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Venerdì Santo. «Osiamo guardare alla croce di Cristo. Un Dio così noi non potevamo immaginarlo»

 

Il rosso dei paramenti sacri è simbolo del dolore della passione e del martirio di Gesù. Nel giorno, il venerdì Santo, con tutta la Chiesa il vescovo Napolioni si prostra, in segno di umiliazione e compassione ai piedi dell’altare, col il volto nascosto, la fronte rivolta a terra, nel silenzio assoluto della Cattedrale.

È l’immagine forte che introduce l’Azione Liturgica della Passione e morte di Cristo, in cui la meditazione sul mistero della morte del Salvatore è proposta dalla liturgia della Parola, con la proclamazione del Vangelo della Passione secondo Giovanni. Sono «i giorni di Gesù» che – esordisce il Vescovo nella sua omelia – «ci siamo riproposti di vivere appieno, assaporare minuto per minuto. E finiscono in fretta».

A provocare la riflessione di monsignor Napolioni è la triplice risposta di Pietro: “Non lo conosco”. «Anche noi – chiede e si chiede – possiamo dirci davvero discepoli? Oppure è il caso di condividere realisticamente questa esperienza di smarrimento, di confusione, che non viene solo dalla giostra del mondo, dalle vicende umane, ma viene anche dal modo in cui Dio si manifesta, si nasconde, si rende presente, salva questa storia… Non è il modo che noi vorremmo».

È una contemplazione intima e dolorosa quella della croce di Cristo che muore, nella sua complessità, nel suo mistero tocca oggi le vite di ciascuno: «Sarebbe facile dire: “i giorni di Gesù finiscono bene”, “dopo tre giorni c’è il lieto fine”. Non basta! – prosegue l’omelia – è da stupidi e il Signore non ci tratta da stupidi».

Ma il suo sacrificio suscita le domande del cuore dell’uomo, che anche in questo tempo storico ripropongono la loro drammaticità: «Perché tutto questo male? Perché tanto silenzio di Dio?». Riprendendo il Vangelo della Passione monsignor Napolioni fa notare come l’evangelista Giovanni non metta in bocca a Gesù, nel momento dell’agonia, il dialogo con il Padre. «Dice solo: “Ho sete. È compiuto”. Sembra che Dio non ci sia».

La profondità drammatica del momento non è il racconto di qualcosa di lontano. Nella croce si specchia la realtà: «Dobbiamo tenerci questi punti interrogativi nel cuore – dice il vescovo – perché la storia del mondo per certi versi è infinitamente peggio. La morte di Cristo non è la più drammatica delle storie umane… I racconti di questi giorni ci dicono di settimane, di tempi lunghi di martirio, violenza, abuso, paura. E quante storie anche di persone che conosciamo ci rivelano quanto può essere grande l’abisso del dolore e della solitudine. Ma questa è l’ora di Dio».

Non c’è – fa ancora notare – un’altra morte ricordata così, quotidianamente da milioni di persone come quella di Gesù, nella Messa, nel semplice segno di croce che è come «una firma di chi dice: “Sì, anch’io mi ricordo di te, mi ricordo di questo Venerdì Santo”»

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E «quell’ora, quella morte non è paragonabile a nessuna, perché un Dio così non potevamo immaginarlo in nessun modo. O è Dio che sta morendo così per noi, o questa storia ha il diritto di finire. Mentre, invece, è una storia che si va compiendo. E allora – conclude – sostiamo anche noi in adorazione della croce. Osiamo anche noi guardare colui che hanno innalzato e trafitto, perché ci darà la vita, la sua vita, che è infinitamente diversa, più bella, più lunga, più vera, più condivisa… della nostra vita. E cerchiamo Dio in tutto questo. Proprio mentre facciamo fatica a coglierne l’evidenza, mentre si nasconde e tace sollecita la nostra dignità di cercatori di Dio. E ci sia dato di intuire quanto è grande la fedeltà di Dio alle sue promesse per noi»

Così, con gli occhi rivolti al crocifisso esposto per l’adorazione dei fedeli,  prosegue l’Azione Liturgica del Venerdì Santo, conclusa con la distribuzione del Pane Eucaristico consacrato durante la Messa del Giovedì Santo e riposto nell’altare dell’Adorazione, prima dell’uscita silenziosa dalla Cattedrale, da cui partirà in serata la processione cittadina con la reliquia della Sacra Spina, momento di devozione che torna ad essere celebrato dopo due anni di sospensione.