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A Caravaggio la Messa nell’anniversario della apparizione: «Una Madre di misericordia ci invita alla conversione»

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È una giornata di festa oggi, giovedì 26 maggio, a Caravaggio per le celebrazioni in occasione del 590° anniversario dell’Apparizione della Vergine al Santuario di Santa Maria del Fonte. In mattinata una solenne processione, guidata da monsignor Dante Lafranconi, è partita dal centro di spiritualità verso la basilica. Qui si è fermata al Sacro Fonte dove, dopo aver recitato l’atto penitenziale, il vescovo emerito di Cremona ha deposto un mazzo di fiori. In maniera del tutto eccezionale, per la prima volta, è stato aperto e visibile anche il piccolo pezzetto di terreno dal quale sgorgò l’acqua benedetta. «La Vergine Maria implori misericordia per noi al Suo Figlio Gesù», ha detto monsignor Lafranconi di fronte all’immagine della Madonna.

Uscendo dal fonte, i sacerdoti e il vescovo si sono segnati con l’acqua in ricordo del Battesimo e subito dopo è iniziata la santa messa all’aperto, animata dal coro “Don Domenico Vecchi”. Una Messa importante, perché benedetta dal Papa e durante la quale i fedeli presenti hanno potuto ottenere l’indulgenza plenaria.

L’omelia del vescovo emerito ha proposto una riflessione sulle figure di Elisabetta e Maria e sul ruolo centrale della grazia divina nel sacramento della penitenza. «Il brano di Vangelo ascoltato – ha detto – ci presenta la figura di Elisabetta e Maria. Elisabetta è la madre di Giovanni Battista, il precursore, colui che ha preparato gli animi delle persone a riconoscere e accogliere Gesù. Una preparazione che richiamava al dovere di cambiare il cuore, alla penitenza, alla conversione per accogliere quella novità fuori dagli schemi. Maria, l’altra donna, è la madre del Figlio di Dio. Una madre che ha accolto in sé, ed è diventata nel disegno di Dio, colei che ha reso tangibile fino a che punto l’amore di Dio per gli uomini può arrivare: fino all’Incarnazione. Allora, in un certo senso, queste due donne attraverso i loro figli, sono un richiamo alla conversione e alla misericordia di Dio, che è straordinaria e impensabile per le categorie umane».

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La riflessione ha poi proseguito con un riferimento diretto all’apparizione di Caravaggio: «Se ci pensiamo bene, è lo stesso messaggio che Maria ha affidato a Giannetta. Lei dice che da tanto tempo intercede presso il Figlio perché usi misericordia verso gli uomini, ma allo stesso tempo chiede a noi di cambiare vita. Allora tra la pagina del Vangelo letta e l’apparizione a Giannetta, c’è una continuità perché il messaggio è identico. Un richiamo alla conversione che è possibile solo con la misericordia di Dio e con l’intercessione di Maria. Credo sia indispensabile per noi che viviamo questa celebrazione, raccogliere il messaggio che questo Santuario diffonde: la misericordia di Dio è inseparabile dal percorso della conversione degli uomini. Guai a separare questi due aspetti. Se si dimentica la misericordia non si ha il coraggio di chiedere perdono e convertirsi, perché soli non ci riusciamo. Ma se guardiamo solo alla misericordia rischiamo di pensare a un Dio buonista che lascia correre e permette tutto. No. Questi aspetti sono uniti. Misericordia e disponibilità alla conversione: ecco cosa dobbiamo raccogliere dal messaggio lasciato dalla Madonna a Giannetta».

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Monsignor Lafranconi ha messo poi in guardia dal «rischio di esasperare il nostro impegno e sentirci falliti perché non riusciamo a realizzarci oppure corriamo il rischio di fare della misericordia di Dio il lasciapassare per l’inferno, come diceva S. Agostino. Non andiamo via dal Santuario senza approfittare della misericordia di Dio che sostiene il nostro cammino quotidiano di conversione. I santuari mariani sono luoghi dove emerge ed è richiesto il sacramento della confessione ed è bello perché così si celebrano insieme misericordia (nel sacramento c’è l’azione di Dio), grazia e perdono. Così anche le nostre relazioni si conformeranno al disegno di Dio».

Tutto, ha detto, richiede però un atto di fede. «Come facevano Elisabetta e Zaccaria a credere che avrebbero avuto un figlio anziani? E Maria? Non c’erano intuizioni che potevano giustificare quello che sarebbe loro accaduto: bisognava solo credere che ciò che all’uomo sembra impossibile, Dio lo può compiere. E questo accade ogni volta che ci confessiamo: Dio prende in mano la vita che gli consegniamo perché possa trasformarsi secondo quella verità evangelica che la rende feconda. Per vivere con purezza i nostri sentimenti. Chiediamo questa grazia nel sacramento della penitenza perché ci accompagni ogni giorno. Non ci aspettiamo miracoli, apparizioni: si tratta ancora una volta di credere, di fidarsi di quello che Gesù ci ha detto e di incamminarci con umiltà anche quando la strada sembra impervia. Ma non desistiamo dal percorrerla, perché siamo sostenuti dalla misericordia di Dio, nella certezza che quello che Lui ha promesso lo compie. Che la Madonna risusciti in noi questa certezza».

Durante la Mmessa monsignor Lafranconi ha chiesto anche una preghiera speciale per monsignor Napolioni e per tutti i vescovi italiani riuniti in assemblea a Roma, e per la Chiesa italiana.

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Al termine della celebrazione, dopo il saluto del rettore del santuario monsignor Amedeo Ferrari, il vescovo Lafranconi ha impartito la benedizione con l’indulgenza plenaria dopo aver rivolto la Supplica alla Vergine, alla quale ha consegnato timori e speranze di tutte le famiglie e tutte le persone riunite in preghiera.

La giornata proseguirà con la recita del rosario e, alle 16.40, la memoria dell’apparizione.

 

Il video integrale della celebrazione

 

Caravaggio fa memoria dell’apparizione: «Le parole di Maria e il coraggio di Giannetta ci riuniscono oggi al Fonte»




La disumanità della guerra secondo don Primo. A 70 anni da “Tu non uccidere”

Sono passati 70 anni dalla stesura di “Tu non uccidere”, il volume con cui nel 1952 , dopo aver vissuto le due guerre mondiali, don Primo Mazzolari raccoglieva il suo pensiero pacifista per trasmetterlo ai giovani del suo tempo.

Il contenuto di quel libro – che fu poi pubblicato anonimo nel 1955 – è ripreso oggi da don Bruno Bignami in un articolo apparso sull’edizione del 9 marzo dell’Osservatore Romano, che ne evidenzia la “luminosa, persino profetica” attualità alla luce dei drammatici fatti di questi giorni.

Nel suo editoriale intitolato “La pace come ostinazione” il sacerdote cremonese, direttore dell’Ufficio nazionale della Cei per i problemi sociali e il lavoro, già presidente della Fondazione Mazzolari e curatore di numerose pubblicazioni degli scritti parroco di Bozzolo, riprende in particolare tre temi del pensiero pacifista di don Primo: l’assurdità della corsa agli armamenti, la certezza che “ogni guerra è fratricidio” e il ribadire che la guerra va sempre a scapito dei poveri.

«E nel frattempo, — scriveva Mazzolari in un passaggio ripreso da don Bignami — sempre nuovi ordigni e sempre più micidiali vengono inventati, esperimentati e conservati per la giusta guerra di domani». «Chi pretende di difendere, con la guerra, la libertà – si legge ancora in “Tu non uccidere” si troverà in un mondo senza nessuna libertà. Chi pensa di difendere, con la guerra, la giustizia, si troverà con un mondo che avrà perduto perfino l’idea e la passione della giustizia». L’unica arma di difesa, per Mazzolari, «è la giustizia sociale più che l’atomica»

Profonda poi la sottolineatura sulla “negazione della fraternità” rappresentata dalla guerra: “Se la guerra è negazione della fraternità – riflette don Bignami riprendendo passaggi dal testo di don Primo che toccano da vicino i comportamenti sociali, la scelta di stili morali di ciascuno oggi come 70 anni fa -, essa comincia con stili accondiscendenti verso la violenza, verso gli investimenti in armi, verso le forme di ingiustizia e di povertà: «il tacere, il non muoversi, o il muoversi lentamente, è nostro; ed è uno dei segni della nostra decadenza, che poi ci fa chiusi, lamentosi e sterili oppositori delle iniziative altrui». La guerra non è solo quella degli esplosivi, ma nasce col trattare «il fratello come utensile, materialisticamente».

«E quelli che ci lasciano la vita – scriveva don Primo – coloro che cadono, a migliaia, sono sempre gli umili, gli anonimi, il popolo che non ha mai voluto le guerre, che non le ha mai capite; mentre desiderava unicamente vivere libero e in pace». “La gente comune – commenta Bignami – è costretta a fuggire, le città diventano inferno, i civili subiscono massacri. E quando i poveri vengono lasciati nella tentazione di spargere sangue in difesa del pane e della dignità, la pace non godrà mai di buona salute”.

Da questi passaggi che così tremendamente riportano indietro le lancette della storia, la conclusione che non c’è niente di tanto disumano quanto la guerra: “La guerra – conclude l’articolo dell’Osservatore Romano – è ritorno allo stadio animale. Invocarla a soluzione dei conflitti appare inutile, aggiunge sofferenze a sofferenze e non risponde più alle esigenze del bene comune. Crimine contro l’umanità. Don Primo ricorda che «l’animalità fa il male per star bene», ma finisce per svuotare la fiducia in Dio e nell’uomo. La pace, invece, è l’unica ostinazione da perseguire. Tuttavia, diventare costruttori di pace significa non essere mai in pace. Parole che non passano”




Il vescovo Dante copie 82 anni, gli auguri della Chiesa cremonese

Giovedì 10 marzo il vescovo emerito Dante Lafranconi compie 82 anni. La comunità diocesana con il vescovo Napolioni rivolgono al vescovo emerito il loro augurio di buon compleanno, accompagnato dalla preghiera e dall’affetto filiale e fraterno, con riconoscenza per la sua presenza e il suo ministero che quotidianamente accompagna e sostiene la vita della Chiesa di Cremona, con la vicinanza umana e spirituale alla comunità tutta.

Monsignor Lafranconi è nato il 10 marzo 1940 a Mandello Lario, in diocesi di Como. Ordinato sacerdote il 28 giugno 1964, è stato eletto vescovo di Savona-Noli il 7 dicembre 1991 e ordinato vescovo nella Cattedrale di Como il 25 gennaio 1992. Eletto vescovo della Chiesa cremonese l’8 settembre 2001, ha iniziato il ministero in Diocesi di Cremona il 4 novembre 2001.

Il 16 novembre 2015 il Santo Padre ha accettato la sua rinuncia, presentata per raggiunti limiti d’età, al governo pastorale della Diocesi, nominandolo, con decreto della Congregazione per i Vescovi, amministratore apostolico della Chiesa cremonese fino alla presa di possesso canonica del suo successore, mons. Antonio Napolioni, il 30 gennaio 2016.

Auguri di buon compleanno e “ad multos annos” vescovo Dante.

 

Biografia completa del vescovo emerito




Ucraina, famiglia Telò in salvo. I missionari cremonesi raccontano la fuga da Kiev: «Padri separati dalle famiglie per restare a combattere»

Hanno lasciato l’Ucraina Federico Telò e Elisa Manfredini, coniugi cremonesi di Bosco ex Parmigiano, parrocchiani di Sant’Imerio, nella” Unità pastorale Sant’Omobono” in città, che con i loro nove figli (il decimo è in arrivo) si trovavano a Kiev come famiglia missionaria del Cammino Neocatecumenale. A bordo del loro pullmino sono riusciti precipitosamente a lasciare il Paese insieme ad altre migliaia di civili in fuga, per poi dirigersi verso la frontiera con la Polonia. Varcata la frontiera, sono entrati ieri in territorio europeo: dopo il passaggio dalla Repubblica Ceca si trovano ora in Austria, ospiti di una famiglia di amici
“Mercoledì sera – racconta Federico in un messaggio vocale in cui racconta ciò che la sua famiglia ha vissuto nelle ultime settimane – abbiamo avuto un incontro con la comunità, le notizie parlavano di ammassamento delle truppe  ai confini, di un aereo russo in volo nello spazio ucraino, della richiesta di aiuto delle repubbliche autoproclamate, dell’attacco informatico alla protezione anti-aerea”.
Così la decisione di partire: “Mi sono alzato alle 5.30 per andare al lavoro, una forte esplosione ha fatto tremare il palazzo. Si sono svegliate anche mia moglie e una delle nostre figlie. Da due settimane ormai stavamo vivendo con le valigie pronte. Ogni bimbo aveva pronto uno zainetto con due felpe, un cambio i jeans. Avevamo preparato soldi, documenti e il pieno della macchina. Speravamo non servissero, che si trattasse solo di allarmismi”.
Perché questa era la vita in Ucraina prima dell’escalation di tensione che ha preceduto l’invasione russa. “Abbiamo vissuto nella normalità fino a due settimane fa. Il sabato le ambasciate e in particolare quella italiana ha invitato a lasciare il Paese. Leggevamo le notizie, ma la vita in città non sembrava diversa. Solo da quel sabato qualcosa ha iniziato a cambiare. Al lunedì al lavoro i colleghi hanno iniziato a parlare della possibile invasione”.
Questo, insieme alle telefonate allarmate dai parenti dall’Italia, hanno messo in allarme la famiglia cremonese: “Il popolo ucraino vive in guerra da 8 anni – spiega Federico – ed è abituato a non fermarsi agli eventi che capitano. Sanno di non avere il potere di fermare questi avvenimenti, che fanno parte di interessi più grandi. Vanno avanti a vivere. E anche noi, come famiglia missionaria, avevamo scelto di restare sul territorio finché fosse stato possibile”.
Da quando i Telò sono in Ucraina non era la prima volta che il paese viveva la minaccia di aggressione: “Le truppe russe erano già state raccolte ai confini ucraini lo scorso aprile, lo scorso 2 dicembre avrebbe dovuto esserci un colpo di stato… Però – racconta ancora Federico – negli ultimi giorni la preoccupazione è andata aumentando e gli ultimi giorni sono stati giorni di tensione. Gli eventi non erano controllati. Si aprivano tanti scenari imprevedibili. Ogni rumore forte ti faceva pensare a qualche esplosione. Siamo rimasti finché la situazione non è precipitata”.
La famiglia cremonese ha lasciato una città sull’orlo della guerra: “La situazione non era ancora quella di che vediamo ora nei video sul web, ma abbiamo visto scene che non dimenticheremo: file di macchine, un fiume di persone con le valigie che se ne andavano a piedi, tutto il condominio in fibrillazione alle cinque del mattino. Quattro persone ci hanno chiesto di venire con noi, ma non avevamo altro spazio e ho dovuto dire di no con il cuore che mi piangeva. Abbiamo visto benzinai e bancomat presi d’assalto”.
La presenza della famiglia cremonese in Ucraina è frutto di un cammino iniziato dai neocatecumenali già nel 1984, quando padre Mario Pezzi si recò nel Paese per portare questo itinerario di iniziazione cristiana insieme a padre Janez Bokavsek. Grazie a questo annuncio evangelico durante il comunismo, il Cammino è ora una realtà che conta circa 3mila fratelli riuniti in ottanta comunità presenti in ciascuna delle diocesi cattoliche e in alcune greco-cattoliche dell’Ucraina. Federico ed Elisa erano impegnati proprio nella capitale, città “culla della cultura cristiana di tutto l’Oriente europeo”, come disse Giovanni Paolo II nel 2001. Nel loro piccolo hanno collaborato attivamente con la realtà cristiana locale insieme ad altre tre famiglie del Cammino, guidati da un sacerdote amico.
A Kiev lasciano quindi colleghi, amici e conoscenti: “C’è da pregare tanto. Ci sono tante sofferenze”. La voce di Federico da whatsapp ha una pausa. Si parlava da qualche tempo della proposta di legge per lasciare le armi ai civili… “Era da vagliare, me ne parlavano i colleghi – riprende Telò – ma con lo stato di guerra è accaduto. Gli ucraini daranno la vita per difendere le loro terra e l’indipendenza che tanto duramente hanno conquistato”.
Lo stato di guerra è scattato proprio mentre la famiglia cremonese attraversava la frontiera. L’ultima immagine che l’Ucraina ha consegnato ai missionari cremonesi è stata la più dolorosa: “All’improvviso è arrivato l’ordine di non far più uscire dal Paese gli uomini abili alle armi. Abbiamo visto macchine tornare indietro, verso la guerra. E famiglie separarsi tra le lacrime: mamme, figlie e nonne se ne andavano verso l’Europa, mentre i mariti tornavano per combattere”.




Lo stile di famiglia nel “motore” della comunità cristiana: si è svolto a Soresina l’incontro sinodale per gli operatori della Zona 2

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Con gli incontri svolti nella serata di venerdì 21 gennaio nelle parrocchie della Zona pastorale 2 e i laboratori che si sono tenuti a Soresina nella mattinata di sabato 22 si è avviata la seconda fase del cammino sinodale della Chiesa cremonese, che aveva visto il suo inizio nell’ottobre dello scorso anno.

Gli incontri di formazione zonale che si svolgeranno nei mesi di gennaio e febbraio anche nelle altre zone pastorali sono articolati in due momenti, per cercare di coinvolgere nel percorso di riflessione sul Sinodo un numero sempre più ampio di persone, soprattutto quelle che vivono la parrocchia nelle sue varie articolazioni. Lo scopo è quello di verificare e di arricchire l’idea di Chiesa come comunità cristiana confrontandosi con la realtà concreta e quotidiana della famiglia.

Nella serata di venerdì, dopo un momento di preghiera, è stata proposta la proiezione di un intervento registrato del vescovo di Modena – Nonantola, mons. Erio Castellucci, di una coppia di coniugi e di una coppia di fidanzati: tre contributi che hanno cercato di individuare le caratteristiche di quale Chiesa si vorrebbe essere. È seguito un rapido e concentrato scambio di opinioni sulle provocazioni fornite dal filmato, ma il lavoro di approfondimento e di proposta è stato rimandato ai laboratori di sabato mattina.

Gli incontri laboratoriali si sono tenuti a Soresina, divisi in due gruppi: uno all’oratorio Sirino, guidato da don Federico Celini, con gli operatori delle aree pastorali giovani e comunicazione e cultura, e l’altro presso la Scuola Immacolata, dove gli operatori delle aree pastorali famiglia e giovani hanno avuto la conduzione di don Francesco Fontana.

I due laboratori, dopo un momento di preghiera con letture che hanno focalizzato la riflessione sul senso della vita familiare nelle sue difficoltà, ma soprattutto sulle sue ricchezze, hanno lavorato divisi in gruppi di una dozzina di persone, unite da affinità ministeriali. I gruppi hanno dedicato un primo spazio a verificare su come lo stile di famiglia abbia ricadute positive sulla vita pastorale parrocchiale; a questo momento è seguito uno spazio di proposte concrete capaci di innervare la realtà ecclesiale.

I gruppi che si sono confrontati presso la Scuola Immacolata hanno individuato come obiettivo primario, sia pure con sfumature diverse, l’ascolto e l’accoglienza attenta di ogni persona, rivolgendo una particolare cura alla relazione anche attraverso percorsi di formazione specifici. Così, i partecipanti all’incontro all’oratorio Sirino hanno incentrato l’attenzione su diversi e approfonditi aspetti, sempre nell’intento di individuare in che cosa e come la famiglia – nella concretezza del suo vissuto, delle sue dinamiche, delle sue prospettive, delle sue potenzialità – possa rappresentare una realtà certa e dinamica a cui la Chiesa in cammino possa ispirarsi, anche e soprattutto alla luce della “Amoris Laetitia”.

Il frutto delle riflessioni sarà consegnato sia al vicario zonale sia al Vescovo: un ulteriore e prezioso contributo, anche questo, per il cammino sinodale che attende la Chiesa diocesana.




Prima storica visita del Vescovo alla comunità ortodossa rumena

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«Ho scritto sulla nostra pagina Facebook che questa visita è un momento storico». Così padre Doru Fuciu, parroco della Chiesa rumena ortodossa ha presentato alla propria comunità la visita del vescovo Antonio Napolioni, primo vescovo della Chiesa cattolica ad entrare nella chiesa di Borgo Loreto dove ogni domenica la comunità rumena si ritrova per la celebrazione comunitaria. Un momento gioioso e suggestivo dal profondo significato ecumenico, che si colloca significativamente all’interno della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

Il vescovo si è recato alla chiesa della comunità ortodossa accompagnato da don Pietro Samarini, parco di Borgo Loreto, al termine della Messa celebrata in parrocchia in occasione della visita pastorale che si sta svolgendo nelle comunità della nascente unità pastorale con San Francesco e San Bernardo.

Calorosa l’accoglienza della comunità ortodossa rumena riunita per la celebrazione eucaristica, nella chiesa decorata magnificamente con le icone tipiche della tradizione ortodossa e colorata dagli abiti tradizionali indossati da alcuni fedeli.

«Il 2 febbraio – ha ricordato padre Fuciu – saranno 19 anni che la Chiesa ortodossa rumena è a Cremona. Ringrazio la Chiesa cattolica cremonese per che ci ha accolti. Ricordo al mio arrivo quando vidi nell’armadio della sacrestia i paramenti cattolici accanto a quelli ortodossi – ha aggiunto – Pensavo: oggi iniziamo dai vestiti poi l’unità sarà delle persone».

Il saluto del Vescovo Napolioni inizia con una richiesta di scuse: «Sono in ritardo – ha esordito -. Sono qui da sei anni, dovevo venire prima». In un clima di cordiale amicizia monsignor Napolioni è stato invitato sull’altare per l’ultima parte della celebrazione e al termine del rito il suo saluto è stato un messaggio sentito di unità nel nome di Cristo: «Dio è più grande di tutte le chiese. Abbiamo lingue diverse qualche divisione ma non sul Signore che è davvero uno. E noi siamo vicini, abitiamo la stessa terra e Dio ci chiede di dare testimonianza con le opere. La pandemia – ha aggiunto – ci mette alla prova tutti e ricorda che ci salveremo solo insieme. La possibilità di questo incontro – ha poi concluso – è un grande segno di quello che potremmo fare ancora di più per essere una cosa sola come ci ha chiesto Gesù». E poi, guardando all’assemblea e alla chiesa con i segni e i colori della tradizione ortodossa: «In questa unità la diversità abbellisce. Il mondo è a colori e anche la chiesa lo deve essere».

Dopo la benedizione l’incontro è proseguito con lo scambio dei doni: al Vescovo, invitato a spezzare il pane con il sale, simbolo evangelico di comunione, un’icona mariana e un mazzo di fiori in segno di amicizia, oltre ad un canto di augurio intonato dall’assemblea. In conclusione anche un omaggio al segretario episcopale don Flavio Meani in occasione del suo 70° compleanno.




Don Roberto Pasetti parroco di Belforte, Gazzuolo e Commessaggio

Come annunciato alle comunità interessate durante le celebrazioni di domenica 23 gennaio, Don Roberto Pasetti, già parroco di Commessaggio, diventa parroco anche delle parrocchie di Belforte e Gazzuolo, sostituendo don Marco Tizzi, del quale il vescovo ha accettato la rinuncia per motivi di salute. Don Marco Tizzi tuttavia resterà a servizio delle comunità, assumendo l’incarico di collaboratore parrocchiale di tutte e tre le parrocchie, ruolo che dal 2017 ricopre anche don Virginio Morselli.

Per le tre parrocchie della zona pastorale 5, in territorio mantovano, un’ulteriore tappa nel cammino già avviato verso la piena realizzazione dell’unità pastorale, per la quale a don Pasetti è affidato il ruolo di moderatore.

 

Profilo dei sacerdoti delle tre parrocchie

Don Roberto Pasetti, classe 1963, originario di S. Martino dall’Argine, è stato ordinato sacerdote il 18 giugno 1994. Ha iniziato il proprio ministero come vicario a Caravaggio; nel 2000 il trasferimento a Viadana, presso la parrocchia di Santa Maria Assunta e San Cristoforo. Nominato parroco di Scandolara Ripa d’Oglio nel 2002, nel 2012 ha assunto la guida anche delle parrocchie di Grontardo e Levata. Dal settembre 2018 il Vescovo gli ha affidato la cura pastorale della comunità di Commessaggio, prendendo il testimone da don Marco Tizzi, a cui oggi subentra anche nell’incarico di parroco di Belforte e Gazzuolo. Le tre comunità sono in cammino verso l’Unità pastorale di cui don Pasetti ricopre il ruolo di moderatore.

 

Don Marco Tizzi, nato a Sabbioneta nel 1948, è stato ordinato sacerdote il 18 luglio 1971. Ha svolto il suo ministero come vicario a Viadana (S. Maria Assunta e S. Cristoforo) dal 1971 al 1979 e a Casalmaggiore (S. Stefano) dal 1979 al 1994, quando ha assunto l’incarico di parroco di Belforte al quale si è aggiunto dal 2012 quello di parroco di Gazzuolo. Dal 2015 al 2018 ha guidato anche la parrocchia di Commessaggio. Ora assume l’incarico di collaboratore parrocchiale delle tre parrocchie.

 

Don Virginio Morselli è nato a Cividale Mantovano nel 1939 ed è stato ordinato sacerdote il 27 giugno 1964. Dal 1964 al 1978 è stato vicario di Gazzuolo, quindi dal 1978 al 1988 è stato parroco di Salina. Dal 1988 al 1987 ha guidato la comunità di Rivarolo del Re e dal 1997 al 2014 quella di Viadana “San Pietro Apostolo”. Dal 2014 al 2017 è stato collaboratore delle parrocchie di Vicomoscano, Casalbellotto, Quattrocase e Fossacaprara; quindi il trasferimento con l’incarico di collaboratore parrocchiale di Belforte, Commessaggio e Gazzuolo.




“Beato chi ascolta la Parola di Dio”, con don Compiani a “Chiesa di Casa” i temi e il senso della Domenica della Parola

In occasione della Domenica della Parola, che la Chiesa celebra il 23 gennaio questa settimana, Chiesa di Casa ha incontrato don Maurizio Compiani, biblista cremonese e incaricato diocesano per l’apostolato biblico. Nel dialogo con Riccardo Mancabelli, don Maurizio ha introdotto il significato della «iniziativa voluta da papa Francesco nel 2019, perché tutta la comunità cristiana si concentri sul valore della Parola di Dio. Non solo catechisti, sacerdoti e coloro che direttamente hanno a che fare con il ministero della Parola – ha spiegato – ma tutti i fedeli si devono nutrire del continuo rapporto con la Parola di Dio».

“Beato chi ascolta la Parola di Dio”: questo il tema scelto per la giornata nel 2022: «Richiamando questo passaggio evangelico, il Papa ci indica che il mettere in opera la Parola di Dio è fondamentale, però

occorre stare attenti a cosa si mette in opera: ciò presuppone ascolto attento e fedele della parola, altrimenti metto in pratica le mie strategie e non mi lascio realmente nutrire dalla Parola» spiega don Compiani.

Tuttavia, si potrebbe pensare che le nostre comunità non siano sempre educate ad un ascolto sincero della Parola. Don Compiani, invece, fa notare come «il fatto che la Domenica della Parola cada in questo periodo non è casuale: stiamo vivendo la Settimana dell’unità dei cristiani ma siamo anche molto vicini alla Giornata di preghiera per il dialogo fra cattolici ed ebrei, che è stata il 17 gennaio: è come dire che stiamo facendo un cammino proprio della comunità cattolica, che pone attenzione alla Parola di Dio».

Se dal Concilio di Trento si è verificata una sorta di «disaffezione alla Parola di Dio» – ripercorre il biblista cremonese – il Concilio Vaticano II va a sottolineare il fatto che «la Parola di Dio, per la comunità cristiana, è anche nutrimento diretto». Questa familiarità con la Parola, secondo l’incaricato diocesano, è ultimamente accresciuta: «Sicuramente ci sono state una serie di iniziative per aiutare a conoscere la Parola, come gruppi biblici, gruppi di ascolto della Parola, incontri di preghiera, scuole della Parola». È anche vero, però, come specifica don Compiani, che «la familiarità non nasce in poco tempo. Fa fatica a prendere piede quando nasce da iniziative sporadiche. Ha bisogno di forme più stabili.

Lo scoglio maggiore è forse questo: riuscire a sanare la frattura fra la vita pastorale della Chiesa e la Parola di Dio».

Capita, infatti, che «la Parola sia un riferimento, ma fintanto che non siamo tenuti a fare delle scelte; quando dobbiamo scegliere, spesso ci muoviamo a partire da logiche che poco hanno a che fare con la Parola di Dio». Come l’ospite in studio specifica, «la Parola di Dio deve essere il principio vitale che va ad animare ogni aspetto della vita del credente, sia personale che comunitario. Bisogna tornarci continuamente». 

Familiarità non significa, però, cercare nella Parola le soluzioni che preferiamo, oppure, di fronte ad un brano “scomodo”, scegliere di ignorarlo. Il rischio è quello di adottare «un approccio a volte utilitaristico: vado a cercare ciò che ho già in mente. In tal caso, però, sono io che costringo la parola di Dio entro i miei pregiudizi. Oppure cerco solo la pagina che conferma le mie idee, eliminando le altre». Don Compiani ha dunque rimarcato che tale problematica è sintomo della «necessità di un rapporto continuativo».

Alla Parola bisogna accostarsi «con domande, ma in modo libero: non solo devo scrutare la Parola di Dio, ma devo permettere alla parola di scrutare me, così che mi parli in modo più ampio rispetto alle mie certezze».

Dunque, una Parola che va oltre i nostri pensieri e le nostre immagini. «La riforma liturgica va proprio in questo senso. Secondo quanto ci insegnano i Padri della Chiesa, la Parola di Dio è come una sposa per il suo sposo: cerca il suo coniuge!». Per questo è sempre più auspicabile un ascolto leale e disponibile, nella certezza che la persuasività della Parola non sia frutto di una nostra abilità o delle nostre idee, ma nel contenuto della Parola stessa.




Domenica della Parola di Dio, un’occasione per rimettere l’ascolto al centro della realtà

“Beato chi ascolta la Parola di Dio!” (cf. Lc 11,28). È questo il titolo scelto da Papa Francesco per la Domenica della Parola di Dio che quest’anno ricorre il 23 gennaio.

Il titolo si rifà alla famosa e più ampia beatitudine del Vangelo di Luca dove  a una donna che esclama: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato», Gesù risponde: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!». È evidente che la beatitudine evangelica unisce l’ascolto della Parola di Dio con la sua messa in opera. Il Papa però intende richiamare l’attenzione sulla sua prima parte. Indubbiamente l’agire con coerenza è un valore, ma a condizione che la decisione sia saldamente e autenticamente fondata su un ascolto assiduo, attento e fedele della Parola di Dio. Come spiega mons. Rino Fisichella: «L’esistenza cristiana si caratterizza per l’ascolto della Parola di Dio. In essa viene offerto un senso così profondo che aiuta a comprendere la nostra presenza tra le alterne vicende del mondo. Sarà sempre una lotta dura tra quanti aderiscono alla Parola e quanti vi si oppongono. Edulcorare questa condizione potrà dare ai cristiani un ruolo sociale più remunerativo, ma li renderà insignificanti, perché alla fine resteranno “muti” e soggiogati».

Non si tratta perciò di incoronare l’ascolto della Parola come momento “introduttivo” (e sbrigativo) all’agire o ancor peggio a tutte le riunioni di sorta… È certamente accresciuta nelle comunità cristiane una certa familiarità con la Parola di Dio, ma nella vita ecclesiale soffriamo ancora di una profonda frattura tra “pastorale” e “Parola di Dio”, “catechesi” e “Parola di Dio”, “teologia” e “Parola di Dio”… come ambiti diversi, a volte affiancati, ma poco comunicanti. Mondi ancora troppo paralleli.

Sarebbe imperdonabile nella prassi pastorale abituarsi a riservare “un posto d’onore” alla Parola di Dio, ponendola come su un podio: ammirata, celebrata, “ascoltata”… ma appunto anche confinata a preambolo introduttorio, o magari ridotta ad alimento per una “spiritualità” intesa come altro e lontana dalla realtà. Significherebbe tradire un autentico ascolto della Parola di Dio che non può essere privo di forza e di dirompente concretezza. L’ascolto è un requisito permanente della vita di fede: va custodito di continuo, esteso ad ogni ambito del vivere perché la testimonianza cristiana non è la gran cassa del nostro agire, ma il sublime canto della Parola che nella sua comunità si fa carne e vivifica il popolo in cui ha posto le sue radici.

Per meglio celebrare la Domenica della Parola, il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione ha approntato un apposito sussidio a cui vale la pena dare un’occhiata. In una cinquantina di pagine si trovano vari suggerimenti che spaziano da momenti liturgici, a riflessioni utili per la catechesi e l’omelia, a iniziative da mettere in campo. Il tutto è suddiviso in tre ambiti: la Parola di Dio in Comunità, la Parola di Dio in Famiglia, la Parola di Dio nella preghiera personale. Una appendice è poi dedicata al tema più generale: Chiesa e Parola di Dio.

Don Maurizio Compiani
Incaricato diocesano Apostolato Biblico

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Sinodalità: per non perdere la faticosa bellezza della Chiesa

“Sembra che il treno sia già passato. E lo abbiamo perso”. Si può riassumere così il commento di un laico impegnato al servizio della propria comunità, durante un dialogo sul cammino sinodale che da poco anche la Chiesa italiana ha intrapreso. Senza dubbio un’affermazione perentoria. La sua età non tradiva certo le polarizzazioni giovanili. Semmai rimandava a stagioni già vissute, a “treni già passati”, o meglio visti partire e che a qualcuno sono sembrati non andare molto lontano.
Ed è vero, la stagione sinodale appena aperta rischia di collocarsi in un momento di grande stanchezza: innanzitutto sociale e mentale, aggravata dalle incertezze pandemiche, ma anche ecclesiale, dato che le comunità cristiane vivono nel tessuto proprio della realtà umana ed hanno imparato, anche a proprie spese, a non ritenersi immuni dall’evolvere storico. D’altra parte, è proprio nei momenti di crisi che la convergenza delle energie ed il coraggio assumono una qualità più chiara: se anche i treni sono passati e pare che l’estenuazione sia la regola,

l’appello del Papa e dei vescovi può scaldare ancora il cuore.

Rispetto ai sinodi celebrati sin qui, il cammino che stiamo percorrendo presenta una grande anomalia che a ben vedere è una vera e propria svolta: il Sinodo (universale e italiano, i tempi e i modi si intrecciano ed è spesso difficile distinguere) ha come oggetto, come tema se stesso, o meglio la dimensione sinodale della chiesa. Non si tratta allora di discernere qualche argomento specifico (gli ultimi sinodi hanno approfondito alcuni snodi ad es. su famiglia e giovani), ma abitare la struttura stessa della Chiesa, il suo DNA che, sin dai primi secoli, era evocato con il termine sinodo (syn e odos, strada fatta insieme). Recuperare oggi questa attenzione e metterla a tema è possibile almeno per due ragioni remote ed una prossima.

Innanzitutto, le remote.
Nel 1964 il Concilio pubblicava la costituzione dogmatica Lumen gentium che aveva, per la prima volta, il compito di delineare una architettura complessiva della Chiesa, dal suo mistero alla gerarchia, dai laici ai religiosi, dal suo essere popolo di Dio al rapporto con le altre confessioni cristiane, con il regno dei cieli e con le religioni non cristiane, sino a vedere in Maria la ricapitolazione personale del destino ecclesiale: ascoltare Cristo e servirlo. Si andava definendo una ecclesiologia rinnovata che rimetteva in luce quanto nel corso dei secoli aveva subito letture unilaterali e pagato il prezzo dell’incompiutezza, se non addirittura della parzialità incattivita. Qualche anno dopo, nel 1985, S. Giovanni Paolo II chiedeva al Sinodo dei vescovi, organismo permanente di consultazione voluto da Paolo VI, di rileggere il Concilio e fornire una valutazione di quell’evento ecclesiale. E proprio il Sinodo consegnò al Papa l’idea che l’ecclesiologia del Vaticano II, la visione di Chiesa che autorevolmente aveva consegnato, ruotava attorno al concetto di comunione.

La Chiesa è sì una organizzazione missionaria, educativa, celebrativa, ma è innanzitutto una comunità di battezzati che sperimentano la fraternità in Cristo, è la famiglia di Dio, è il tempio dello Spirito.

Comunione, avrebbe ricordato in quegli anni anche il futuro Benedetto XVI, è così la cifra sintetica dei rapporti ecclesiali, modellati sul mistero di Dio che è, lui per primo, comunione, verificati dal comandamento dell’amore, purificati dall’esercizio violento della prepotenza. Per interpretarla non basta considerare la Chiesa come una struttura di poteri più o meno vicini a Dio, né come una organizzazione che eroga servizi religiosi all’umanità. Semmai la Chiesa è la comunità dei figli di Dio che costituiscono il corpo di Cristo, perché ne sono i discepoli, compaginati in vocazioni diverse. “Qualcosa” di preziosamente teologico e per certi versi di eccedente rispetto alla giurisdizione dei poteri o delle competenze sacrali.

La causa prossima

Ora veniamo alla causa prossima: il rilancio di papa Francesco proprio sulla Chiesa come comunità che si nutre della gioia del Vangelo. Attraverso categorie inusuali e solo apparentemente banali,

Bergoglio sollecita a porsi “in uscita” e ribaltare una visione della Chiesa tradizionalmente piramidale, clericale, destinata a contrapporre chi avrebbe molta competenza e chi invece sarebbe solo incompetente, recettivo.

Questione cruciale se trasferita nella realtà concreta di comunità, come le nostre, che spesso faticano a recuperare i catechisti o i lettori, vedono assottigliarsi le fila degli operatori pastorali e… a volte si schiacciano sull’immagine di un santuario in cui recuperare “solo” la celebrazione dei sacramenti.
È su questo scenario che si installa il richiamo alla sinodalità. La si potrebbe intendere come lo strumento, il metodo attuativo della visione ecclesiale della comunione. Quest’ultima può essere considerata come la ragione teologica più alta e più bella, mentre la sinodalità come l’insieme delle attenzioni, delle considerazioni e delle prassi che rendono possibile, concreta, visibile quella comunione e ne disinnescano una visione solamente spiritualistica. Collaborazioni, corresponsabilità, processi di consultazione, condivisione delle competenze… sono così il volto concreto della dignità di tutti i membri della Chiesa. A patto che lo si voglia e si sia messi in condizioni di esercitare un reciproco riconoscimento.

È quello che da sempre il Nuovo Testamento dice alle Chiese: portate i pesi gli uni degli altri. Cosa impossibile se le vocazioni, gli stili di vita e le esperienze semplicemente non si parlano o, peggio, si giudicano.
Così sinodalità richiama innanzitutto ad uno stile di Chiesa, dove nessuno è costretto a chiedere “permesso?” e, al contrario, nessuno è obbligato a supplire ogni servizio comunitario. In secondo luogo sinodalità indica tutte le occasioni e le strutture che nella Chiesa consentono la deliberazione di una decisione, la focalizzazione di un discernimento, la risposta ad un problema. Isolare qualcuno o attendere passivamente che dall’alto piova la norma da applicare impoverisce la circolazione dello Spirito: che non sovverte le responsabilità, ma le spinge a cooperare per il bene di tutti. È la stessa logica dell’utilità comune dei carismi che Paolo ha presentato nella Prima Lettera ai Corinzi.

La partita è davvero rilevante, perché ad essere in gioco è la natura evangelica della Chiesa.

La sinodalità, come spesso accade a tante realtà teologiche, è come sospesa tra il dono e il compito: è un dono che Dio fa al suo popolo perché lo vuole così e così lo ha pensato in Cristo; e i cristiani sono chiamati a svilupparlo, esplicitarlo, tradurlo in prassi concrete, non scandalose e non contraddittorie. È possibile un rapporto uno/alcuni/tutti non solo di potere e di separazione? Ecco la sfida e la vocazione! È possibile uscire dallo schema top-down e dal centro verso la periferia? Ecco la vera provocazione del “periferico” costantemente evocato da Francesco! È possibile restituire potere-di-parola a tutti, alla luce della medesima Parola? È possibile sdoganare il diritto/dovere di parola, l’acquisizione di una identità laicale vera, una psicologia ecclesiale meno passiva? È l’obiettivo di un tirocinio che le chiese sono chiamate ad intraprendere, anche in Italia, anche a casa nostra. È possibile ridiscutere radicalmente la logica del potere e riscriverlo in chiave evangelica, perché custodisca, contemporaneamente, le responsabilità senza isolarle, le dignità senza calpestarle, la vita vera delle persone senza giudicarla?
Dentro queste domande si nascondono alcune delle riflessioni teologiche più recenti,

ma si rivela in tutta la sua bellezza il cammino di una comunità ecclesiale forse più piccola e meno rilevante, forse anche più chiaramente religiosa, ma pur sempre chiamata ad essere se stessa e non una controfigura deformata del potere umano.

don Paolo Arienti
Docente di Ecclesiologia


Per approfondire il tema

NOCETI S., “Sinodalità: una parola necessaria”, in CODA P. – REPOLE R., La sinodalità nella vita e nella missione della chiesa, Bologna 2019.

NOCETI S., “La sinodalità: una riflessione ecclesiologica”, in SALATO N. (ED.), La sinodalità al tempo di papa Francesco. 1. Una chiave di lettura storico-dogmatica, Bologna 2020.

HAN BYUNG-CHUL, Che cos’è il potere?, Milano 2019.

FRANCESCO, Discorso in occasione dei 50 anni dell’Istituzione del Sinodo dei Vescovi, Roma 2015