese». L’intervento di suor Anna Monia Alfieri con genitori e gestori degli istituti cremonesi (VIDEO)

Se famiglie e bambini sono i grandi assenti nel dibattito e nelle azioni della politica, anche le scuole paritarie non fanno eccezione. Eppure, proprio adesso che il lockdown e la crisi hanno esasperato fragilità e criticità della legge sulla parità scolastica, ci sarebbe bisogno di un lavoro comune e condiviso perché vi sia una vera libertà di scelta educativa per le famiglie di quasi un milione di bambini e ragazzi che frequentano le “non statali” in Italia. Ne è convinta suor Anna Monia Alfieri, religiosa marcellina (in tasca una laurea in economia e una in giurisprudenza) da anni in prima linea per la difesa della libertà di educazione. Invitata a un incontro pubblico dal titolo “Liberi di educare” promosso da famiglie, insegnanti e dirigenti delle scuole paritarie presenti sul territorio cremonese, ha chiarito subito la situazione dolorosa di questo momento: oltre il 30 per cento delle scuole non statali rischia di non riaprire a settembre.

 

«Un danno incalcolabile, dato che in alcun modo gli istituti statali sarebbero in grado di assorbire il numero di bambini e studenti che rimarrebbero senza scuola (parliamo di circa 300mila minori) con costi che si tradurrebbero in più tasse per tutti». Come agire, dunque? «Bisogna muoversi insieme, di concerto, per il bene comune e senza distinzioni politiche. In questo momento storico assistiamo alla tragedia di moltissime famiglie sicuramente non ricche che avevano deciso di investire tutto sulla scuola, genitori che pagavano volentieri le rette convinti che per i propri figli la libertà valga più di un pezzo di pane. La crisi però è arrivata prepotente e ora i soldi per saldare le quote non ci sono, e le scuole a loro volta si trovano senza mezzi per pagare gli stipendi o i debiti».

Incalzato dalle tante domande di genitori cremonesi, l’intervento di suor Anna non è un piagnisteo: snocciola numeri (le paritarie hanno fatto risparmiare allo Stato sei miliardi di euro) e vantaggi (si fanno carico spesso di situazioni complicate come disabilità, accogliendo tutti) chiarendo che questi istituti fanno parte «di un sistema educativo pluralistico, riconosciuto come valore indispensabile in tutti gli Stati europei». Nonostante questo lo Stato italiano investe pochissimo per aiutarle e i 512 milioni di euro promessi alle paritarie a marzo (mai arrivati e che nei fatti significano poco più di 500 euro a ragazzo quando un allievo costa allo Stato mediamente 9-10mila euro): sono chiaramente noccioline, ancora di più nell’emergenza. «In Italia sono 12 mila gli istituti paritari, coi loro 900mila alunni e 160 mila dipendenti. Le famiglie che mandano i figli in queste scuole sono contribuenti che pagano due volte i costi scolastici: con le tasse sostengono la scuola statale, con la retta pagano la scuola paritaria. È una sorta di sussidiarietà al contrario», incalza la relatrice.

Qualcosa, però, forse si muove. Due giorni fa il ministro dell’Istruzione Azzolina ha ricordato in Parlamento «la funzione sussidiaria che le scuole paritarie svolgono nella società e nell’ambito dell’istruzione quale parte integrante del sistema nazionale di istruzione». Per suor Anna si tratta di un successo, del riconoscimento del ruolo pubblico e di servizio alla Nazione della scuola paritaria e delle famiglie che la scelgono.

Ora spera che le richieste avanzate al Governo dal mondo della famiglia e della scuola paritaria, inizialmente stralciate nel Decreto Cura Italia, vengano ascoltate (il Senato voterà il 19 maggio): detrazione delle rette pagate in tempi di covid-19, fondo straordinario per il comparto 0-6 anni; fondo straordinario per scontare le rette.

«L’emergenza ci ha obbligati a lavorare insieme, e ha obbligato anche la politica a farlo. E questo è un primo grande passo in avanti». L’incontro si è concluso con l’intervento di Silvio Petteni, presidente di AGeSC Lombardia (Associazione genitori scuole cattoliche), che ha invitato a sottoscrivere una petizione a sostegno delle scuole paritarie ha ringraziato i genitori per il preziosissimo lavoro di accompagnamento ai ragazzi e il coraggio di scegliere con libertà come educarli.

 

Quale futuro per le scuole (davvero) paritarie? Riflessioni e proposte per un diritto a rischio

Scuole cattoliche (Fidae): detrarre le rette delle famiglie per salvare il sistema pubblico




A Gerre de’ Caprioli la parrocchia affronta l’emergenza con favole, preghiere online e Divina Commedia

Ci sono molti modi con cui i sacerdoti oggi cercano di rimanere vicini ai loro parrocchiani, alle famiglie, al popolo che è stato loro affidato. Stiamo raccontando tanti esempi belli, oggi parliamo dell’oratorio di Gerre de Caprioli. Lì don Alberto Mangili – aiutato da alcuni parrocchiani  e amici – non si è lasciato scoraggiare dall’emergenza riuscendo a inventare diversi momenti ad hoc per la sua gente.

Il sabato pomeriggio è il momento di cantare e di ascoltare delle favole, lette dalla maestra Giuliana per tutti i bambini  e trasmesse sui social : si chiama « Favoliamo » e viene mandato in onda dall’Oratorio (rigorosamente a porte chiuse) . «Ogni domenica mattina trasmettiamo la santa Messa online, poi la via crucis il venerdì alle 20.45, il mercoledì alle 18.00 la proposta per i ragazzi è di connettersi insieme per guardarsi in faccia e scoprire un po’ quell’avventura incredibile che è ancora la Divina Commedia di Dante».

Ogni gesto è pensato, spiega don Alberto, per proseguire gli incontri fatti durante l’anno, che sono un aiuto a conoscere Cristo ogni giorno un po’ di più. La scorsa settimana sono state distribuite delle primule alle famiglie, la prossima ci sarà una giornata dove ci si alternerà per il Rosario e insieme ai genitori prosegue la lettura (bellissima) de “Il bambino di vetro” di Fabrizio Silei, testo su cui lavorare insieme «che è un modo di continuare a camminare, crescere e restare uniti nonostante queste circostanze eccezionali».

È schivo, don Mangili, non ama pubblicità e salamelecchi eppure la vita che continua intorno alla parrocchia racconta di un rapporto di unità e carità grande tra chi la amministra e chi la frequenta. «Con chi può continuiamo a distribuire aiuti alimentari e a sostenere famiglie o persone in situazione di difficoltà, ma è tutto parte di un cammino iniziato ben prima di questa crisi». Infine, dice, è contento perché nella chiesa – che rimane aperta – qualcuno entra sempre. Magari solo per un saluto veloce a Gesù, per una preghiera a mezza voce, ma non è mai vuota. E questo, forse, è il segno più bello.


#restiamocomunità – #chiciseparerà




La testimonianza di don Angelo Rossi, cappellano dell’ospedale di Treviglio-Caravaggio, in corsia accanto a medici e malati

Non ci sono solo medici, infermieri, operatori sanitari negli ospedali del Nord Italia in piena crisi. Ci sono anche loro, i sacerdoti. Molti sono ricoverati, tantissimi in quarantena. Qualcuno, come i cappellani, è in prima linea per sostenere i malati e le loro famiglie. Un compito difficile, come ci racconta con parole discrete ma commoventi don Angelo Rossi dal piccolo ospedale di Treviglio: la scorsa settimana ci sono stati 75 morti in un giorno e lui ha potuto benedire le salme – una a una – dietro un vetro. Porta i sacramenti a tutti coloro che lo chiedono e sempre più frequentemente sono infermieri e medici che domandano una preghiera a voce bassa, magari di sfuggita in corridoio, con gli occhi gonfi di stanchezza e pianto. La sua giornata è fatta di brevi incontri nelle stanze dove ci sono i malati: la recita di qualche preghiera, una benedizione, il sacramento della confessione o dell’eucarestia. In molti chiedono l’unzione degli infermi, ma don Angelo si arrabbia quando viene associata solo ai moribondi. «È il sacramento della guarigione, in cui si chiede al Signore la forza di affrontare un momento di fragilità fisica o spirituale, non solo l’ultimo gesto da fare prima di andarsene. Se fosse conosciuto per quello che è, questo gesto sarebbe forse d’aiuto a molte più persone».

Le giornate sono frenetiche, non ci si riposa mai. Di notte, dice, si fanno incontri commoventi: il neo–papà che scende in cappella a ringraziare perché nonostante tutto la sua bambina è nata e sta bene, la guardia giurata che dopo un turno interminabile fatto di divieti d’ingresso ai parenti dei pazienti in fin di vita, crolla e chiede di confessarsi dopo anni di lontananza da Dio. E poi ci sono i dialoghi con i malati. I più gravi riesce a vederli di meno, la terapia intensiva gli è interdetta a meno di casi eccezionali: i medici gli hanno chiesto di limitare gli accessi nei reparti dove si trovano i malati Covid per tutelarlo (è l’unico sacerdote in forze all’Ospedale), ma sanno che se ci fosse bisogno lui è lì. Giorno e notte.

Non è sempre facile consolare. A volte ci si sente come formiche di fronte all’emergenza. Come quando incontri nei corridoi un’infermiera in lacrime che chiede di pregare per un paziente o la farmacista che singhiozza perché ha dovuto dire a un anziano cliente che vive con l’ossigeno che la bombola che lo tiene in vita non c’è. Sono momenti durissimi.

«Eppure tutto questo è la mia occasione di convertirmi, di ricordami ogni giorno che l’uomo è davvero poca cosa se un virus tanto piccolo riesce a mettere in ginocchio intere Nazioni. Ecco, ho riscoperto che siamo creature, bisognose di un amore più grande. In queste settimane ho incontrato tante persone, qui in ospedale, piene di domande grandi sul senso sulla vita e del dolore, sulle scelte da compiere che a volte sono strazianti. Sono uomini e donne da cui imparo ogni giorno, perché il loro cuore è pieno di interrogativi ma totalmente dedito alla cura di chi arriva, proprio come avrebbe fatto Gesù». Ci tiene a sottolineare che sono loro i veri protagonisti di queste settimane, ma che sente una sorta di fastidio quando vede che tutti li chiamano “eroi”, quasi che solo nell’emergenza ci si accorgesse della preziosità del loro lavoro. «Sono in questo ospedale da settembre ma posso dire con certezza che questi medici, infermieri, guardie giurate, donne delle pulizie, operatori, volontari sono dediti al loro lavoro ogni giorno allo stesso modo, anche prima dell’emergenza». Stando davanti a loro – dice – ha riscoperto il valore dell’essere al servizio, che è una vera e propria vocazione. «Servire i più fragili, i malati, è un privilegio. Mi sento chiamato ad essere qui e sono certo che ogni volto che incontro dentro questi padiglioni ha il volto sofferente di Gesù».

Don Angelo ha il raffreddore, spera di non essersi ammalato per poter essere ancora vicino alla sua gente. Non ha più l’ausilio dei volontari, a cui è in questo momento proibito entrare in ospedale. Spera nell’arrivo di un altro sacerdote e intanto si affida al buon Dio. Gli chiediamo se si sia mai sentito solo o scoraggiato. Risponde di no, perché intorno a lui c’è un popolo, una compagnia di amici e parrocchiani che gli scrivono e lo sostengono anche nelle giornate più pesanti. «La gente sta riscoprendo il valore dell’essere comunità. Sono sicuro che da tutto questo usciremo maturati. In umanità e fede».




In Cattedrale la Messa del Vescovo per Cl

A quindici anni dalla morte del servo di Dio don Luigi Giussani (22 febbraio 2005) e nel 38° anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione (11 febbraio 1982), in tutta Italia e nel mondo vengono celebrate Messe presiedute da vescovi e cardinali. Nella serata di lunedì 17 febbraio nella Cattedrale di Cremona un’Eucaristia in suo ricordo è stata presieduta anche monsignor Antonio Napolioni.

Molti i ciellini presenti, e tra loro anche tanti giovanissimi che se pure non hanno conosciuto personalmente don Giussani sono rimasti affascinati da un modo di vivere il cristianesimo vivo e originale.

Riprendendo il Vangelo, mons. Napolioni ha ricordato la gratitudine necessaria per un Dio che si è fatto uomo, «dedicando tempo alle nostre parole e ai nostri pensieri e perfino con i nostri lamenti. Gesù ci sta, sta al gioco». Dopo averlo incontrato, gli uomini pretendevano da Lui un segno eclatante dal cielo e poiché – ha spiegato ancora il Vescovo – il Vangelo tocca sempre situazioni umane ripetibili anche oggi, questa tentazione spesso sfiora anche l’uomo moderno.

«Gesù, respirando profondamente, si domanda: Perché questa generazione chiede un segno? Semplice: perché non riconosce la realtà, chiede di vedere qualcosa che non vede perché non si accorge che sta già vedendo la luce del mondo: Gesù». E Gesù, ha ricordato mons. Napolioni, era un uomo libero, radicato nel rapporto con il Padre e dunque capace di amare fino a dare la vita per noi.

«Se ascoltiamo l’apostolo Giacomo – che dirà che non puoi amare Dio che non vedi se non ami il fratello che vedi – vediamo in lui il proseguimento di quanto diceva san Paolo, cioè di un popolo fedele per grazia e concreto nelle opere». Ma per poter camminare su questa strada, ha chiosato, bisogna domandare a Dio la sapienza e l’umiltà del cuore, che è docilità, attesa, desiderio, accoglienza.

Al termine della celebrazione c’è stato il ringraziamento e il saluto di Paolo Mirri, responsabile di Comunione e Liberazione a Cremona. «Abbiamo cantato “Tu sei un Dio fedele”, perché solo la grazia della sua fedeltà ci permette di vivere dentro le circostanze della vita, che urge. Grazie – ha detto al Vescovo – per la tua paternità. Ti affidiamo la nostra Fraternità e ti offriamo le nostre energie al servizio della comunità».

Mirri ha fatto eco in qualche modo alle parole di don Julián Carrón (presidente della Fraternità di Cl), che parlando delle circostanze in cui ogni cristiano è chiamato a testimoniare la propria fede, ha affermato: “Quante volte in questi anni ci siamo detti – con le parole di Papa Francesco – che stiamo vivendo un vero e proprio “cambiamento d’epoca”. I segni di un mutamento radicale nei rapporti fra le persone, nella società, nelle istituzioni si vedono sempre più chiaramente e a ogni latitudine. Nei Paesi tradizionalmente di cultura cristiana, poi, è sempre più chiaro che il contesto sociale non è più in grado di sostenere i valori cristiani che per secoli hanno caratterizzato la vita delle persone». Questo profondo cambiamento che stiamo attraversando, ha aggiunto Carrón, «è per noi una grande provocazione a non dare nulla per scontato e ci costringe a interrogarci quotidianamente su qual è la nostra speranza, che cosa ci permette di alzarci alla mattina, andare a lavorare, voler bene, non scandalizzarci dei nostri limiti, affrontare la vita senza paura e senza violenza nei rapporti. Sosteniamoci a vicenda con la testimonianza reciproca, perché questa circostanza non faccia venir meno la passione di comunicare Cristo».

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«La missione di Dominus Production è diffondere bellezza»

In occasione della Giornata per la vita, domenica 2 febbraio il Palazzo Cittanova di Cremona ha ospitato un incontro con protagonista Federica Picchi, fondatrice della casa di distribuzione cinematografica Dominus. Presentata dal dottor Paolo Emiliani, presidente del Movimento per la Vita, l’imprenditrice ha raccontato di sé e dell’imprevisto che l’ha portata a intraprendere quest’avventura.

Prima di iniziare, è stato proiettato un commovente video dedicato alla vita nascente ideato dal Movimento per la vita italiano. «Occorre uno sguardo privo di pregiudizio, che non sia deformato dalla lente delle ideologie, per riconoscere che il concepito è vita, occorre un’educazione alla vita. Serve dunque un’educazione che porti a un cambiamento di sguardo e di mentalità, e questo è un cammino non privo di imprevisti. Ma proprio questi ultimi possono cambiare la vita», ha esordito Emiliani.

Quando Federica prende la parola è un vulcano. Figlia di un militare spesso lontano per lavoro e di una insegnante, è cresciuta con due fratelli e una rigida educazione: regole, poche parole e tanta sostanza. «Sono però sempre stata educata al fatto che ciascuno ha in sé un grande potenziale, che vale». Inizialmente questo si traduce in un voler primeggiare in ogni cosa: al liceo, all’università Bocconi, in America e poi in Banca affari a Londra. «Volevo sempre di più, guadagnavo tantissimo, ma pensavo sempre di non aver mai raggiunto abbastanza. Avevo una casa a Chelsea, viaggiavo, ma continuavo a guardare chi aveva più di me – come il mio capo – e miravo solo a ottenere sempre di più. Ero profondamente infelice. Spiritualmente arida», racconta.

Poi, un giorno, l’imprevisto: la mamma si ammala di tumore. «In quel momento capii il limite dell’uomo. Pensavo che con caparbietà si potesse raggiungere tutto, ma la malattia ti spiazza perché non puoi controllare niente». In quei giorni un’amica libica musulmana, di famiglia ricca e residente a Londra, le racconta di essersi da poco convertita al cristianesimo. Una cosa da tener nascosta, però le parla di un luogo in cui vorrebbe andare a Capodanno, si chiama Medjugorie e si dice che là appaia la Madonna. Federica non ci pensa molto e accetta di seguirla. Era il 2004. «Fu il capodanno più bello della mia vita. Mi colpì un gruppo di ragazzi polacchi perché erano felici, pieni di vita e di colpo capii la mia vera povertà, perché io non avevo quella gioia».

La mamma di Federica si riprende per qualche anno, muore nel frattempo improvvisamente il padre. Poi la mamma si riammala ed è lì, accanto a lei con quella televisione sempre accesa, che inizia a salire la ribellione per la mediocrità propagata a mezzo video. «Mi chiedevo: ma questo è quello di cui noi bombardiamo i giovani notte e giorno? Bisogna fare qualcosa per far capire loro che invece hanno un talento infinito». Leggevo tantissimo in quel periodo e intuivo che serviva raccontar loro storie vere. Solo quelle. Pensai a quell’istante di luce in cui ovulo e spermatozoo si incontrano e da quel bagliore nasce la vita: pensate se tutti avessero coscienza di che grandezza e di quale miracolo è! Il mondo sarebbe meno brutto».

Così nacque l’idea – “folle” – di fondare Dominus Production. All’inizio ideata per produrre film educativi basati su storie vere, ben presto si deve confrontare con un ambiente televisivo e cinematografico (nonché economico) decisamente ostile. Così nel tempo si è orientato alla distribuzione di grandi film dal grande valore educativo e morale, snobbati spesso dai media perché “poco appetibili”: «La missione di Dominus Production è diffondere bellezza, facendo percepire la cultura storica e l’etica come valori preziosi, da far conoscere soprattutto nelle scuole».

Ecco così che – con molta fatica ma enorme successo – in Italia la Dominus riesce a far proiettare film come Cristiada, Una canzone per mio padre, God’s not dead e tanti altri. A breve uscirà – grazie all’instacabile lavoro di Federica e dei suoi collaboratori, anche lo sconvolgente Unplanned – film basato sulla storia vera  della presa di coscienza della direttrice di maggior successo della clinica abortiva più importante degli Stati Uniti, la Planned Parenthood. Per un caso fortuito la donna assiste per la prima volta ad un aborto di un feto di tredici settimane e nel vedere il bambino contorcersi e scappare per evitare di essere risucchiato, comprende la grande menzogna nascosta dietro al “diritto” all’aborto.

«Lavoriamo su queste storie perché oggi viviamo in un’epoca di dittatura culturale, di anestesia totale. I giovani che incontro nelle scuole sono fragili, disorientati e questo perché non c’è più nessuno che racconti loro che il dolore è normale, che soffrire fa parte della vita ma tutto serve per maturare e fiorire».

Ecco il grande lavoro di Dominus: testimoniare che gli imprevisti sono – come diceva Montale – l’unica speranza. E che ciascuna vita vale – fin dal primo istante, da quello sfolgorio invisibile fino all’ultimo respiro.

 

Il sito internet della Dominus Production