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Il Vescovo nella Notte di Natale: «Il presepe ci parla, ci giudica e ci salva» anche in questa «atmosfera de-natalizia»

 

Una Cattedrale gremita ha accolto i fedeli per la Messa della Notte di Natale presieduta, a mezzanotte, dal vescovo Antonio Napolioni e concelebrata dal vescovo emerito Dante Lafranconi e dai canonici del Capitolo della Cattedrale, alla presenza dei seminaristi di Cremona che hanno prestato il proprio servizio all’altare.

L’Eucaristia si è aperta con un momento di preghiera davanti al presepe, simbolo della Natività, che ogni anno viene allestito in Duomo.

«Siamo venuti per adorarlo, magari con incertezza, magari per tradizione, magari spinti dalla paura del futuro e dal bisogno di salvezza che percepiamo in questo momento – ha detto il vescovo Napolioni all’inizio della celebrazione –. Ma siamo qui per adorarlo, cioè per stupirci della misericordia e fedeltà con cui è entrato nella nostra umanità per non abbandonarla più, nel Verbo fatto carne, Gesù di Nazareth, il cui Natale rischiara davvero le tenebre del mondo».

Il vescovo, all’inizio dell’omelia, ha citato l’episodio dell’annuncio ai pastori: «Una grande gioia che sarà di tutto il popolo! Ma c’è questa gioia in tutto il popolo? Siamo preoccupati, ce la farà questo nostro Natale a dare gioia a tutto il popolo? In realtà questo nostro Natale è sempre più debole». Un Natale della pace che «è insanguinato da quello della guerra senza tregua». Un Natale della fede che «rischia di essere soffocato e di smarrirsi in mezzo a quello dei consumi». Un Natale della gioia che «è avvilito da tanti fabbricanti di paura che ci condizionano». Un Natale della vita che è controcorrente in questa cultura in cui sembra che siamo più impegnati a morire che a nascere. È come se ci fosse un’atmosfera de-natalizia».

In contesti come questi, Dio che cosa fa? «Semplicemente nasce – ha evidenziato il vescovo –. Nasce pienamente uomo e pienamente Dio. Questo è il suo modo di essere, di fare, di salvarci». Da qui il rimando proprio al presepe della Cattedrale, che «in un certo senso rappresenta la nostra condizione: la piazza, la storia, le chiese, i palazzi. È Gesù piccolino, nascosto, fedele a ridonarci la vita. Il presepe ci parla, ci giudica e ci salva. Ci giudica perché ciò che accade misura i nostri tentativi di darci vita e ci riconduce all’essenziale». Riprendendo il presepe di Greccio, allestito 800 anni fa, mons. Napolioni ha sottolineato: «San Francesco d’Assisi volle solo la mangiatoia, gli animali e l’Eucaristia, perché i personaggi umani fossimo noi. Oggi come allora».

Quindi quel Bambinello, tanto piccolo quanto illuminato, «ha il potere di proporci, con fantasia, inimmaginabili nuovi inizi, anche per il Cristianesimo – ha concluso mons. Napolioni –, che non invecchia, ma si trasforma, perché possa il Signore guidare una storia al suo compimento. Perché un Bambino è nato per noi!». Questa la risposta alla situazione de-natalizia: «Uscire noi tutti con un figlio in più: Gesù». «E noi dobbiamo formare per Lui un popolo puro che gli appartenga».




Mistero e luci, a Chiesa di casa il Natale nello sguardo dell’altro

 

Vacanze e famiglia, è solitamente questo il modo in cui si è abituati a pensare il Natale. Una giornata di svago, o per alcuni di impegno culinario, da condividere con i parenti, più o meno stretti, e con gli amici. E la Messa, per i cattolici. A mezzanotte o la mattina successiva – qualche volta entrambe – per celebrare il mistero dell’Incarnazione. Ma Natale non è soltanto questo, come ricordano le parole dei tre ospiti della nuova puntata di Chiesa di casa.

«Per molti commercianti – ha raccontato Roberta Caserini, interior e visual designer – i giorni di Natale sono i più intensi, e non è detto che riescano a viverlo insieme alle loro famiglie. In questo, mi sento di dirlo, servirebbe un po’ più di comprensione da parte dei consumatori». Molti, infatti, sono i negozianti che terranno le serrande aperte durante le feste, ma non saranno gli unici a vivere un Natale particolare. Nella comunità San Francesco di Marzalengo, gestita dalla Caritas diocesana attraverso l’impegno delle Suore Adoratrici per l’accoglienza di donne in difficoltà, «le festività hanno un sapore particolare». Sono queste le parole usate da suor Chiara Rossi, che ha sottolineato come «nonostante per molte ragazze sia vivo il ricordo di momenti speciali che ora sono lontani, ogni anno quelli del Natale sono giorni di vera festa, gioia e condivisione. Lo testimoniano l’attesa che li precede, insieme al tanto affetto che la nostra comunità riceve e, a sua volta, dona».

«È poi questo il cuore del Natale – ha sintetizzato don Luca Bosio, parroco dell’unità pastorale Monsignor Antonio Barosi – che, riproponendo ogni anno il mistero dell’Incarnazione, ci mette davanti a un bivio; da un lato la sola realtà, fatta di guerre e dolore, a cui si può rispondere con la stessa moneta; dall’altro un Dio che si fa uomo, bambino, chiedendo di essere accolto nelle pieghe della storia senza però diventarne schiavo. Come cristiani siamo invitati a riflettere su questa scelta, perché il dono che è Gesù, spesso, è scomodo: accoglierlo significa rendersi disponibili ad accettare le prove e le fatiche che la vita porta con sé, ma con la consapevolezza di non essere soli».

La solitudine, in effetti, è spesso vista come il nemico da cui guardarsi durante le feste, nonostante siano sempre di più le persone che si trovano a viverla. Secondo Roberta Caserini, però, «c’è ancora una certa cura per le relazioni. Nel mio piccolo lo vedo dall’attenzione con cui un dono viene scelto, o nei sorrisi dei bambini che si fermano davanti alle vetrine con i loro genitori».

Ancora una volta è la speranza a regnare nel giorno di Natale. «Nella nostra comunità – ha concluso suor Chiara Rossi – non abbiamo desideri utopici. Sappiamo bene che, per le ragazze che vivono con noi, non sempre tutto sarà semplice, o comodo. Quello che cerchiamo di far sperimentare loro è una vicinanza, una presenza amorevole che è poi la presenza del Signore che viene tra noi. Ci sta a cuore che loro sappiano di avere qualcuno su cui poter fare affidamento, come noi possiamo sempre affidarci a quel Figlio che si è fatto uomo per amore».

Il cuore di tutto, dunque, pare proprio sia un certo modo di esserci per l’altro. Per molti, si concretizza con l’esperienza di fede cristiana; per tutti, con un sentimento di vicinanza, condivisione e carità che, come mistero, pervade l’animo umano specialmente nel giorno di Natale.




Torna nel refettorio di San Pietro al Po la tradizionale mostra dei presepi

 

Lo scorso 9 dicembre è stata inaugurata la “Mostra di Presepi” nel refettorio della chiesa di San Pietro al Po di via Cesari. Una tradizione che da 12 anni non manca di sancire l’inizio del periodo natalizio a Cremona, soprattutto grazie all’impegno che gli artisti e i modellisti mettono nella creazione dei loro diorami, proponendo così ai visitatori un’esposizione sempre nuova ed innovativa. 

Veterana dell’arte del presepe ed appassionata della sua storia, Anita Diana, presidentessa dell’associazione Amici del Presepe di Cremona, è la principale responsabile dell’esposizione, e grazie all’aiuto incrollabile del marito da oltre un decennio riesce a collezionare ogni anno presepi diversi da esporre. Un pellegrinaggio quello della mostra di presepi che nacque con un carattere itinerante; infatti nel corso delle varie edizioni diverse chiese hanno fatto da sfondo all’esposizione,, fino ad arrivare in sede stabile nel refettorio della chiesa di San Pietro al Po, dove il parroco don Antonio Bandirali ha voluto che si tenesse ogni anno la mostra.

«Ogni anno i presepi sono diversi – spiega Anita Diana –. L’idea della mostra nasce dalla passione mia e di mio marito, quando abbiamo conosciuto l’associazione Amici del Presepe abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci con altri appassionati e da lì è nata l’idea di mettere in mostra i capolavori di questi artisti». E ogni anno la proposta espositiva si fa sempre nuova, infatti «si fa scambio di diorami con gli altri membri lombardi dell’associazione, in questo modo ognuno ha la fortuna di mostrare il suo progetto nelle varie città della regione, e tutto viene fatto a titolo gratuito, quasi a dimostrare l’amore che ognuno mette nel proprio lavoro».

Un anno quello del 2023 molto importanti per i presepisti, racconta infatti la presidentessa Diana che «ricorre quest’anno l’ottocentesimo anniversario dalla creazione del primo presepe, realizzato da San Francesco d’Assisi nel 1323. Il Santo ha raccolto persone ed animali in una stalla, così da rappresentare il miracolo della natività, e oggi noi ripercorriamo le sue orme, più in piccolo, certo, ma con lo stesso spirito di allora».

I presepi esposti alla mostra non si limitano solamente a copie da ammirare singolarmente, perché la novità sta nel percorso che i diorami raccontano. Messi uno di fianco all’altro, i presepi raccontano la storia della vita di Cristo, partendo dall’Annunciazione, soffermandosi all’incontro di Maria con la cugina Elisabetta, arrivando come da tradizione alla nascita del Salvatore, e concludendo l’excursus storico e tematico mostrando momenti della vita familiare di Gesù, come quelli che vive nella bottega insieme a San Giuseppe mentre impara l’arte della falegnameria. 

Sono presenti anche esposizioni di natura più inusuale, non tradizionali rappresentazioni della mangiatoia col bue e l’asinello, ma interpretazioni che collocano la natività in altri ambiti e contesti riproponendo il messaggio del Vangelo, che in questi casi viene letto ed analizzato sotto punti di vista completamente diversi da quelli più abitudinari. Un esempio è il diorama dal titolo Non ho né razza né colore, ascoltate solo la mia voce, che mostra la nascita di un bambino portato in braccio dalla madre, ma non c’è nessuna mangiatoia, tantomeno i magi. Al loro posto son presenti sullo sfondo elefanti, giraffe e leoni, animali tipici della savana centroafricana, regioni da cui intere famiglie partono affrontando viaggi pericolosi verso la promessa di una vita migliore.

La “Mostra di Presepi” sarà visitabile fino al 7 gennaio, con possibilità di accesso al sabato, dalle 15 alle 18, e nei giorni festivi dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18. Le visite saranno possibili anche a Natale e Capodanno, dalle 15.30 alle 18. Una sezione della mostra è invece allestita nel Salone dei Decurioni del Palazzo comunale di Cremona ed è accessibile dal lunedì al sabato dalle 9 alle 18.




A “Chiesa di Casa” si parla di musica, bellezza senza tempo che fa vibrare le corde dell’anima

Ricorre il 18 dicembre il 286° anniversario della morte di Antonio Stradivari. A Cremona questa data assume un significato particolare e questa giornata diventa infatti occasione per celebrare lo “Stradivari Memorial Day”. Una ricorrenza che, insieme alla Giornata mondiale del violino celebrata lo scorso 13 dicembre, offre lo spunto per la nuova puntata di Chiesa di Casa, in cui il dialogo si è sviluppato attorno al concetto di musica. Ospiti in studio il maestro Fausto Caporali, organista titolare della Cattedrale di Cremona e docente al Conservatorio di Milano, Paola Carlomagno, assistente alla Direzione del Museo del Violino di Cremona e responsabile della Segreteria scientifica, e il giovane musicista e compositore cremonese Tommaso Ruggeri, tra gli autori dei brani della fiction Braccialetti Rossi.

Quando si parla di musica, viene naturale parlare di corde. Corde fisiche, come quelle che compongono una buona parte degli strumenti musicali, come, per esempio, proprio il violino; ma anche corde emotive, le corde dell’anima. «Chi si sa commuovere, sa commuovere anche gli altri. Per cui le proprie corde che si mettono in vibrazione trovano corrispondenza in quelle degli altri – ha sottolineato a tal proposito il maestro Caporali –. È giusto che il musicista si lasci andare in qualche modo e comunichi quello che è il suo sentire. Sono sicuro che laddove c’è un’umanità, si trovi sempre una condivisione con il mondo». Un pensiero che trova risonanza in quello di Tommaso Ruggeri, che ha evidenziato come, seppur probabilmente non sia il fine primo del musicista, la fruizione, la condivisione, è ciò che «dà pieno valore alla musica, che altrimenti resterebbe puro esercizio mentale». D’altronde, come ha precisato Paola Carlomagno «cuore in latino si dice cor, cordis e il plurale di questo neutro, che è corda, stranamente ha come risultante di essere corda solo riferita alla corda degli strumenti musicali». E ha aggiunto: «Si tratta quindi di mettere a nudo il proprio cuore, i propri sentimenti, il proprio animo, attraverso la vibrazione di questo elemento senza il quale gli strumenti ad arco non potrebbero far sentire la propria voce».

E nella musica proprio gli strumenti giocano il ruolo del protagonista. Strumenti in continua evoluzione, che cambiano a seconda dei generi, che cavalcano a loro volta l’onda della tendenza. Strumenti nuovi, che sfruttano il progresso tecnologico, e, di conseguenza, strumenti che appartengono al passato e che trovano nei musei la loro nuova «casa». «Tutti quelli che arrivano hanno già un loro vissuto – ha spiegato l’assistente alla Direzione del Museo del Violino –. Quelli che abbiamo a Cremona sono per certi versi un non plus ultra, perché rappresentano varie epoche costruttive. E bisogna preservarne l’uso in modo ponderato». Antichi, dunque, ma non desueti. Pezzi di storia che naturalmente non hanno l’integrità di quelli più moderni, ma – ha aggiunto la Carlomagno – «che rappresentano qualcosa in più oltre al suono che sono in grado di emettere». Essi vivono dunque un processo di conservazione e monitoraggio costante, affinché restino davvero strumenti senza tempo.

La musica è arte, ma è anche quotidianità, ed è fondamentale viverla in modo condiviso. La musica vive grazie alla società, che però va sempre più di corsa, magari a discapito della qualità. «Fermiamoci un momento – ha concluso Caporali – perché c’è ancora un bello, che è stato, che è conservato e che resta nel tempo».




Una cesta di fraternità per vivere un Avvento di fraternità

 

Uno sguardo ai “lontani” – non solo geograficamente – si concretizza in ogni Avvento, attraverso l’iniziativa dell’Avvento di Fraternità, diventata ormai una solida tradizione per la Chiesa cremonese. Per quest’anno, come già successo nel recente passato, l’iniziativa, dal tema “Una cesta di bontà”, è destinata al sostegno di un’opera di solidarietà pensata, promossa e realizzata per le famiglie della favela di Salvador de Bahia, in Brasile: la distribuzione della “cesta basica”. Un gesto concreto di vicinanza a situazioni di profonda povertà reso possibile, anche grazie alle donazioni dei parrocchiani, dall’impegno della parrocchia bahiana di Jesus Cristo Ressuscitado, gemellata con la Diocesi di Cremona grazie al servizio di due missionari fidei donum cremonesi: il parroco don Davide Ferretti e Gloria Manfredini.

Ma, nello specifico, di che cosa si tratta? A spiegarlo è proprio il parroco di Jesus Cristo Ressuscitado, don Davide Ferretti: «È una vera e propria cesta che distribuiamo una volta al mese e, in casi particolari, anche una volta ogni quindici giorni. Contiene beni alimentari essenziali, come riso, fagioli, olio, zucchero, farina, latte in polvere e, alcune volte, anche prodotti per l’igiene, come sapone e shampoo». Un sostegno prezioso e sostanzioso, testimoniato anche dalla quantità di ceste che vengono distribuite ogni mese: «Il numero varia di volta in volta, ma arriviamo a distribuire fino a 60 o 70 ceste basiche nel quartiere».

«La cesta viene distribuita a famiglie povere con tanti bambini o con particolari situazioni di fragilità, ma anche chi vive momenti di difficoltà temporanei. È chiaro – osserva don Davide – che la cesta basica non risolve tutti i problemi, ma dà una mano per quel che riguarda perlomeno una delle cose essenziali, che è quella di poter mangiare». Un’attenzione, dunque, al povero, non soltanto nella dimensione della povertà economica; si tratta di incontrare e farsi carico di povertà trasversali a tutte le altre emergenze che caratterizzano la società in cui la parrocchia è inserita.

«La situazione di Salvador de Bahia non è come quella dell’Africa – evidenzia don Ferretti –. Noi spesso ci immaginiamo il povero come colui che non ha niente da mangiare e non ha l’acqua, ma qui non siamo a questi livelli: è una povertà di un altro tipo, spesso legata al problema del lavoro, di tipo culturale e sociale, con bambini e adulti che non sanno leggere e scrivere, e anche una povertà dal punto di vista medico e sanitario». Non un’estrema povertà economica, ma una povertà sociale «che purtroppo fa parte di questo mondo e per cui c’è bisogno di tanti altri aspetti, come scuole, presidi medici, ma anche luoghi di svago, che sono un modo per togliere ragazze e ragazzi dalla strada, che è sempre pericolosa». «In questi anni – conclude don Ferretti – ho capito che non possiamo venire qui e pensare di cambiare la loro vita e la loro storia, ma dobbiamo arrivare qui per imparare e per mettere qualcosa di bello, di positivo, dentro la loro storia, le loro fatiche e la loro quotidianità».

Con l’augurio «che la Diocesi di Cremona non si dimentichi di questa realtà, perché non è solo una questione economica, ma di attenzione, di presenza, di interesse a ciò che succede: è questa fraternità che fa sentire questa parrocchia, che è dall’altra parte del mondo, davvero come parte della Diocesi». Un percorso ancora lungo al quale dare supporto, un’esperienza di solidarietà che davvero testimoni la fraternità di questo Avvento.

 

Come donare

Sono diverse le modalità con cui sostenere l’iniziativa dell’«Avvento di fraternità». Anzitutto nelle parrocchie delle diocesi, rivolgendosi ai sacerdoti o aderendo alle specifiche iniziative di carità che potranno essere promosse a livello locale, in contesti di catechesi e non solo. Ma le donazioni possono essere effettuate anche direttamente a livello centrale, presso la Curia vescovile di Cremona, negli uffici di piazza Sant’Antonio Maria Zaccaria 5, o attraverso bonifico bancario intestato alla Diocesi di Cremona (iban IT28X0845411403000000080371) indicando come causale “Avvento di Fraternità 2023”.

 

Scarica la locandina dell’iniziativa

 

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Maria immacolata, «fiamma di purezza che accende la vera vita»

 

«Siamo chiamati a diventare famiglia santa che si raduna e gioisce per la bellezza della Madre di un’umanità che realizza il sogno del Padre: la comunione profonda che si allarga a chi nel mondo anela alla vita piena» queste le parole con le quali il vescovo di Cremona, Antonio Napolioni, ha aperto la Messa che ha presieduto nella solennità dell’Immacolata concezione, la mattina di venerdì 8 dicembre in una Cattedrale piena di fedeli, a dimostrazione della devozione viva e sentita della Chiesa cremonese alla Madonna.

Durante l’omelia, Napolioni ha ricordato che solo Maria è stata concepita senza peccato originale, ma «molti tra noi incarnano la sua purezza, anche vivendo forti responsabilità, in tutte le stagioni della vita e non senza una lotta interiore» perché la madre di Dio «rende possibile un cammino di realizzazione umana, per manifestare la bellezza interiore e l’affidabilità».

Il racconto della Genesi mostra come l’ascolto del maligno che si insinua dentro l’uomo sconvolge l’innocenza originaria. Alla domanda amorevole di Dio che chiede ad Adamo dove si è nascosto, il primo uomo risponde con la vergogna della propria nudità, «in origine segno della trasparenza» ora sorgente di diffidenza nei confronti degli sguardi degli altri. Ho proseguito quindi mons. Napolioni: «Questo pudore ci ricorda che una società che ci porta a essere sfacciati e a mostrare ogni cosa di sé per sentirci vivi, invece ci infetta». L’antidoto è il rispetto e la delicatezza: «A me e a tutti voi faccio questo invito: coltivare il pudore del pensiero, delle parole e delle azioni. Coltivare una purezza per camminare verso la vera essenza della nostra umanità». Maria ne è l’esempio: seguirla «non porta a mortificare se stessi. Maria è forse una donna a metà? No, è una donna che ha scoperto che è il Signore l’unico che può ricolmarla di vita e renderla forte, ospitale e madre feconda per l’eternità. È fuoco d’amore che scalda i nostri cuori». Napolioni ha concluso la sua omelia spiegando che la purezza di Maria non è qualcosa che ghiaccia e immobilizza ma, al contrario, è fiamma che incendia: «L’angelo la saluta dicendole che è piena di grazia, avvolta dallo Spirito Santo, che è una brace che arde per permettere al figlio di Dio di entrare nel mondo. Ci vuole la passione verginale della madre perché la passione messianica del figlio entri nel mondo, ci vuole passione degli adulti perché i ragazzi si appassionino alla bellezza vera della vita».




A Chiesa di casa il valore dell’attesa, in un tempo di cura e di apertura all’altro

 

Non esiste una vita senza attesa, e Maria, madre del Signore, ne è la testimonianza. È partita da questo presupposto la nuova puntata di Chiesa di casa, il talk di approfondimento della Diocesi di Cremona. Attraverso la presenza di tre ospiti, provenienti da mondi estremamente differenti, il focus è stato posto sul verbo «aspettare», con tutte le sfumature che esso può assumere.

«Quello dell’attesa è un tempo che ha un valore proprio – ha spiegato don Alex Malfasi, prete novello e vicario dell’unità pastorale Madonna della Speranza di Castelverde – perché non sussiste solo in funzione dell’evento che precede. Il tempo dell’Avvento, ad esempio, è certamente carico di una promessa, ma richiede di essere vissuto pienamente, giorno per giorno».

La dimensione della cura diventa allora fondamentale. A sottolinearlo anche le parole di Raffaele Leni, agricoltore e allevatore di Cappella Picenardi. «Quando si ha a che fare con la vita, soprattutto se si parla di vita che ancora deve vedere la luce, attenzione e dedizione sono fondamentali. Aver cura significa proprio prendersi a cuore il bene dell’altro. Nel caso del mio lavoro, parliamo di animali e piante, ma ancor di più vale per le persone. È un aspetto fondamentale ed è bello pensare che ognuno di noi, prima di esercitare la vita, ne è stato destinatario».

Ogni essere umano, infatti, richiede particolari attenzioni, già prima della propria nascita. «Quando si aspetta un bambino – ha raccontato Caterina Moretti, insegnante e giovane mamma – si provano molte emozioni diverse: impazienza, curiosità, gioia. Ciò che rimane costante, però, è il desiderio di prendersi cura di quella vita che sta crescendo, sia dal punto di vista materiale che emotivo. Altro aspetto fondamentale è poi la cura della coppia, che si prepara ad accogliere un dono molto prezioso».

Raramente mancano le paure, quando si parla di attesa, sia nell’ambito familiare che lavorativo, ma dalle parole di Raffaele Leni e Caterina Moretti emerge quanto sia centrale il rapporto con l’altro. Condividere i propri timori legati all’attesa affidandosi a chi si ha accanto è parso fondamentale.

La relazione, allora, diventa terreno fertile per vivere il tempo dell’attesa in modo davvero proficuo. Secondo don Malfasi «la comunità è luogo di condivisione in cui prendersi cura gli uni degli altri, in cui prepararsi ad accogliere quella promessa che si rende presente non solo nel giorno di Natale, ma in ogni momento della nostra vita di fede: rendersi conto di quanto si stia camminando nel cammino di sequela del Signore è fondamentale. E parlare di questo in Avvento, all’indomani della festa dedicata all’Immacolata Concezione, è ancora più significativo».

Con questa consapevolezza alle spalle, si aprono allora le ultime due settimane di attesa del Natale che, più delle precedenti, saranno cariche di attesa e desiderio di farsi trovare pronti per le celebrazioni del 24 e 25 dicembre.




Il vescovo Napolioni per i 120 anni dell’Unitalsi: «Un motore di carità, di condivisione, che fa bene a tutti»

 

Quella dell’Unitalsi è una storia di servizio che dal 1903, anno della sua fondazione, si è sempre alimentata del desiderio di essere uno “strumento” nelle mani di Dio, per portare la speranza dove c’è disperazione, un sorriso dove regna la tristezza. Partendo dai pellegrinaggi con i malati a Lourdes, con l’aiuto della Provvidenza, ha realizzato una serie numerosa di progetti in grado di offrire risposte concrete ai bisogni di ammalati, disabili e persone in difficoltà.

120 anni di servizio che sono stati celebrati dalla Sottosezione di Cremona dell’Unitalsi nella mattinata di domenica 3 dicembre, con la Messa presieduta dalle 11 nella Cattedrale di Cremona nel contesto della Giornata dell’adesione dell’Unitalsi, che come tradizione è stata vissuta nella Prima Domenica di Avvento. Presenti, insieme al presidente della Sottosezione cremonese Tiziano Guarneri, dame e barellieri, con volontari e amici dell’associazione che da più di un secolo è in prima linea nella missione dell’aiuto e del sostegno ai malati e ai bisognosi. Insieme al Vescovo hanno concelebrato l’assistente dell’Unitalsi cremonese, don Marizio Lucini, il rettore della Cattedrale, mons. Attilio Cibolini, e alcuni altri canonici della Cattedrale.

Nella sua omelia il vescovo di Cremona ha ringraziato l’Unitalsi e i suoi volontari per la presenza e l’impegno che muove le loro azioni, sottolineando che «è eloquente la vostra attività, ma soprattutto il senso di ciò che tanti anni fa fu intuìto come bello: accompagnare i malati a Lourdes e ai santuari d’Italia e del mondo». E riferendosi alla missione dei volontari, mons. Napolioni ha rivelato che «il senso è più profondo, è più universale, perché in questo gesto noi vediamo qualcosa che dice che la vita e la missione di tutta la Chiesa. Accompagna il mondo malato, di cui siamo parte, al tempio di Dio, cioè al monte santo, al santuario, laddove tutte le attese e le speranze vengono esaudite in maniera sovrabbondante dalla presenza misteriosa e fedele di Dio che dona se stesso, che dona il perdono, che dona la salvezza».

«Sono molto più frequenti e facili le guarigioni interiori che non quelle del corpo – ha ricordato il vescovo Napolioni –. Ed è quella la guarigione di cui tutti abbiamo bisogno, perché questa è la malattia del nostro tempo, aver smarrito il senso della vita, cadere nella disperazione, nella sfiducia», che è «tentazione radicale, costante del popolo di Dio, dell’umanità».

Ha poi concluso dicendo che «se Unitalsi significa trasporto ammalati, che bello che invece con il tempo cresca un’amicizia, una fraternità, un senso di comunità in cui io oggi aiuto te e domani tu aiuti me, e il più debole diventa un motore di carità, di condivisione, che fa bene a tutti. Questo è il volto di Dio incarnato».

I molteplici progetti dell’Unitalsi rappresentano da 120 anni un’opportunità per quanti vogliono condividere l’importante missione della carità, scegliendo l’ambito più vicino alla propria sensibilità e alle proprie attitudini, pronti a offrirsi per il prossimo, in un servizio fatto di vicinanza, ascolto e fede.

Per l’Unitalsi cremonese la mattinata si è conclusa in Seminario con un momento di festa condiviso.

 

Guarda il video integrale della celebrazione

 

La storia di Unitalsi

La storia dell’Unitalsi ha un legame particolare con il Santuario Mariano di Lourdes che, ancora dopo più di cento anni dalla fondazione dell’Associazione, è la meta privilegiata dei propri pellegrinaggi.

Era il 1903 quando il fondatore, Giovanni Battista Tomassi, figlio dell’amministratore dei Principi Barberini, partecipò al suo primo pellegrinaggio. Era un ragazzo poco più che ventenne, affetto da una grave forma di artrite deformante irreversibile che lo costringeva in carrozzella da quasi dieci anni; molto sofferente nel corpo e nello spirito per la sua ribellione a Dio e alla Chiesa. Avendo saputo dell’organizzazione di un pellegrinaggio a Lourdes, Tomassi chiese di parteciparvi con una precisa intenzione: giungere dinanzi la grotta di Massabielle e, qualora non avesse ottenuto la guarigione, togliersi la vita con un gesto clamoroso. Ma ciò, fortunatamente, non accadde. Davanti alla Grotta dove l’Immacolata era apparsa a Santa Bernadette, venne colpito dalla presenza dei volontari e dal loro amorevole servizio vedendo quanto la condivisione dei volontari regalava conforto, speranza e serenità ai sofferenti.

Al centro della storia c’è, quindi, la carità vissuta come servizio gratuito dagli oltre centomila aderenti, uomini, donne, bambini, sani, ammalati, disabili, senza distinzione di età, cultura, posizione economica, sociale e professionale.




Chiesa di Casa e il linguaggio nei segni

 

«Il segno è una relazione che si instaura tra una realtà sensibile e il suo significato». Sono queste le parole che il liturgista don Francesco Gandioli ha usato per definire il «segno» durante la nuova puntata di Chiesa di casa.In concomitanza con l’apertura del nuovo anno liturgico, che ha inizio oggi, con la prima domenica di Avvento, il sacerdote cremonese ha sottolineato come «il linguaggio della liturgia prevede il coinvolgimento della persona, utilizza segni capaci di parlare all’uomo nella sua interezza, rendendo l’esperienza di fede non solo qualcosa di materiale, ma concreta e tangibile».

A dare una lettura complementare rispetto a quella proposta da don Gandioli è stato Davide Tolasi, artista e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Brescia. «Viene naturale dire che l’arte, utilizzando il tratto grafico, tenta di lasciare un segno in chi la vive. L’artista mette qualcosa di sé nell’opera che propone, ma, allo stesso tempo, si ritira, per far sì che lo spettatore possa trovare una parte di sé in ciò che osserva».

Da entrambe le riflessioni proposte emerge allora come la relazione sia elemento fondamentale e decisivo per rendere presente ciò che il segno vuole significare. Sulla stessa lunghezza d’onda si è articolato anche l’intervento di Stefano Cariani, operatore socio-sanitario e studente al terzo anno di Lis, la lingua italiana dei segni. «Comunicare con chi non è in grado di utilizzare uno dei nostri sensi non è semplice – ha spiegato Cariani – perché richiede uno sforzo particolare. Innanzitutto, l’apprendimento di un linguaggio differente da quello che comunemente usiamo; inoltre, per dialogare con chi non riesce a sentire è necessario stabilire una vera e propria relazione. Gli sguardi, le espressioni sono fondamentali e dicono tanto di ciò che si vuole comunicare».

Oltre alla dinamica relazionale, emerge allora anche una decisa attenzione alla persona, intesa nel senso più ampio del termine.

«Chi contempla un’opera d’arte – ha spiegato Tolasi – non utilizza solo il senso della vista. Al contrario, l’immagine evoca un modo di vedere che non è degli occhi, ma coinvolge l’interiorità dell’individuo, che si trova totalmente coinvolto nell’esperienza della contemplazione».

Molto curiosa, secondo Cariani è anche la proposta dei «bar senza nome», «che sono gestiti da persone non udenti e pensati proprio per questa finalità: chi li frequenta è chiamato a essere totalmente in quel luogo. Per far sì che lo scambio e il confronto ci sia davvero, infatti, è necessario essere realmente nella relazione, osservando chi si ha di fronte e prestando la massima attenzione a ciò che accade, così da non perdere il contributo di nessuno».

A concludere la riflessione sul senso del segno è stato don Francesco Gandioli, che ha ribadito come «tutti i sensi dell’uomo sono coinvolti nella liturgia. Ma perché il suo linguaggio sia efficace, e dunque il segno si riveli per ciò che è, serve che il rito sia abitato, e cioè che se ne faccia esperienza. Questo richiede di stare alle “regole” che esso propone. Al di fuori di esse, i gesti perdono significato, non c’è un vero coinvolgimento della persona, e diventa dunque impossibile vivere quella relazione di cui il segno si fa portatore».

Una disponibilità totale a mettersi in gioco. Gli ospiti di Chiesa di casa, ognuno secondo il proprio ambito, hanno chiesto questo all’apertura di un nuovo anno liturgico, così che i segni che quotidianamente sperimentiamo e incontriamo siano davvero efficaci.




X Biennale Don Primo Mazzolari, fino all’11 febbraio 14 artisti in mostra a Palazzo dei Principi

Ritorna il Premio d’arte “Città di Bozzolo” dedicato a Don Primo Mazzolari dopo quattro anni di assenza e in una veste nuova e di largo respiro, con l’inaugurazione della mostra biennale internazionale da lui ideata nel 1954 e allestita nel rinnovato Palazzo dei Principi. Promossa dal Comune di Bozzolo e dalla Fondazione Don Primo Mazzolari e sostenuta da Enti e Istituzioni nazionali e locali, l’edizione 2023 è curata da Matteo Galbiati e vede 14 artisti partecipanti in corsa per il premio, assegnato da una giuria composta da esperti da tutto il mondo, e per un riconoscimento della giuria popolare, assegnato all’opera più votata dal pubblico dei visitatori.

Nel pomeriggio di sabato 2 dicembre, nella Sala Civica di Bozzolo, è stata presentata la rassegna d’arte, giunta alla XVI edizione sul tema mazzolariao “Ripensare lo spazio e il tempo” con alcune novità e che ha ottenuto l’alto riconoscimento della “Medaglia del Presidente della Repubblica”. Erano presenti, oltre al curatore, ai partecipanti e il pubblico, il sindaco Giuseppe Torchio, l’assessore comunale ai Beni culturali Irma Pagliari, il parroco don Luigi Pisani, il segretario della Fondazione Daniele Dall’Asta, il prefetto di Mantova Gerlando Iorio e il presidente della Provincia di Mantova Carlo Bottani. I quali hanno ringraziato tutti gli sponsor, i volontari, i collaboratori e gli studenti che hanno contributo alla realizzazione di questa manifestazione.

«Si tratta di una tappa importante nel percorso virtuoso per entrare nel sistema del turismo religioso e delle città patrimonio Unesco», ha esordito il sindaco Torchio nel complimentarsi con gli artisti. Nella prospettiva di valorizzare il patrimonio culturale locale, infatti, questa mostra rappresenta «il tassello di un quadro più ampio in grado di offrire al territorio delle nuove opportunità», per le ricadute sociali ed economiche.

Concetto ripreso anche dal presidente della Provincia di Mantova Bottani, il quale ha lodato queste operazioni «per rendere più attrattivi» questi nuovi «contenitori» alla comunità locale. Il prefetto di Mantova Iorio, citando don Mazzolari, ha voluto ricordare come queste iniziative siano tipiche dell’atteggiamento cristiano, «dell’uomo di pace e non dell’uomo in pace» in grado di modificare il tempo in cui si vive. Il segretario della Fondazione “Don Primo Mazzolari”, Daniele Dall’Asta, infine, ha portato i saluti della presidente della Fondazione Paola Bignardi, ricordando come «il tema scelto per l’edizione 2023 permette di richiamare l’importanza che spazio e tempo ebbero nella vita di don Primo» e di come la mostra è un tentativo di reinterpretare «l’essenziale di un messaggio che è per noi preziosa eredità».

Dato quindi lo spessore di questo premio storico si è avvertita nel comitato tecnico-scientifico e nel curatore «la responsabilità di rinnovare il premio in alcune sue caratteristiche», ha spiegato l’assessore alla Cultura Pagliari. Più giorni di esposizione, una veste grafica accattivante, conferenze e laboratori didattici sono le principali novità; ma soprattutto «la proclamazione dei vincitori e la premiazione avverranno l’ultimo giorno della mostra per creare maggiore partecipazione del pubblico nel votare la propria opera preferita». Inoltre, il vincitore verrà premiato con l’allestimento di una esposizione personale nel corso del 2024.

In questa relazione tra innovazione e tradizione «anche un piccolo centro come Bozzolo può accogliere grandi progetti improntanti alla contemporaneità», ha detto il curatore Matteo Galbiati nel presentare la rassegna e il processo di selezione delle opere. Il tema è diventato così titolo sul quale il curatore della mostra e della successiva monografia ha selezionato gli artisti partecipanti «dal curriculum già affermato» e «giovani dallo sguardo più aperto possibile», in un «senso di responsabilità nei confronti del pubblico e di una figura lungimirante come fu don Mazzolari» in grado di guardare il presente e in avanti. Tra ottiche e prospettive nuove – fili rossi dell’inaugurazione – Galbiati ha cercato artisti «in grado di sollevare domande invece di confermare risposte». Pittura, scultura e fotografia le discipline in esposizione, in un percorso espositivo in grado di metterle in relazione tra loro «sui temi comuni della natura, del sociale e del trascendentale per ritrovare un senso di comunità».  La mostra sarà visitabile fino all’11 febbraio 2024 nel Palazzo dei Principi di Bozzolo

Questi gli artisti in mostra: Alessandra Baldoni, Cesare Galluzzo, Armida Gandini, Marco Grimaldi, Asako Hishiki, Carla Iacono, Tamas Jovanovics, Lev Khesin, Gianni Moretti, Patrizia Novello, Maurizio Pometti, Gianluca Quaglia, Lucrezia Roda, Attilio Tono.