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Un condominio per “abitare” il futuro

Curiosità e interesse per la serata dedicata al progetto “Condomin-io Collabor-azione”, tenutasi la sera di lunedì 23 ottobre presso la Sala del Podestà di Soresina. Organizzata dall’associazione “Abbracciaperte”, l’iniziativa è stata un’occasione che ha riunito tante associazioni che hanno a cuore le dinamiche di un mondo che cambia e che si apre all’incontro, ma in un contesto che spesso è di scontro tra culture diverse.

Chiara Feraboli Fiameni, referente per l’associazione “Abbracciaperte”, ha condotto la serata, caratterizzata dagli interventi della pedagogista Laura Sivalli, soresinese e autrice del progetto sperimentato all’interno del Condominio Fernanda in cui vive, del pedagogista Johnny Dotti e della sociologa Chiara Nogarotti, autori del libro Generare luoghi di vita.

«Bisogna comprendere che dietro le finestre di uno dei palazzi più grandi di Soresina ci sono prima di tutto persone», ha sottolineato la Sivalli, sottolineando che la fatica maggiore sia quella di rompere i pregiudizi. Sono, infatti, tante le culture e le lingue al Fernanda, tanto da portare alla realizzazione di un regolamento tradotto in immagini con la collaborazione di alcuni inquilini che si sono sentiti per davvero a “casa”. Termine, quest’ultimo, importante per il pedagogista Johnny Dotti che durante la serata ha espresso l’importanza di ritrovare il vero senso dell’abitare. Non un rinchiudersi, ma un aprirsi all’altro, un po’ come le vecchie corti delle cascine dove si era di supporto l’uno con l’altro.

«Forse è arrivato il momento di iniziare a pensare, agire e immaginare che abitare viene prima di costruire – ha sottolineato Dotti a margine della conferenza –. In un tempo in cui siamo tutti isolati, in cui la popolazione anziana cresce così rapidamente, in cui non si fanno più figli, forse bisogna tornare a immaginare forme di relazione che ci vedono vicini, corresponsabili, un po’ più compassionevoli. Abitanti, quindi, della Terra, non soltanto esseri che stanno dentro delle costruzioni».

Chiara Nogarotto ha dunque fornito alcuni dati riguardanti la situazione attuale e che descrivono un panorama tanto triste quanto allarmante: sempre più persone vivono sole. C’è bisogno, quindi, di riscoprirsi creatori di comunità che fanno rete e intessono rapporti nuovi e veri.

L’assessore Alessandro Zanisi, in rappresentanza del Comune di Soresina, ha concluso gli interventi sottolineando come tutto questo lavoro di collaborazione possa essere capofila per condomini del Comune e per chiunque voglia interessarsi al progetto. Citando don Milani e il suo “I Care”, l’idea di “cura dell’altro” e di prossimità è il punto di partenza e non di arrivo di questo lavoro di cui si sentirà ancora parlare.

Hanno contribuito alla realizzazione del progetto: Azienda sociale cremonese, il comitato Soresina Solidale, il Centro culturale “Al Manar” di Soresina, la parrocchia di San Siro Vescovo di Soresina, il Gruppo Laudato sì’ della Diocesi di Cremona e il Comune di Soresina. Presenti in sala anche i rappresentanti delle autorità del territorio, nella persona del maresciallo Andrea Guarino dell’Arma dei Carabinieri e del comandante della polizia locale Giovanni Tirelli.




Casalmaggiore, al museo Diotti inaugurata la mostra che celebra Tommaso Aroldi

Una mostra in cui si illumina un territorio intero. Le chiese e le architetture civili dell’Oglio-Po da lui dipinte come “sale” di una grande galleria. Ma soprattutto i disegni inediti per scoprire la sua sconfinata curiosità. È forse questo il modo migliore di celebrare il talento poliedrico e inesauribile di Tommaso Aroldi, artista a tutto tondo e di punta del comprensorio casalasco a cavallo tra il IXX e il XX secolo, a cui è stata dedicata una prima personale inaugurata nella cornice del Museo Diotti di Casalmaggiore nel tardo pomeriggio di sabato 21 ottobre. Organizzata dall’ente museale insieme al Comune locale, con il contributo di Regione Lombardia, il patrocinio della Diocesi dei Cremona e la collaborazione del Comune di Guastalla, della Biblioteca Maldotti e della Pomì, la rassegna del pittore e architetto originario di Martignana di Po ha nel Diotti il punto di partenza del percorso creativo di Aroldi concentrato nell’arco di un trentennio. 

«Non è stato facile collocare una figura così ricca e variegata in questo luogo», ha esordito il curatore della mostra e del catalogo Valter Rosa durante la presentazione della raccolta d’arte. Alcuni ambienti del museo diretto dalla Roberta Ronda sono stati infatti riorganizzati in diverse sezioni, dagli esordi giovanili fino alle decorazioni d’interni, per offrire al pubblico «le numerose espressioni di questo artista prolifico e apprezzato anche a livello internazionale». Formatosi fra le Accademie di Parma e di Firenze dal 1885 al 1892 e attivo in un’area estesa della Bassa, comprendente Casalmaggiore e la provincia di Cremona, con importanti “sconfinamenti” nel Mantovano e nel Reggiano, Aroldi ha avuto una produzione intensissima praticamente in ogni campo. Dalla pittura da cavalletto dalle progettazioni architettoniche fino ai pendenti. Un’eredità così significativa, quella di Aroldi, «un “profeta in patria” in grado di disegnare l’aspetto e lo skyline della città», ha aggiunto il sindaco Filippo Bongiovanni. Considerevole è stata soprattutto la sua attività nell’edilizia urbanistica, come per il Palazzo Ducale e il Teatro Ruggeri di Guastalla, privata e dei luoghi di culto. In questo ultimo ambito fruttuosi e fecondi sono stati gli interventi pittorici o di restauro di Aroldi, sia di interi cicli decorativi come in S. Agata a Cremona, che di intera ri-progettazione, come la facciata della chiesa parrocchiale di Vicomoscano. 

Una rassegna dunque su larga scala, per la cui realizzazione sono state impiegate numerose forze e risorse, come ha ricordato l’assessore alla Cultura Marco Micolo, «grazie all’amministrazione comunale e all’impegno degli addetti ai lavori, in particolare allo studio e alla generosità del comitato artistico-scientifico e dei volontari di questa esposizione». Una rassegna resa possibile anche «grazie alla preziosa collaborazione dei discendenti», come ha ricordato Bongiovanni, e «ai proprietari delle abitazioni private», ha detto Rosa. In particolare, gli eredi hanno reso disponibili numerosissimi disegni – tra bozzetti, cartelloni e grafiche –, «del materiale mai visto prima e rivelatore sul talento e l’attività inedita di Aroldi perfino oltre i confini locali, oltre ad aprire nuove indagini sul profilo dell’artista» ha sottolineato Rosa. 

Un vero e proprio imprenditore dell’arte in grado di coinvolgere i più bravi artigiani della zona, oltre ai suoi più promettenti allievi della scuola di disegno “Bottoli” dove insegnò per quasi vent’anni, e lasciare un segno soprattutto nelle architetture civili e religiose. Si tratta di chiese, le cui aperture sono garantite solo a ridosso delle celebrazioni liturgiche, e di dimore private che – in quanto tali – sono visibili esclusivamente dall’esterno. All’interno del Museo Diotti è stato dunque installata una postazione con il quale integrare il percorso espositivo con la presentazione di materiali che per la loro natura risultano inamovibili. La mostra sarà visitabile fino al 31 dicembre 2023, con l’ingresso compreso nel biglietto d’accesso alle sale.




Giornata missionaria: cuori ardenti, occhi aperti, piedi in cammino

Nel 1926 venne celebrata per la prima volta la “Giornata missionaria mondiale per la propagazione della fede”, stabilendo che ciò avvenisse ogni penultima domenica di ottobre, tradizionalmente riconosciuto come mese missionario per eccellenza. In questo giorno i fedeli di tutti i continenti sono chiamati ad aprire il loro cuore alle esigenze spirituali della missione e a impegnarsi con gesti concreti di solidarietà a sostegno di tutte le giovani Chiese. Vengono così sostenuti, con le offerte della Giornata, progetti per consolidare la Chiesa mediante l’aiuto ai catechisti, ai Seminari con la formazione del clero locale e all’assistenza socio-sanitaria dell’infanzia.

Lo splendido racconto pasquale dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) fa da cornice e da motivo ispiratore del Messaggio di Papa Francesco per la Giornata missionaria mondiale di quest’anno, giunta ormai al suo 97° anno. Cuori ardenti, occhi aperti, piedi in cammino sono tre passaggi dell’esperienza dei due discepoli con il Risorto, che il Papa evidenzia e, con la sua profonda semplicità, propone per la sempre più urgente opera di evangelizzazione.

Come Chiese locali ci siamo ripiegati troppo su noi stessi, forse ingabbiati da tante paure e timidezze e schiavi di una routine che nella pastorale ci porta a fare sempre le stesse cose: una prova di questo è il calendario pastorale che, durante il mese di agosto, molti parroci compilano, programmando iniziative ed eventi che da decenni ormai si ripetono e che hanno una sola cosa nuova: il titolo o la grafica. Francesco non perde occasione per dire a tutto il popolo di Dio che mai come in questo momento dobbiamo rilanciarci nell’opera evangelizzatrice:

Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta… Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale. In realtà, ogni autentica azione evangelizzatrice è sempre “nuova” (Evangelii Gaudium 3).

Il messaggio di quest’anno merita di essere letto e approfondito, perché contiene delle linee guida che, attinte direttamente dall’autorevolezza del Vangelo, possono rendere feconda l’opera missionaria della Chiesa.

 

Cuori ardenti per le parole spiegate da Gesù

Evangelizzare è il miracolo dei miracoli, perché ci rende figli di Dio al di là di tutti i nostri programmi. Questo brano è un modello che può essere seguito da ciascuno di noi. Prima di pronunciare qualunque parola, il testo dice che: «Gesù in persona camminava con loro». Accostare una persona e dialogare con lei è il modo normale con cui la fede cresce e si diffonde, è il segreto e la base di ogni evangelizzazione. Non servono corsi o specializzazioni in Teologia. In passato erano le nonne a far vivere ai nipoti questa esperienza. Lo ha ricordato con orgoglio Papa Francesco fin dai primi momenti del suo pontificato: «Ho ricevuto il primo annuncio cristiano da una donna: mia nonna! È bellissimo questo: il primo annuncio in casa, con la famiglia!» (Veglia di Pentecoste 2013). L’amore ricevuto dal Signore ci spinge a comunicarlo. Ogni uomo e ogni donna hanno un solo bisogno: quello di essere amati. L’evangelizzazione non è frutto di un nostro programma, ma dell’azione di Dio che, anche attraverso lo strumento o la vicenda più indegna o impensabile, entra nella storia di una persona, anche in quella più lontana, e la innamora di Gesù e della sua Parola. Ogni volta che un uomo o una donna intercetta il Vangelo, ne sente la nostalgia, il profumo, il sapore, lo vuole. Sembra quasi che nell’uomo ci sia un bisogno innato di essere evangelizzato.

Il Vangelo non lo cogliamo nell’apice delle nostre virtù. È nelle nostre lontananze, è nelle nostre perdizioni che abbiamo bisogno di qualcosa d’altro. Non va dimenticato che quel «si fermarono con il volto triste», ci ricorda che i due di Emmaus stavano vivendo un momento di sconfitta e di fallimento, dovuto alla tragedia del Venerdì Santo.

Il primo passo da fare, dunque, è avvicinarsi, accostarsi, mettersi di fianco all’altro e fare il suo stesso cammino, come Gesù risorto che, per tutto il viaggio cammina con i due discepoli anche se «i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». Un episodio simile lo troviamo nel libro degli Atti degli Apostoli (8,29), dove c’è un espressione ancora più incisiva: «Disse lo Spirito a Filippo: «Va’ avanti e incòllati a quel carro». E Filippo si mette a correre. Incòllati è un comando meraviglioso. Il primo passo dell’evangelizzazione è entrare in punta di piedi nella vita dell’altro, ascoltare la sua storia, le sue ferite e, nel momento propizio, suggerito dalla grazia, annunciargli il Signore e il suo amore. Quando uno vede l’altro disponibile ad ascoltarlo e a dialogare con lui veramente, apre il cuore, si mette in gioco fino ad arrivare a chiedergli: «Perché non ti siedi vicino a me?».

«La Chiesa sa ascoltare – disse Francesco il 4 maggio 2017 –, la Chiesa sa che in ogni cuore c’è un’inquietudine: tutti gli uomini e tutte le donne hanno un’inquietudine nel cuore, buona o brutta, ma c’è l’inquietudine. Ascolta quell’inquietudine. Bisogna ascoltare cosa sente la gente, cosa sente il cuore di questa gente, cosa pensa. E anche se pensa “cose sbagliate” occorre capire bene dove è l’inquietudine».

 

Occhi aperti nel riconoscerlo

La grande sfida, annunciata dal Vangelo, che interpella i discepoli di oggi e di tutti i tempi sta negli occhi. Dov’è il Signore? Dove lo incontro? Noi cosiddetti “fedeli”, cresciuti pensando che fosse sufficiente il rito della domenica per obbedire al comandamento “Ricordati di santificare le feste”, dobbiamo riconoscere che il posto privilegiato della presenza del Signore Risorto sono le persone. Davanti a un uomo o a una donna, cosa vedo? Quando incontro gli altri non basta guardare: bisogna saper vedere, accorgersi che l’altro, che ha la mia stessa dignità, è un tabernacolo della presenza di Dio, anche se si trova ai margini o ha intrapreso strade sbagliate, perché preda della sofferenza o di un bisogno che lo ha portato a cadere. Stupende a questo riguardo sono le parole del servo di Dio don Primo Mazzolari: «Ci sono delle chiese piene, mi dicono. Vorrei domandarvi, non abbiatene a male: E quelli che sono fuori, li abbiamo dentro, o miei cari fratelli, nella nostra ospitalità cristiana? È facile credere in un Padre che non ha figliuoli, se non noi… l’unico figliuolo! Non si può, o miei cari fratelli, entrare nella casa di tutti con il nome del Padre e lasciarne fuori uno. Anche la comunione. Tocco la balaustra: è facile, o miei cari fratelli, ricevere una presenza eucaristica dove il colloquio finisce per diventare il piccolo dialogo del nostro egoismo, sia pure spirituale; è facile guardare un’ostia, anche con un occhio di fede. Ma che tremenda responsabilità se, dopo aver aperto il nostro occhio su questa presenza eucaristica, noi non sappiamo discernere il volto del fratello. C’è qualche cosa, o miei cari, che la paternità del Padre stabilisce inequivocabilmente per me, per tutti». (Missione Milano, 19 novembre 1957).

L’animo di chi annuncia il Vangelo non si forma con degli sforzi, né tantomeno obbedendo a norme imposte da chi sta in alto o da una ricerca intellettuale, ma quando uno inizia a vedere. Ogni volta che un cristiano e ancor di più un pastore accosta una persona deve chiedersi: cosa vedo? chi ho davanti? Se in quella persona riconosco il Cristo cambia tutto. In qualunque persona, anche in quella più lontana o apparentemente perduta. Una persona non è mai il suo errore, ma il risultato di una storia che lo ha portato a compiere questo errore. Sempre don Mazzolari, aggiunge: «Vedere è un dovere, il primo dovere. L’amore è occhi aperti».

Oggi, in un contesto dove da tempo “Dio è morto” ed è giunta “l’ora della morte del prossimo”, la Chiesa dovrebbe ricordare con forza che il dogma proclamato direttamente dal Vangelo è quello della presenza reale di Gesù nel prossimo. Che Gesù sia presente nell’Eucaristia è una verità di fede ormai maturata dal popolo cristiano. Ma che Gesù sia realmente presente nelle persone, specialmente in quelle più fragili e deboli, non è ancora una verità recepita e maturata da tutti.

Il Papa, nell’omelia per la festa del Corpus Domini, ad Ostia nel 2018, è stato chiaro: «Quante persone sono prive di un posto dignitoso per vivere e del cibo da mangiare! Ma tutti conosciamo delle persone sole, sofferenti, bisognose: sono tabernacoli abbandonati. Noi, che riceviamo da Gesù vitto e alloggio, siamo qui per preparare un posto e un cibo a questi fratelli più deboli. Egli si è fatto pane spezzato per noi; chiede a noi di donarci agli altri, di non vivere più per noi stessi, ma l’uno per l’altro. Così si vive eucaristicamente: riversando nel mondo l’amore che attingiamo dalla carne del Signore. L’Eucaristia nella vita si traduce passando dall’io al tu. Al termine della Messa, saremo anche noi in uscita. Cammineremo con Gesù, che percorrerà le strade di questa città. Egli desidera abitare in mezzo a voi. Vuole visitare le situazioni, entrare nelle case, offrire la sua misericordia liberatrice, benedire, consolare. Avete provato situazioni dolorose; il Signore vuole esservi vicino».

 

Piedi in cammino

Quando veniamo a conoscenza di una notizia stupenda non vediamo l’ora di raccontarla a qualcun altro, di condividerla e trasmettere a chi amiamo la stessa gioia che batte nel nostro cuore. Potrà sembrare un esempio banale, che toglie sacralità ai pensieri precedenti, ma lo trovo capace di esprimere tutta la forza di questi piedi in cammino, dopo aver riconosciuto la presenza del Signore. Da piccolo abitavo in una cascina. Come tutti i bambini avevo una predilezione per gli animali. Non dimenticherò mai la prima volta in cui ho visto con i miei occhi lo schiudersi delle uova, sotto una chioccia che stava covando. Avrò avuto sei anni. Era la settimana dell’Ottava di Pasqua. L’emozione provata nel cuore nel vedere questi pulcini la sento ancora dopo quarant’anni. Il primo pensiero? Quello di dover raccontare a qualcuno la cosa. Quella mattina a casa non c’era nessuno. Allora – contro tutti i divieti dei miei genitori – sono uscito e son passato da un negozio all’altro per cercare la mamma e annunciarle ciò di cui ero stato spettatore. Ecco il motore dell’evangelizzazione. Ecco ciò che da cristiani sedentari ci rende capaci di andare, coinvolgere, contagiare: la gioia di aver visto e vissuto un’esperienza che rende bella la vita.

È l’esperienza che fanno suor Carla, suor Veronica e suor Philomène, dell’Istituto delle suore Adoratrici di Rivolta D’Adda, quando dalla loro città di residenza, in Argentina, partono per i villaggi poveri della Patagonia e, insieme a un gruppo di giovani, visitano villaggi sperduti e condividono con la povera gente le pagine dure e piene di speranza del Vangelo.

È quanto vivono don Davide Ferretti, fidei donum della Diocesi di Cremona, e don Andrea Perego di Milano in una favela poverissima e violenta di Salvador de Bahia, in Brasile, visitando ogni mattina una o due famiglie della sua parrocchia, portando, insieme alla cesta basica, un sorriso e un messaggio di bontà o di riconciliazione.

È il quotidiano vissuto dal missionario saveriano padre Andrea Facchetti, originario di Viadana, che da diversi anni opera a Chemba, sulle rive dello Zambesi, in Mozambico: mentre fa scuola ai ragazzi o insegna un lavoro agli adulti non perde occasione per annunciare che il Vangelo ha il potere di cambiare la vita delle persone e, più di qualunque altro messaggio, è capace di dare all’uomo la sua vera dignità.

È la storia di Anna e Reno, coppia di sposi di Cremona, dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, che, da trent’anni, in Brasile, prima ad Araçuaì e ora a Salvador de Bahia, gestendo una casa famiglia con l’unico scopo di “seguire Gesù condividendo la vita degli ultimi”, hanno donato a decine e decine di bambini e ragazzi abbandonati un po’ dell’amore che ricevono ogni giorno dalla loro fede.

In mezzo a tanta confusione, immersi in un vortice che ha investito tutto rubandoci gli elementi fondamentali per vivere serenamente, non possiamo abbandonare la speranza e soprattutto – come Chiesa – perderci dietro quisquiglie liturgiche o pastorali di poco conto.

Illuminanti al riguardo sono ancora le parole di quel profeta che fu don Primo Mazzolari, in un suo libro commento all’episodio dei discepoli di Emmaus, scritto nel 1941, Tempo di credere: “Come sarebbe buono un apostolato che, invece di preoccuparsi delle cause per cui tanta gente non crede, provvedesse a far vivere la propria fede in chi non ha la grazia di viverla”.

Si, bisogna tornare a far vivere la fede e questo lo potranno fare solo cuori umili che messo da parte il proprio io o i propri interessi, abbracceranno senza giudizio le persone ferite dalle fragilità e dagli errori della vita, e doneranno loro l’unica persona veramente necessaria oggi: il Signore Gesù.

 

don Umberto Zanaboni
incaricato diocesano Pastorale missionaria
e vicepostulatore Causa di beatificazione don Primo Mazzolari




Deceduto il sanbassanese don Ermille Berselli, canonico della Cattedrale di Grosseto e parroco di Ribolla

È deceduto nel tardo pomeriggio di mercoledì 18 ottobre all’ospedale Misericordia di Grosseto, diocesi nella quale svolgeva il proprio ministero sacerdotale, don Ermille Berselli, originario di San Bassano, in provincia e diocesi di Cremona. Parroco di Ribolla e da poco canonico della Cattedrale di Grosseto, aveva 64 anni, compiuti in aprile. Era prete da 37 anni. A portarlo alla morte una malattia fulminante: il 17 ottobre era stato ricoverato in ospedale per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Nella serata di giovedì 19 ottobre si svolgerà una veglia funebre nella chiesa parrocchiale di Ribolla, mentre venerdì 20 ottobre alle 10 il vescovo di Grosseto Giovanni Roncari presiederà le esequie in Cattedrale. La salma, poi, prenderà la via per il territorio cremonese, a San Bassano, dove don Ermille aveva espresso la volontà di essere sepolto. È prevista la benedizione del feretro nella chiesa parrocchiale di San Martino vescovo, quindi la tumulazione nel cimitero del paese.

Don Ermille Berselli era nato a San Bassano. La sua vocazione era sbocciata in seno ai frati minori conventuali, da cui poi aveva sentito di doversi staccare per intraprendere un nuovo percorso. Affascinato dall’esperienza di Nomadelfia giunse in Maremma negli anni ’90. Nella comunità fondata da don Zeno visse alcuni anni, abbinando, nel contempo, anche il servizio come cappellano della casa circondariale di Grosseto. Successivamente divenne parroco di Roccastrada, quindi fu inviato nella comunità di Ribolla, che ha servito fino a questi ultimi giorni.

Il vescovo di Grosseto lo aveva nominato vicario episcopale per la zona collinare-costiera. In questa veste, fra le altre cose, aveva assunto il servizio di amministratore parrocchiale di varie parrocchie della sua Vicarìa (Giuncarico, Roccatederighi, Scarlino, Scarlino scalo, Boccheggiano), dove non era possibile avere la nomina di un parroco secondo la normativa civile.

Era anche presidente del Fondo diocesano di solidarietà, compito che svolgeva con grande scrupolo, consapevole che gestire il mutuo aiuto economico fra parrocchie più stabili ed altre più in difficoltà era un servizio al senso ecclesiale. Era impegnato anche nella Faci, la federazione tra le associazioni del clero in Italia.

A maggio, in occasione della solennità del Corpus Domini, aveva ricevuto in Cattedrale, dal Vescovo, la mozzetta e il medaglione che sancivano il suo ingresso come canonico del Capitolo della Cattedrale. Una dignità che lo aveva reso felice, anche perché gli dava modo, dalla periferia, di mettersi a servizio della chiesa-madre della Diocesi.

Poco più di un anno fa aveva perso il fratello Luca, più giovane di vent’anni, e quel lutto lo aveva profondamente segnato. Per questo era rimasto commosso quando, in occasione della cerimonia di investitura a canonico della Cattedrale, era giunta a Grosseto una delegazione del suo paese di origine, con a capo il sindaco: «In quella presenza – disse ai microfoni della trasmissione diocesana “Dentro i nostri giorni” – ho visto il segno di attenzione alla mia persona, ma anche di affetto verso mio fratello Matteo, giornalista del quotidiano La Provincia di Cremona».

«Per la nostra Chiesa diocesana è una dura prova – dice il vescovo Giovanni Roncari –. Don Ermille era un sacerdote ancora giovane, in forze, che ricopriva varie responsabilità in Diocesi, assolte tutte con il suo stile discreto, dimesso, al punto da apparire quasi impercettibile. Ma c’era ed era una presenza importante, che abbiamo imparato a stimare e a considerare in tutto il suo valore, senza che lui si imponesse mai. Ed era una presenza importante anche per la testimonianza sacerdotale che ha reso a tutti noi. Per questo a maggio avevo voluto annoverarlo fra i nuovi canonici della Cattedrale: era un riconoscimento alle zone più periferiche della Diocesi, ma anche un attestato di stima verso l’uomo e il sacerdote. Quando gli comunicai la mia decisione, don Ermille ne rimase commosso: era per lui, in qualche misura, il suggello del suo pieno inserimento in questa Chiesa diocesana».

 

Il video dell’insediamento di don Ermille Berselli come canonico del Capitolo della Cattedrale di Grosseto




Per i 300 anni della chiesa di Villastrada un convegno ne ha raccontato l’arte e la storia

Domenica 8 ottobre, nella chiesa di Sant’Agata in Villastrada, nel Mantovano, si è tenuto un convegno, aperto al pubblico, sulla storia e l’arte della chiesa, in occasione del trecentesimo della sua fondazione. Sono intervenuti due esperti d’arte: i professori Arturo Calzona e Michele Danieli. È stata presentata la relazione sulla ricerca storica effettuata da Edgardo Azzi, Rosa Marina Lombardi, Pierluigi Minghetti. Ha coordinato gli interventi Giorgio Milanesi, docente di Storia dell’arte e vicepresidente della Società Storica Viadanese.

Hanno aperto l’incontro il sindaco di Dosolo, Pietro Bortolotti, e Emanuela Pedrazzini, coordinatrice del Gruppo Oratorio di Villastrada.

L’incontro, che si è concluso con i ringraziamenti del parroco, don Angelo Ruffini, ha visto la partecipazione di tante persone che hanno apprezzato i diversi interventi, ammirato le bellezze artistiche e si sono appassionate alla narrazione storica basata sui documenti che fanno parte del nutrito e ben ordinato archivio parrocchiale.

È stata una giornata importante per la comunità villastradese e per tutto il territorio, una tappa significativa nel percorso che il Gruppo Oratorio di Villastrada ha tracciato per questo anno trecentesimo di un edificio che al valore religioso associa quello della bellezza del barocco mantovano.

R. Marina Lombardi




Dichiarazione della Presidenza CEI dopo l’attacco a Israele: “Tacciano le armi e si convertano i cuori!”

Di seguito la dichiarazione della Presidenza della Conferenza episcopale italiano dopo l’attacco a Israele.

L’attacco contro Israele e la reazione che ne sta seguendo, con un’escalation inimmaginabile, destano dolore e grande preoccupazione. Esprimiamo vicinanza e solidarietà a tutti coloro che, ancora una volta, soffrono a causa della violenza e vivono nel terrore e nell’angoscia. Chiediamo il pronto rilascio degli ostaggi. Come auspicato da Papa Francesco durante la preghiera dell’Angelus di oggi: “Gli attacchi e le armi si fermino, per favore, e si comprenda che il terrorismo e la guerra non portano a nessuna soluzione, ma solo alla morte e alla sofferenza di tanti innocenti. La guerra è una sconfitta: ogni guerra è una sconfitta!”.

Ci appelliamo alla comunità internazionale perché compia ogni sforzo per placare gli animi e avviare finalmente un percorso di stabilità per l’intera regione, nel rispetto dei diritti umani fondamentali. Quella Terra che riconosciamo come Santa merita una pace giusta e duratura, per essere punto di riferimento di “fede, speranza e amore”. Troppo sangue è già stato versato e troppo spesso di innocenti. Alle famiglie delle vittime e ai feriti giunga il nostro conforto. In questo mese, dedicato alla preghiera del Rosario, invitiamo tutte le nostre comunità a pregare per la pace: “Tacciano le armi e si convertano i cuori!”.




SOS dalla cupola del Duomo di Casalmaggiore: presentati gli interventi di recupero

È il simbolo della città e del suo importante passato. È quel “monte” visibile per chilometri e che attira gli sguardi su di sé, come ricordò il vescovo Antonio Napolioni nella sua ultima visita pastorale. È richiamata negli eventi, nelle feste, nelle iniziative della cittadinanza. È la cupola del Duomo di Casalmaggiore; una maestosità fragile e malata su cui le parrocchie casalasche hanno deciso di intervenire con un cantiere ad alta quota. Nel pomeriggio di sabato 7 ottobre, all’auditorium “Giovanni Paolo II” dell’Oratorio Maffei, è stata organizzata una presentazione pubblica dei prossimi e decisivi interventi strutturali all’edificio sacro. In particolare, si è mostrato l’iniziale e urgente restauro architettonico della lanterna della cupola della chiesa, ormai pericolosamente a rischio crollo dopo il terremoto del 2012.

Oltre al parroco don Claudio Rubagotti presente l’incaricato diocesano per i Beni culturali don Gianluca Gaiardi, il geometra e supervisore dei lavori Stefano Busi e il grafico Marco Visioli. Poco il pubblico presente, tra cui il sindaco Filippo Bongiovanni e il vicesindaco Giovanni Leoni. Un dettaglio che il parroco don Claudio Rubagotti ha rimarcato all’introduzione dell’appuntamento. «È qualcosa che riguarda e appartiene a tutti: il Duomo non l’ho fatto e voluto io ma, è una realtà condivisa. Spero ci sia un passaparola su che cosa si sta facendo a questa grande struttura e come intendiamo recuperare le risorse economiche per affrontare questa spesa immane».

Le operazioni di messa in sicurezza della lanterna e del tamburo della cupola, il primo e il secondo lotto delle tappe previste per il restauro della chiesa, comportano infatti da sole una spesa di circa un milione di euro. Un percorso finanziato per il 70% dalla Conferenza episcopale italiana tramite i contributi dell’8xmille per i successivi tre anni e svolto in sinergia con l’Ufficio Beni culturali della Diocesi, la Soprintendenza, le ditte partecipanti e i professionisti tecnici coinvolti. Le restanti e ingenti spese restano a carico delle parrocchie.

Don Gianluca Gaiardi ha descritto le scelte prese nel corso del tempo per il recupero e la conservazione della struttura, descrivendo questa progettualità «complessa, articolata e potenzialmente poco costosa» e in che modo la Diocesi «si è messa in gioco» nei processi burocratici per l’ottenimento delle autorizzazioni e dei contributi previsti «cercando di contenere le spese dei cantieri». Infatti, l’elemento oneroso dei preventivi di spesa è la creazione del ponteggio per la realizzazione del cantiere ad alta quota, a quasi 52 metri di altezza. «Ci auguriamo che le preoccupazioni non siano solo dei tecnici, dei sacerdoti o degli amministratori, ma anche di una comunità informata e che si prenda carico insieme di questa bellezza».

Il geometra Stefano Busi ha illustrato la critica situazione attuale e le soluzioni mirate a livello strutturale del “cupolino”, dove «la difficoltà maggiore è proprio l’altezza nel quale verranno eseguiti tali interventi». Se dall’esterno il suo aspetto sembra integro, all’interno i tecnici hanno rilevato «grosse sorprese purtroppo negative». Una volta costruito il ponteggio elevato e collaudato l’ascensore nel vano centrale, l’accesso all’interno della stretta lanterna ha mostrato la fragilità dei muri e come essa, durante il sisma, sia ruotata su se stessa e sia staccata dal resto della struttura, rimanendo «in piedi grazie alla forza di gravità».

L’intervento, dunque, consisterà nella sistemazione dei serramenti in ferro e nell’unione delle componenti esterne e interne del “cupolino” tramite perforazioni, in cui saranno inseriti dei tiranti d’acciaio per “ancorare” tutta la struttura in una sorta di “cintura” di sicurezza. La medesima operazione sarà eseguita anche con il tamburo sottostante, «rendendo tutta la cupola un corpo unico». Il secondo step, sfruttando dunque la presenza del ponteggio, «sarà risanare i serramenti lignei del tamburo, la verifica di tutte le vetrerie e infine il rinforzo dei maschi murari». In futuro si metterà mano al manto del tetto del Duomo e del sottotetto, anch’esso gravemente danneggiato dalle infiltrazioni d’acqua, «cominciando dall’abside alla sagrestia», per poi concludersi «sul portale d’ingresso e la parte sulla Fondazione Busi».

Da qui il nuovo appello di don Claudio a partecipare con una libera donazione, in particolare con l’iniziativa della raccolta fondi ogni terza domenica del mese durante le Messe, per arrivare alla copertura necessaria delle spese di cura questo simbolo incerottato.




Separati, divorziati e in nuove unioni: mattinata di formazione per le équipe di accompagnamento

Tempo di ripartenza anche per la pastorale familiare. Tempo di rimettersi insieme per sottolineare l’importanza di ogni cammino. Tra questi, nella diocesi di Cremona, ripartono a Caravaggio, a Cremona e a Viadana gli incontri sulla Parola di Dio per separati, divorziati e nuove unioni. E così è stata un’intensa e interessante mattinata quella di sabato 7 ottobre, in Seminario, guidati dalla fresca, sapiente e intelligente proposta di don Michele Roselli, vicario episcopale per la formazione dell’Arcidiocesi di Torino.

Incontrando le équipe di accompagnamento della Diocesi di Cremona per i cammini di persone divorziate, risposate e con nuove unioni, ha formulato la sua proposta dal titolo: “Leggere le scritture e sentirsi letti”. Egli è partito dalle domande che i gruppi di accompagnamento avevano fatto, al termine del cammino dello scorso anno, chiedendo soprattutto come leggere la Parola di Dio con persone che si accostano, ritornano, sentono vivo in sé il desiderio di coltivare la propria fede e di vivere nella Chiesa. C’è bisogno di qualcuno che si affianchi, semplicemente testimoniando che è possibile leggere, rileggere e provare a vivere il Vangelo. Gli “accompagnatori” servono a questo. Non a mettersi su un piedistallo, ma provando a formulare domande, leggere insieme con fede la Parola, provare a camminare insieme dentro quel testo. Partendo dal Vangelo di Matteo, con la parabola della pecora smarrita, don Roselli ha fatto quattro sottolineature importanti.

La prima che il Regno di Dio è vicino e la vicinanza, come spesso ripete il Papa, è il contenuto dell’annuncio. Dio è vicino anche a quelli che non lo accolgono, anche di fronte al gesto di scuotere la polvere dai propri piedi, perché Dio non è lontano da nessuno.

Chi vive nella Chiesa – è stata la seconda riflessione – scopre sempre l’abbondanza della messe, la mancanza degli operai, ma sa guardare al bicchiere mezzo pieno . Questo significa, quando si incontrano le persone, qualunque sia stata o sia la loro vita attuale, che si deve sempre considerare che Dio vede molto altro in loro. Non sono solamente “divorziati, risposati, nuove unioni”, ma anche sposi, mariti, mogli, genitori, professionisti, credenti, discepoli…

E la vita di ciascuno ha bisogno di un “noi”, di una “comunità”, cioè il luogo dove risuona la Parola di Dio e dove le nostre parole fanno eco a una Parola che continuamente precede e accompagna. Su questo terzo punto il relatore si è molto soffermato, anche nella ripresa finale. La vera domanda, che è stata anche il cuore della relazione, e che tutti quanti siamo invitati a farci, è: “Quali cammini Dio sta aprendo nel cuore della gente e che cosa chiede a noi, come cristiani, per aiutarlo?”. Non siamo noi che diamo la fede agli altri. Al massimo possiamo semplicemente essere una buona eco di quella Parola che salva, raggiunge, cambia la vita.

La quarta sottolineatura, ricordando che Gesù manda i discepoli a due a due e rileggendo l’inizio della prima lettera di san Giovanni, è stata quella di far riflettere sul fatto che la fede ha a che fare con la vita, necessariamente. C’è un “noi”, una fede comunitaria che è stata ricevuta e ancora è possibile trasmettere, ma deve diventare esperienza di vita. Il Vangelo usa il linguaggio di tutti i giorni, entra nelle case, nei luoghi di lavoro e invita a non giudicare, ma a prendere sul serio gli altri.

Parlando, dunque, a chi accompagna cammini particolari all’interno della Chiesa, don Roselli ha invitato continuamente, senza stancarsi, a riandare alla comunità cristiana, perché è in essa che si riceve il mandato di portare il Vangelo a tutti. A tutti, nessuno escluso. Senza parcellizzare la Chiesa in mille gruppetti, ma cercando di sentire la forza della comunità che accoglie, annuncia, vive nella carità e nella liturgia.

E quel Vangelo deve permettere che chiunque arrivi, si lasci incontrare dalla Parola. E si senta a casa, senta il profumo del pane, non si senta minimamente a disagio. Il grande impegno e la grande vocazione di chi accompagna qualcun altro non è “insegnare il Vangelo”, ma tenere acceso il fuoco e vigilare perché questo fuoco non venga mai meno. Come chiede Gesù nel vangelo.

Nella seconda parte della sua relazione don Michele Roselli ha potuto aiutare i presenti con delle sottolineature e con metodi per fare in modo che la Parola di Dio possa non solo toccare il cuore, la mente e la vita di chi annuncia, ma anche raggiungere il contesto specifico e reale di chi l’ascolta. Perché tutti insieme, come comunità, viviamo dentro un contesto e siamo raggiunti continuamente nella nostra vita reale. Non c’è una differenza tra la fede e la vita e la seconda non deve integrare la prima. Fede e vita sono un tutt’uno perché l’esperienza di credenti è vita reale nella quale poter vivere, esprimere, ricevere e testimoniare il Vangelo con fede. Anche i tempi all’interno della Chiesa sono tutti diversi perché, ciascuno di noi, è un “unicum” irripetibile.

Concludendo con l’immagine del mandorlo fiorito di Vincent Van Gogh il sacerdote torinese ha auspicato e augurato a tutti che la vita di annunciatori e testimoni sia come quel mandorlo che il famoso artista olandese dipinse quattro mesi prima di morire (1890), ricevuta la notizia della nascita di un suo nipote. Il mandorlo è il primo albero che fiorisce durante l’inverno. Non diciamo di essere nell’inverno della Chiesa o del mondo. Ma scopriamo con meraviglia che quell’albero, pur coi rami nodosi e tortuosi, sa ancora fiorire. Proprio come dice il profeta Geremia: “1,11Mi fu rivolta questa parola del Signore: “Che cosa vedi, Geremia?”. Risposi: “Vedo un ramo di mandorlo”. 12Il Signore soggiunse: “Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla”. Il Signore vigila sulla sua Parola e la realizza. “Come”, “dove” e “con chi” non ci è sempre chiaro. Ma sappiamo che vigila perché fiorisca e porti frutto.




Giornate FAI di Autunno, il 14 e 15 ottobre apre le porte il Monastero della Visitazione

Foto Davide Bruneri

Il monastero della Visitazione di Soresina apre straordinariamente le porte in occasione delle Giornate FAI di Autunno (14 e 15 ottobre). Occasione ogni anno per raccontare alcuni luoghi poco noti ma di grande importanza storico-artistica sul territorio.

Le visite al Monastero della Visitazione avranno durata di circa 30 minuti con partenza ogni 30 minuti il sabato (dalle 10 alle 18 con l’ultimo ingresso alle 17:30) e ogni 20 minuti la domenica (dalle 13 alle 18 con l’ultimo ingresso alle 17:30).

In occasione delle Giornate FAI sarà consentita la visita anche agli ambienti inaccessibili al pubblico, con la possibilità di conoscere la realtà e i ritmi della vita di clausura: a partire dalla chiesa sarà possibile visitare gli spazi del parlatorio, del chiostro, del coro comunicante con la chiesa, la sala capitolare e infine la tipologia di cella monacale.

A Soresina per le Giornate FAI saranno visitabili anche Palazzo Zucchi Falcina e il Teatro Sociale; a Cremona la Loggia dei Militi e Palazzo Manna.

 

Il Monastero della Visitazione

Pienamente inglobato nel tessuto storico di Soresina, centro abitato che si sviluppa in posizione pressoché baricentrica tra le città di Cremona e Crema, si colloca il Monastero della Visitazione Santa Maria, la cui area di pertinenza si situa nel tessuto urbano in un ampio lotto e la cui facies si impone sulla scena urbana.

Le fonti riportano che nel 1811, nell’ambito delle soppressioni napoleoniche, suor Maria Gaetana Ferrari, priora del Collegio delle Vergini di Santa Chiara, insieme ad alcune consorelle non volle rinunciare all’osservanza religiosa che l’imperatore francese intendeva impedire. La sua perseveranza fu ricompensata e nel 1816 fu nelle condizioni di ottenere la riapertura del monastero, dedicato alla Visitazione di Maria. Fondato grazie al supporto e alla guida di suore provenienti dal monastero della Visitazione di Alzano Lombardo, il monastero soresinese mantiene ancora oggi, dopo oltre due secoli, la regola di piena clausura.

Tra i monasteri claustrali ancora attivi nella diocesi di Cremona, il Monastero della Visitazione Santa Maria di Soresina si caratterizza per l’estesa fronte che si sviluppa lungo via Cairoli, dall’impaginato sobrio e di stampo ottocentesco. La facciata della chiesa, il cui fronte risulta scandito da due coppie di lesene appoggiate su basi quadrangolari che inquadrano le aperture, emerge sui corpi laterali: l’ingresso è sovrastato da un rosone circolare, tra le due aperture una decorazione a rilievo rappresenta un cuore sacro circondato da una corona di spine. Completa la facciata la trabeazione con l’iscrizione “Sanctae Mariae Hospitae” ed il timpano. La parte pubblica della chiesa, ad una sola navata è impreziosita dalla volta decorata a stucco ed è separata dalla chiesa interiore riservata alle suore da una grata. L’aula interna, in cui si trova il coro, è voltata, seppur priva di decorazioni, in linea con i caratteri costruttivi tradizionali delle chiese monastiche. Il complesso è completato dal chiostro porticato al cui intorno si sviluppano gli spazi comuni quale il refettorio, il parlatorio, diverse cappelle, l’aula capitolare, gli ambienti di servizio e le semplici celle.




L’insegnamento di don Milani raccontato da Francesco Gesualdi

Sono state parole di una forte testimonianza, insieme a una profonda analisi della realtà odierna, quelle di Francesco Gesualdi, alunno di don Milani a Barbiana dal 1957 al 1967, intervenuto nella serata di mercoledì 27 settembre presso la sede delle Acli di Cremona. L’incontro – dal titolo “Cittadini sovrani”, promosso dalla Tavola della Pace di Cremona in collaborazione con l’Ufficio Pastorale sociale e del lavoro della Diocesi di Cremona – non è stato solo un interessante momento di testimonianza sulla scuola di Barbiana, ma anche una riflessione ad ampio spettro sull’importanza del senso critico e sulla cittadinanza attiva alla luce dei principi costituzionali.

Quella di Gesualdi è stata un’esperienza piena insieme a don Lorenzo Milani: non solo frequentò la scuola, ma, orfano del padre da bambino, si trasferì con il fratello in casa di don Milani. Successivamente Gesualdi è stato fondatore e coordinatore del Centro nuovo modello di sviluppo di Vecchiano (Pisa) e autore di numerosi volumi.

«Don Milani venne mandato a Barbiana dove non c’era nemmeno la strada, si mette a totale disposizione della popolazione sapendo che quello di cui hanno più bisogno è la scuola. Partendo dagli adulti, principalmente contadini, che svolgevano la dura vita tra gli animali e i campi», ha esordito Francesco Gesualdi.

«Nel frattempo don Milani – ha raccontato ancora Gesualdi – si rende conto che c’è la necessità di rimediare a uno Stato latitante. Così inizia a fare scuola ai ragazzi che finivano le elementari. Per necessità – non per scelta – aprì questa scuola a modo suo. Una scuola a tempo pieno, perché questi ragazzi avevano solo due possibilità: stare a scuola o nei campi a lavorare».

Don Milani a Barbiana organizzò una scuola inserita nel contesto sociale, nella quale si impiegava la mattina per studiare le materie scolastiche e il pomeriggio per spaziare sugli altri aspetti della vita umana: «Una finestra sulla realtà per dare gli strumenti di conoscenza della realtà, per formare cittadini sovrani, permettere ai ragazzi di interpretare la realtà e fare delle proposte. Oggi spesso vediamo persone che attraversano la realtà nella quale siamo immersi senza nemmeno accorgersi di ciò che le circonda».

«Non può esserci sovranità popolare se non c’è un forte sentimento di dignità personale, se io non sono capace di gestire la mia esistenza insieme agli altri, insieme alla capacità di saper fare delle proposte» questo il grande insegnamento che Gesualdi ha appreso alla scuola di Barbiana.

L’incontro ha poi spaziato sul tema del rispetto della legge ingiusta che don Milani, partendo dalla critica dell’obiezione di coscienza alla leva militare, ha superato sul terreno della logica, utilizzando laicamente la Costituzione come punto di riferimento: «Non è stata solo una difesa dell’obiezione di coscienza: perché si ama la legge quando si ha il coraggio di non rispettarla. Siamo tutti responsabili di tutto, solo così eviteremo i drammi e le usurpazioni: questo è il messaggio civico dell’obbedienza. Sapendo che chi si mette fuori dalla legge non lo fa mai a cuor leggero, perché poi la legge ti punisce».

Infine, una riflessione di carattere sulla politica economica globale derivante dall’approfondimento sviluppato dal Centro nuovo modello di sviluppo di cui Gesualdi è membro fondatore: «Davanti alle povertà ci siamo posti delle domande e ci siamo dati un doppio tipo di risposta: la prima con il realismo, per intervenire verso chi ha bisogno in questo momento. Ma non possiamo ridurci a questo, perché si finisce nell’assistenzialismo che condanna a rimanere nella stessa situazione: studia la società che produce scarti, come dice Papa Francesco, e chiediti quali misure introdurre per porre rimedio a questo. Per questo serve la politica, una politica che si prende cura della realtà e che cerca di rimediare».

Quello di Gesualdi è un approccio innovativo, che necessita il superamento dei paradigmi sociali ed economici attuali: «La risposta è nel modo in cui l’economia è organizzata: noi siamo un’istituzione di base, siamo militanti. Il sapere prima di un diritto è un dovere, ma solo se alla fine del processo di conoscenza noi ci chiediamo come agire. Altrimenti anche il sapere diventa un tipo di consumismo. Ma dobbiamo definire se noi abbiamo un ruolo in questa macchina».

L’analisi ha ripreso alcuni temi cari anche a Papa Francesco: «Serve un nuovo sistema economico che faccia i conti con il concetto del limite, perché la terra è una palla limitata: bisogna cambiare paradigma, viviamo in un sistema che non è pensato per le persone, un sistema che è pensato per servire le imprese che fanno i soldi. Dobbiamo organizzare una nuova economia pensata per le persone».