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Una festa della fede e della comunità in Cattedrale per la Dedicazione del nuovo altare della Cattedrale

Si è radunata intorno alla mensa eucaristica la Chiesa cremonese per la solenne celebrazione di Dedicazione dell’altare della Cattedrale domenica 6 novembre pomeriggio. Un rito storico, partecipatissimo, segnato da una serie di atti simbolici che hanno parlato di una tradizione e storia di fede radicata nel territorio ma condivisa a livello universale. Dopo 430 anni il duomo ha una un presbiterio rinnovato secondo le indicazioni sulla liturgia del Concilio Vaticano II.  «Tanta la gioia e la commozione» espressa dal vescovo Antonio Napolioni che ha presieduto la celebrazione.

I nuovi arredi sacri (altare, cattedra e ambone sul presbiterio) sprigionano, in tempi segnati da preoccupazioni e timori, un messaggio di «grande chiarezza: dalla Cattedra Gesù maestro ci dice “Io sono la guida”. Dall’ambone la Parola vivente del Padre dice: “Io vi parlo” e nell’altare Cristo si fa agnello, vittima, pane spezzato e dice: “Io vi nutro”».

Un messaggio (illustrato nell’omelia) fatto di luce, la stessa che splende sulle opere disegnate dal maestro Gianmaria Potenza che giocano sui riflessi del bronzo e del marmo, materiali potenti che, nelle intenzioni dei progettisti vogliono donare «qualità alla celebrazione».

Ed in effetti, si è trattato di una celebrazione di grande impatto, quella della Dedicazione, che ha visto intorno alla mensa oltre a Napolioni, otto vescovi (Dante Lafranconi, vescovo emerito di Cremona,  Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio originario della Diocesi di Cremona, Corrado Sanguineti, vescovo di Pavia e delegato CEI per l’edilizia di culto, Franco Agnesi, vescovo ausiliare di Milano e vicario generale dell’Arcidiocesi di Milano, Daniele Gianotti, vescovo di Crema, Maurizio Malvestiti, vescovo di Lodi, Giuseppe Merisi, vescovo emerito di Lodi, Francesco Giovanni Brugnaro, arcivescovo emerito di Camerino-San Severino Marche, e Gaetano Fontana, vicario generale della Diocesi di Brescia, in rappresentanza del vescovo Pierantonio Tremolada), don Luca Franceschini, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto, insieme ai canonici del Capitolo della Cattedrale, ai vicari episcopali, ai vicari zonali, ai coordinatori delle quattro aree pastorali e moltissimi sacerdoti.

I primi banchi di sinistra erano occupati dai preti e dai religiosi e religiose, mentre quelli di destra dalle autorità, il sindaco Gianluca Galimberti, il prefetto Corrado Conforto Galli, il questore Michele Davide Sinigaglia, i comandanti provinciali di Carabinieri e Guardia di finanza. Appena dietro le autorità il maestro Potenza e il team di progettisti guidati dall’architetto Massimiliano Valdinoci. A seguire tanti fedeli (arrivati anche con i pullman) che hanno riempito anche i transetti.

A segnare la solennità del rito anche il Coro della cattedrale insieme a quello di Castelverde, Soncino il coro Disincanto di Cremona, un quartetto di ottoni e all’organo Mascioni il maestro Marco Ruggeri.

Ad aprire la solennità la lunga processione dei celebranti da palazzo vescovile fino alla Cattedrale dove all’ingresso non è avvenuto il bacio della mensa perché ancora l’altare non era stato dedicato, cioè destinato per sempre al culto.

Poi l’apertura della celebrazione con l’evidente commozione dei presenti.
A Cremona si ha memoria di sole due dedicazioni in duomo. La prima annotata dal vescovo Sicardo il 16 giugno del 1196 quando vennero poste in un’arca le reliquie dei Santi Imerio e Archelao e venne dedicato l’altare; la seconda il 2 giugno del 1592 quando il vescovo Speciano dedicò l’altare e l’edificio. Quella del 6 novembre è dunque la terza solenne dedicazione per cui si è utilizzato il copione di un rito antico secondo cui l’altare ripercorre l’iniziazione cristiana, viene prima asperso con l’acqua (in ricordo del battesimo), poi unto (Cresima) e quindi usato come mensa per celebrare l’Eucaristia.

L’aspersione ad inizio messa dell’altare è stata seguita dalla proclamazione della Parola, con cui si è inaugurato ufficialmente l’ambone a cui è seguita l’omelia di Napolioni che ha ricordato come «le forme degli arredi, che ci trasmettono luce, vedo la chiamata a credere». Una chiamata che coinvolge ciascuno e tutta la comunità «perché – ha concluso la sua riflessione il vescovo – la Dedicazione di questo altare rappresenti la dedicazione di tutta la nostra vita, singolare e comunitaria a Colui che è la fonte della vita, dell’amore, della pace».

Quindi sono iniziate con le litanie dei santi cremonesi le preghiere di dedicazione. Una sequenza di gesti forti con il quale l’altare è diventato «simbolo dell’agnello, centro della nostra lode e comune rendimento di grazie».  In un sepolcreto, ricavato all’interno dell’altare, è stata posta un’urna (disegnata da don Gianluca Gaiardi, responsabile per i beni culturali della diocesi) con le reliquie degli antichi santi da secoli venerati in Cattedrale: sant’Imerio, vescovo patrono secondario della città e della diocesi di Cremona, e san Facio, testimone di carità di cui proprio quest’anno ricorrono i 750 anni dalla morte, oltre alle reliquie dei più recenti santi e beati cremonesi, dediti all’educazione e alla carità: santa Paola Elisabetta Cerioli, vedova soncinese che realizzò la sua vocazione nell’educazione della gioventù e degli orfani; il beato Arsenio Migliavacca, francescano originario di Trigolo fondatore delle Suore di Maria Santissima Consolatrice; san Francesco Spinelli, fondatore delle Suore Adoratrici del SS. Sacramento di Rivolta d’Adda; san Vincenzo Grossi, prete diocesano nato a Pizzighettone fondatore dell’Istituto delle Figlie dell’Oratorio; e il beato Enrico Rebuschini, camilliano che a Cremona spese la sua vita a servizio dei malati.

Poi  è avvenuta l’unzione del crisma (Cresima) dell’altare ad opera del vescovo e l’incensazione con un braciere acceso sulla mensa. Ed infine l’altare è diventato luogo dove si spezza il pane con la prima consacrazione delle ostie realizzate per questa occasione dai detenuti di Opera (Milano).

A conclusione della celebrazione la benedizione finale del Vescovo e la distribuzione ai presenti della lettera pastorale “La Casa dello sposo. Vivere oggi la nostra cattedrale”, per «dar voce – ha scritto il presule – alla gioia della Chiesa, sposa del Signore, che ha il privilegio di abitare la casa dello Sposo per stare con Lui e ricevere i suoi doni vivificanti».

 

Il video integrale dello speciale dedicato alla Dedicazione con la Messa presieduta dal vescovo Napolioni

 

 





«La casa dello sposo», la nuova Lettera pastorale del vescovo Napolioni

«I secoli hanno segnato, cambiato, arricchito e aggiornato il tempio maggiore della città e della diocesi, perché fosse sempre puntuale nel far vivere agli uomini l’oggi della grazia. La nostra Cattedrale è stata ed è romana e romanica, medievale, rinascimentale e barocca. La Riforma gregoriana ne è la matrice fondamentale e il vescovo Sicardo ha riccamente documentato l’antico fiorire di simboli spirituali. Il Concilio di Trento e il grande san Carlo ne hanno deciso l’attuale struttura, in funzione della vita liturgica e della coscienza di Chiesa di quel tempo. Rendiamo grazie a tanto coraggio, che all’epoca sarà pur sembrato improvvido. E prendiamoci ora la nostra parte di responsabilità, alla luce del Concilio Vaticano II, che si apriva proprio 60 anni fa, e che per la sapienza pastorale di due grandi lombardi, come san Giovanni XXIII e san Paolo VI, ha orientato la Chiesa a un buon rapporto con il mondo moderno, sulla soglia del nuovo millennio. Chiamando anche noi ad annunciare, celebrare e testimoniare la fede cristiana, nella contemporaneità».

Con queste parole, nella prima pagina dell’introduzione alla lettera pastorale La casa dello Sposo. Vivere oggi la nostra Cattedrale, il vescovo Antonio Napolioni definisce il contesto storico ed ecclesiale in cui si inserisce il progetto di adeguamento liturgico della cattedrale di Cremona che sarà svelato domenica 6 novembre alle 16 con la solenne concelebrazione di dedicazione del nuovo altare. Un evento storico per la Chiesa cremonese che da oltre 400 anni non viveva una dedicazione nella sua Cattedrale, ma anche un momento di riflessione e approfondimento su segni e modi del celebrare la fede oggi. Ed è proprio una meditazione quella che Napolioni offre alla diocesi con la lettera pastorale che proprio in occasione della dedicazione, viene distribuita in diocesi.

«Con questa lettera pastorale – si legge ancora nell’introduzione – il Vescovo non intende spiegare ciò che si è fatto, quanto dar voce alla gioia della Chiesa, la sposa del Signore, che ha il privilegio di abitare la casa dello Sposo per stare con Lui e ricevere i suoi doni vivificanti. Canterò gli sguardi e i pensieri che si accendono in me da questo luogo ricchissimo e affascinante, plasmato nel tempo dai diversi modi di celebrare, per offrire anche ai miei fratelli e sorelle un sentiero».

«Ora risplendono al centro della Cattedrale, ben visibili e inconfondibili, coronati dalle pagine della storia sacra e dai volti dei santi: altare, ambone, cattedra, dove le nozze si rinnovano, a ogni  di Dio e degli uomini». In dodici capitoli, impreziositi da un apparato di immagini che fondono i dettagli artistici dei nuovi arredi sacri alla tradizione liturgica e spirituale di cui il grande e meraviglioso edificio è segno nel cuore della città e della diocesi, immaginati «come le litanie processionali di un popolo in cammino», con le sue parole in vescovo accompagna lo sguardo dei lettori alla scoperta della nuova forma assunta dal presbiterio e, contemporaneamente, alla riscoperta del significato originario e ultimo di ogni celebrazione: l’incontro della comunità in preghiera con lo Sposo. «C’è una casa – scrive il vescovo Napolioni – che chiamiamo chiesa, perché in essa la Chiesa si raduna, e si rigenera».

La lettera pastorale si conclude con un appuntamento: «Quando la fretta non mortifica le nostre relazioni, terminata la santa Liturgia è bello restare sul sagrato, salutarsi, augurarsi ogni bene… è così che scelgo di concludere questa riflessione, dandovi l’appuntamento non solo in cattedrale, nelle più belle celebrazioni dell’anno liturgico, ma anche sulle strade della nostra città e dei diversi paesi. Perché il dialogo fraterno, imparato da piccoli nella casa dello Sposo, continui donando a tutti ragioni di speranza e forza per la vita».

 

La casa dello Sposo. Vivere oggi la nostra Cattedrale, edita da TeleRadio Cremona Cittanova in un agile volume di 44 pagine a colori, è disponibile a partire dal 6 novembre a Cremona presso la Casa della Comunicazione (via Stenico 3 – tel. 0372-462122) e la libreria Paoline. Sarà inoltre possibile richiedere la propria copia al costo di 1,50 euro anche scrivendo a edizioni@teleradiocremona.it. Il testo sarà disponibile anche nelle parrocchie delle diocesi.

 





Tutela e salvaguardia dei beni culturali, ma non solo

Con l’inaugurazione del nuovo presbiterio della Cattedrale di Cremona ormai alle porte, la nuova puntata di “Chiesa di casa”, il talk di approfondimento settimanale sulla vita della diocesi, è stata interamente dedicata ai beni culturali ecclesiastici.

«Quello di cui ci occupiamo – ha raccontato don Gianluca Gaiardi, responsabile dell’Ufficio diocesano per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – è principalmente la tutela e la salvaguardia del patrimonio culturale della nostra diocesi, senza però dimenticare che nostro è anche il compito di sensibilizzare la comunità al dialogo con il mondo dell’arte».

E proprio in questa direzione va il progetto di adeguamento liturgico del presbiterio della Cattedrale. «Quando abbiamo preso in considerazione quest’idea – ha spiegato l’architetto Gabriele Cortesi, membro della commissione diocesana per i beni culturali – siamo partiti dalla storia e dalla tradizione del luogo». Il merito del lavoro svolto dall’architetto Valdinoci e dall’artista Gianmaria Potenza è proprio questo, secondo Cortesi: un grande passo in avanti rispetto al passato, senza che sia avvenuta un’assolutizzazione dell’opera d’arte a discapito della liturgia.

La ricerca del bello, d’altra parte, è sempre stata un punto focale del progresso artistico. Da questo punto di vista, però, il rischio è che essa si ponga in contrasto con il messaggio del Vangelo, che invita a guardare gli ultimi, a ciò che spesso è definito “brutto”. Su questa linea di pensiero si è mossa la domanda di Elisa, giovane studentessa che si è affacciata alla “finestra” della trasmissione. «In effetti questo conflitto potrebbe apparire come insanabile – ha replicato Gaiardi – ma lo stesso Papa Paolo VI, nel suo celebre discorso rivolto agli artisti, ha chiesto loro di essere presenti per evitare alle persone di cadere in depressione. Questo è il motivo per cui, anche nella comunità cristiana si guarda al bello: è l’unico modo per guarire ciò che si presenta come più fragile».

In quest’ottica cresce ulteriormente l’attesa in vista della dedicazione dell’altare e dell’inaugurazione del rinnovato presbiterio della Cattedrale di Cremona, che «grazie al lavoro di progettazione e realizzazione operato, contribuirà a rendere maggior gloria all’edificio e alle celebrazioni liturgiche che in esso si svolgeranno», secondo l’architetto Cortesi.

Rifacimento del presbiterio, Museo Diocesano, tutela dei beni sul territorio: sono solo alcune della attività in cui è coinvolto l’Ufficio beni culturali, perché «l’arte è qualcosa che riguarda la vita di ciascuno, e poiché rimanda all’essenza stessa della persona, è sacra in tutte le sue forme», ha concluso don Gaiardi.




Dalle mani degli ultimi il Pane della Vita: preparate dai detenuti di Opera le ostie per la Messa di dedicazione

Sono stati i detenuti delle carceri di Opera (Milano) e di Castelfranco Emilia (Modena) a preparare le 35mila ostie che sono state usate durante le celebrazioni del XXVII Congresso eucaristico nazionale di Matera dal 22 al 25 settembre. In sintonia con quell’evento nazionale la Diocesi di Cremona ha voluto chiedere alla Fondazione “La Casa dello Spirito e delle Arti” del carcere di Opera il pane da usare nella Messa di dedicazione del nuovo altare della Cattedrale, domenica 6 novembre pomeriggio, quasi per ricevere il Pane della Vita da Cristo e dagli ultimi.

«Anche noi – spiega don Daniele Piazzi, responsabile dell’Ufficio liturgico diocesano – vogliamo unirci all’auspicio del cappellano di Opera che nei giorni del Congresso così scriveva: “Che possiamo cogliere e comprendere ancora di più che in quel piccolo pezzo di pane, che nutre la nostra fragilità umana, oltre ad esserci il Cristo Vivente, sono racchiusi anche i dolori dell’umanità, sono impressi i volti di coloro che vivono nelle carceri”».

L’iniziativa è nata nel 2016, anno del Giubileo e della Misericordia, all’interno del Carcere di Opera. Con la collaborazione della Fondazione Cariplo è stato avviato un laboratorio per la produzione di ostie che ha coinvolto alcune persone detenute.

La forza e l’immediatezza del progetto, che vede il pane per la celebrazione eucaristica prodotto da chi nel suo passato ha ucciso ma ha seguito un autentico percorso di conversione interiore e pentimento, ha incoraggiato l’adesione di oltre 500 tra Diocesi italiane e straniere, congregazioni religiose, parrocchie, monasteri, realtà cristiane e cattoliche, che hanno ricevuto e continuano a ricevere gratuitamente le ostie portando ad oggi alla produzione artigianale di oltre 4 milioni di ostie. Per richiedere in dono le ostie prodotte in carcere, infatti, basta scrivere a ilsensodelpane@gmail.com.

 

Scopri di più della Fondazione “La Casa dello Spirito e delle Arti”

 

 





Nella sfumatura c’è la soluzione




Riflessi incontra. L’istante in cui tutto può accadere




Avvenire, «Una finestra da cui affacciarsi per conoscere il mondo»

«Ogni lettore può trovare in Avvenire una finestra da cui affacciarsi per conoscere il mondo». Con queste parole il direttore dell’ufficio comunicazioni sociali della diocesi di Cremona, il giornalista Riccardo Mancabelli, ha voluto presentare il quotidiano dei cattolici italiani durante la puntata di “Chiesa di casa” dedicata alla giornata diocesana di Avvenire, che la Chiesa cremonese celebra domenica 30 ottobre.

Il programma televisivo, appuntamento settimanale di approfondimento sulla vita della Chiesa cremonese, ha posto al centro del dibattito la relazione tra giornale e lettore, «perché è proprio questo lo scopo di Avvenire: offrire a ciascuno gli strumenti necessari per riflettere su ciò che accade quotidianamente».

Dello stesso parere anche la professoressa Luisa Tinelli, già insegnante di filosofia e membro del Consiglio pastorale diocesano, che ha sottolineato come quello di Avvenire sia «uno stile comunicativo che non giudica, bensì apre al dialogo, all’approfondimento e alla riflessione critica».

Proprio per questo motivo, come ricordato da Mancabelli, in occasione della Giornata diocesana del quotidiano Avvenire, ci sarà una distribuzione straordinaria di copie nelle parrocchie cremonesi, «così che ciascuno possa sentirsi coinvolto e stimolato dallo stile comunicativo del giornale, al quale contribuisce anche la comunicazione diocesana curando le due pagine domenicali dedicate alla vita della Chiesa cremonese».

Comunicazione, però, non significa solo trasmissione di contenuti: c’è in gioco prima di tutto una dinamica relazionale. Proprio per questo motivo a giornalisti e lettori è richiesto «uno sguardo che sia prima di tutto umano – ha ricordato la professoressa Tinelli – cioè capace di andare alla radice, di scorgere la realtà dell’Incarnazione nella vita di ciascuno».

Ed è proprio questo l’obiettivo di Avvenire, così come dell’ufficio comunicazioni diocesano. Secondo Mancabelli la prima finalità di una buona comunicazione è quella di «offrire a tutti la possibilità di osservare il mondo, la realtà, con gli strumenti necessari a un discernimento serio, profondo e radicato».

La giornata diocesana del quotidiano Avvenire non viene dunque vissuta nel segno di celebrazioni particolari, bensì come occasione di riflessione e confronto sul legame tra Chiesa, umanità e quotidianità.




Don Davide Ferretti da Salvador de Bahia: «Teniamo viva l’attenzione missionaria»

«La prima cosa è non perdere l’attenzione missionaria. Quando un prete o un giovane parte per la missione all’inizio tutti se lo ricordano, poi passano due o tre mesi la vita va avanti e nessuno se ne ricorda più». Don Davide non alza il tono della voce, le sue labbra disegnano un sorriso bonario. Eppure dalle sue parole trapela come uno strattone alla vocazione missionaria della Chiesa cremonese. Il sacerdote fidei donum, collegato in webcam dalla parrocchia di Gesù Cristo Risorto, interviene nella puntata di questa settimana del Giorno del Signore, che dedica ampio spazio alla Giornata Missionaria. E lo fa ricordando proprio attraverso il volto e la voce di don Davide Ferretti, il legame e l’impegno che la diocesi ha assunto nei confronti della comunità di Salvador de Bahia dove da molti anni ormai operano sacerdoti e missionari cremonesi. Come tenere viva e proficua questa relazione di fratellanza? «Quando un prete o un giovane partono per la missione – riflette don Davide – all’inizio tutti se lo ricordano; poi passano due o tre mesi, la vita va avanti, e nessuno se ne ricorda più. Invece – ribadisce – la primissima cosa sarebbe proprio quella di mantenere una attenzione e una vicinanza cosante a questa parrocchia, a questa realtà e a tutto il mondo missionario». Il primo segno di questa attenzione può e deve arrivare dalla preghiera, continua il fidei donum: «C’era stata l’idea dell’adorazione eucaristica congiunta e diverse parrocchie si erano unite alla nostra nella preghiera. Un segnale bello di vicinanza. Poi certo, c’è anche l’aiuto economico, ma se si riduce tutto a quello non si produce molto. Ci sono cose ben più importanti».

Come ricorda il messaggio del Papa per la Giornata Missionaria 2022 («Sarete miei testimoni») è la testimonianza di uno stile missionario, condivisa anche a un oceano di distanza, a generare legami saldi nella fede. La testimonianza che i missionari danno con la loro vita, ma – come spiega bene don Davide – anche quella che giunge dai fratelli delle parrocchie di missione, come quella di Salvador: «Essere testimoni qui vuol dire cercare di vivere da cristiani la quotidianità anche in una realtà complessa come quella della favela. Vivere da testimoni è un tentare ogni giorno, da quando prepari i tuoi figli per la scuola, o ti prepari per il lavoro, oppure per cercarlo, un lavoro… cerchi di trasmettere con la preghiera e il modo di vivere l’annuncio del Vangelo. A volte questo ha del miracoloso, ma ci sono tante persone, mamme e papà che danno ogni giorno la loro testimonianza; anche a scuola tanti ragazzi testimoniano la loro passione per il Vangelo».

Una passione che i sacerdoti e i laici che dall’Italia partono il Brasile per una vita o un periodo di missione ricevono e condividono con le comunità in cui prestano il loro servizio. In queste settimane don Davide aspetta l’arrivo di don Andrea Perego, prete milanese, che giungerà nella favela grazie alla collaborazione missionaria tra le due diocesi lombarde: «Le esigenze sono tante per una parrocchia di 35mila abitanti – sorride il fidei donum cremonese – e in due si riescono a fare molte cose in più». Soprattutto se accanto a quei due ci sono le comunità sorelle che, dall’Italia, sono capaci di sostenere senza mai dimenticare.




Chiesa di casa, don Zanaboni: «Una Chiesa in uscita è capace di relazioni vere»

«Una Chiesa in uscita è capace di relazioni vere». Così don Umberto Zanaboni, incaricato per la pastorale missionaria e il primo annuncio della Diocesi di Cremona, durante la quinta puntata della nuova stagione di Chiesa di Casa, il talk di approfondimento pastorale. Ospite della trasmissione, nel cuore dell’ottobre missionario, insieme a Gloria Manfredini, insegnante con numerose esperienze missionarie alle spalle, don Zanaboni ha ribadito la necessità di una comunità cristiana «capace di incontrare l’altro, di farsi prossima, di uscire dalle proprie strutture per vivere relazioni profonde».

Ed è proprio nelle relazioni che i due ospiti del settimanale di approfondimento diocesano hanno individuato il cuore dell’esperienza missionaria. «L’idea stessa di partire – ha raccontato Gloria Manfredini, reduce da un anno nella parrocchia di Jesu Cristo Resuscitado, a Salvador de Bahia, in Brasile – non è circoscrivibile a un momento preciso, ma è espressione di un’esperienza ecclesiale fatta di incontri, persone e cammini condivisi».

Le parole chiave che hanno guidato la puntata sono state lette proprio in quest’ottica. La prima – vocazione – per don Zanaboni «ha un significato molto profondo, perché ci rimanda inevitabilmente anche alla dinamica del primo annuncio: la chiamata alla missione non è il semplice desiderio di partire, ma l’invito, rivolto a tutta la Chiesa, a farsi portatori e annunciatori del Vangelo».

Lo stile proposto, dunque, sembra essere quello della concretezza, del legame con la realtà. Soprattutto quando si parla di giovani. «Ai giovani piace fare – ha sottolineato don Zanaboni – più che ascoltare grandi discorsi. Noi cristiani dovremmo impegnarci maggiormente per dar loro la possibilità di spendersi, di crescere, di capire, di mettersi in gioco».

E proprio su questo punto si è aperta la finestra della trasmissione, la consueta rubrica dedicata al mondo giovanile. A porre una domanda decisamente provocatoria è stata Marta, giovane insegnante cremonese, che nel desiderio di «fare missione» legge un rischio: la risposta di compensazione a bisogni personali.

«Non possiamo negare che questo pericolo ci sia – ha risposto Gloria Manfredini, portando la propria esperienza – ma credo che sia giusto riconoscere sempre la positività del desiderio di partire per un’esperienza missionaria. Anche perché, poi, è la realtà stessa a metterci nelle condizioni di uscire da noi stessi per rivolgerci verso l’altro».

Uscita che è stata identificata come la terza parola chiave della trasmissione. «Uscire significa muoversi, abbandonare la sicurezza data dalle nostre architetture, fisiche e metaforiche, per andare verso, per incontrare, con il sorriso, chi ci sta intorno. Ecco il cuore della missione, ecco la vocazione della Chiesa, che non è semplice erogatrice di servizi», ha ribadito don Zanaboni. Alle sue parole hanno fatto eco quelle di Gloria Manfredini: «Uscire significa lasciare qualcosa alle proprie spalle – casa, famiglia, amici e comfort – per provare a lasciarsi stupire da ciò che si incontra».

Nel concreto della Diocesi di Cremona questo significa «ricordarsi della presenza della nostra parrocchia di Jesu Cristo Resuscitado, in Brasile, con la possibilità di raggiungerla per dare supporto, per sviluppare progetti legati al mondo dell’educazione o dello sport», ha ricordato don Umberto Zanaboni. «Significativo può anche essere l’aiuto fornito “a distanza”, che non è il semplice invio di denaro, ma un’idea di cura e condivisione che dovrebbe essere lo stile della nostra comunità».




Padre Bongiovanni, il linguaggio dell’amore nell’Africa dei bambini soldato

Fino a che punto può arrivare la crudeltà dell’uomo? Fino a che punto ci si può spingere a ferire un’altra persona? A certe domande è quasi impossibile dare una risposta, ma c’è qualcuno che per tutta la vita ha donato la sua libertà e il suo cuore per difendere e aiutare chi ha sperimentato sulla propria pelle alcune le crudeltà più indicibili. Come padre Vittorio Bongiovanni, missionario saveriano originario di Bozzolo, che all’età di 81 anni non ha ancora smesso di sorridere al pensiero di Gesù, al pensiero di poter essere presente laddove c’è più bisogno della sua presenza. Mercoledì, ospite della parrocchia di Cristo Re, a Cremona, ha raccontato che «in Sierra Leone la lingua ufficiale è l’inglese, ma ci sono ben sedici dialetti da dover imparare per poter comunicare nelle varie tribù.

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Non è certamente facile, ma c’è una lingua che tutti capiscono: quella del volersi bene. Siamo fratelli e sorelle, bisogna iniziare a volerci bene». Il problema principale che affligge la Sierra Leone è «la crudeltà dei ribelli, che si traduce nello sfruttamento dei più piccoli trasformati in soldati. Bambini di terza o quarta elementare costretti a imbracciare un fucile». Morte, disperazione e fede sono i tre elementi che caratterizzano le sua vita nell’emisfero australe. Ma è con nella sua mano un crocifisso, crudelmente privato da braccia e gambe da un soldato ribelle, che ricorda a tutti: «Se vogliamo aiutare qualcuno stiamo aiutando il Signore, e lui è sempre con noi, anche quando non sembra esserci altra speranza».