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Quando la missione si fa accoglienza: la storia dal Brasile di Anna e Reno Riboni

Missionarietà vuol dire accoglienza degli ultimi. Questo è il carisma della famiglia che i coniugi Anna Rossi e Reno Riboni di Cremona hanno formato quasi quarant’anni fa e che da subito si è aperta a bambini e ragazzi di ogni età, prima in Italia e dal 1998 in Brasile. Ascoltare i loro racconti apre il cuore a un modo speciale di vivere la fede e la famiglia, seguendo il solco tracciato da don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, di cui fanno parte. Un’esperienza nata nel 1968 e che oggi conta 41mila persone nel mondo.

Come è nato il desiderio di partire?

«Noi diciamo di essere stati chiamati, anche se è un’espressione che ci fa paura. Don Oreste un giorno ci disse: “Non abbiate paura: se vi sentite realizzati e felici, vuol dire che state camminando nel progetto che Dio ha su di voi”. Così abbiamo lasciato l’Italia. Per tredici anni abbiamo vissuto a Minas Gerais e poi, grazie alle suore della Sacra Famiglia di Savigliano che ci hanno donato la casa, ci siamo trasferiti a Salvador de Bahia, che è una megalopoli, quindi più pericolosa, ma che offre ai nostri ragazzi più possibilità per studiare e lavorare. E poi la presenza della Diocesi di Cremona, con don Emilio Bellani prima e don Davide Ferretti ora, è un grande aiuto».

Quanti ragazzi avete accolto in Brasile?

«Tanti, forse una cinquantina, di tutte le età: da neonati ad adulti in recupero dalla tossicodipendenza o ragazze madri. In modo stabile 15 e di questi 9 sono stati anche adottati. Il nostro scopo è accogliere questi giovani fino a che le famiglie di origine non possono tornare a occuparsene».

Avete incontrato momenti di difficoltà?

«È meglio parlare al presente! I momenti di serenità sono i più numerosi, ma come in tutte le famiglie anche qui i problemi non mancano. Tra di noi, con i nostri figli e tra di loro. Noi ora abbiamo otto tra ragazzi e ragazze che vivono insieme. Noi li educhiamo tutti allo stesso modo, ma tra di loro sono molto diversi e con un passato difficile segnato dall’abbandono. Quello che hanno vissuto e che si ricordano riaffiora quando devono affrontare un conflitto o un momento di frustrazione».

Reno, per un periodo ha vissuto con voi anche Gioconda, tua mamma, venuta dall’Italia…

«Sì, ed è stata un’esperienza bellissima. Ha vissuto qui per due anni ed è arrivata che aveva già l’Alzheimer, quindi abbiamo dovuto accudirla. È morta qui, in casa con noi. Ai nostri figli manca il contorno dei parenti fatto di zii e cugini, perciò avere qui la nonna ha permesso loro di vivere anche questa dimensione. E poi è stata una donna eccezionale, che ci ha sempre accompagnato e sostenuto nelle nostre scelte, senza far pesare ai suoi figli l’ansia di dover realizzare ciò che lei non ha potuto. Questo è un grande insegnamento per noi, come genitori e come cristiani».

Cosa vi dà la forza per andare avanti?

«Loro sono figli nostri. Non possiamo abbandonarli. Il nostro compito è far sentire loro che la famiglia è il luogo dove c’è sempre qualcuno su cui contare. Non desistiamo nei confronti di nessuno. Per noi accettare il povero vuol dire accogliere Gesù. Non possiamo lasciarli, anche se irrecuperabili, perché sono strumento della nostra conversione. Lo dice anche lo statuto della Comunità Papa Giovanni XIII. Non siamo qui per salvare qualcuno, non ne siamo in grado, ma per santificare noi stessi».

 

Il saluto di Anna e Reno




Suor Elena Serventi: «In Mozambico ho imparato la gioia dei piccoli»

Per le religiose dell’istituto delle Suore Francescane Missionarie di Susa gli anni che precedono i voti perpetui sono dedicati a esperienze che chiedono loro di vivere pienamente una vita a servizio della Chiesa nel mondo. Lo sa bene suor Elena Serventi, originaria di Cingia de’ Botti, che per nove mesi ha vissuto in Mozambico.

Suor Elena, dove ha prestato servizio?

«Il mio istituto ha in Mozambico due fraternità e io sono stata in entrambe. A Catembe, villaggio della periferia della capitale Maputo, siamo presenti da tre anni; a Morrumbene, nella diocesi di Inhambane, da 27 anni collaboriamo con la Diocesi di Brescia che ha inviato lì il sacerdote fidei donum don Pietro Marchetti Brevi».

Che tipo esperienza ha fatto?

«A Catembe è stato avviato un progetto di doposcuola per i bambini: davo il mio aiuto lì e nelle altre attività della fraternità. A Morrumbene mi sono dedicata alle attività della pastorale e svolgevo il mio servizio anche nella scuola dell’infanzia parrocchiale: mi occupavo principalmente di catechesi e accompagnamento dei giovani. Ho anche curato le adozioni a distanza: le offerte che arrivano dall’Italia sono fondamentali per l’istruzione dei bambini che non possono permettersi la retta scolastica, ma che sono particolarmente meritevoli».

Ha attraversato momenti di difficoltà?

«I mesi sono trascorsi senza ostacoli particolari. Ci sono le difficoltà quotidiane che si possono incontrare quando bisogna adattarsi a uno stile di vita completamente diverso dal proprio. Per mia fortuna, però, conoscevo già il portoghese».

Ha parlato di uno stile di vita diverso dal nostro…

«Sì, la parola chiave è essenzialità. La cosa più d’impatto che si incontra una volta arrivati è la condizione di povertà in cui versa il popolo mozambicano. Il sistema economico è fortemente arretrato e questo si ripercuote sulle condizioni di salute e sull’istruzione».

Come si è sentita di fronte alla povertà?

«Vedere un popolo che soffre e che spesso non conosce una via d’uscita è doloroso, ma non mi sono mai sentita abbattuta. Purtroppo la povertà impone dei limiti dei quali chi vive in Europa non è consapevole. Le istituzioni e la burocrazia non aiutano, anzi, spesso sono di ostacolo».

Ora che è tornata in Italia, che cosa le manca di più del Mozambico?

«Tante cose: soprattutto l’apertura, l‘allegria, la generosità e l’accoglienza che caratterizzano i più poveri. Provano sempre una grande gioia e la sanno trasmettere a chi è vicino. Penso che siano dei maestri nell’arte dell’esprimere questo modo di approcciarsi alla vita con il canto. Anche nelle celebrazioni liturgiche; le loro Messe sono una vera e propria festa, con canti, balli e strumenti musicali».

Che cosa ha imparato?

«Che la grazia di Dio si manifesta più chiara dove la potenza dell’uomo è debole e così la fede, la speranza e la carità trovano un terreno di maggiore disponibilità. L’uomo occidentale crede di poter decidere da solo di tante cose, del proprio tempo. Ma forse si sbaglia. Ho conosciuto comunità che si arrabattano per guadagnare un piatto di riso per pochi giorni, ma non perdono mai la disponibilità e l’apertura verso i fratelli e verso Dio».

 

Il saluto di suor Elena Serventi




In Seminario l’ultimo saluto a don Bernardino Orlandelli

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«Chiediamo al Signore, per don Bernardino, di poter vedere dall’alto quello che non ha potuto vedere qui in terra: tutto ciò che la sua opera, la sua preghiera e l’offerta della sua sofferenza ha operato. Dio se ne è servito per delle cose straordinarie!». È l’augurio espresso dal vescovo emerito di Cremona, mons. Dante Lafranconi, che nel pomeriggio di venerdì 4 agosto nella chiesa del Seminario di Cremona ha presieduto le esequie di don Bernardino Orlandelli, deceduto giovedì mattina all’età di 85 anni.

Il vescovo emerito, affiancato dal vicario generale don Massimo Calvi e dal rettore del Seminario don Marco d’Agostino, ha portato alla famiglia e alla comunità il cordoglio e la vicinanza del vescovo Antonio Napolioni, impegnato in Portogallo alla Giornata mondiale della gioventù.

Insieme ai famigliari, una rappresentanza del movimento dei Focolari e della parrocchia della Beata Vergine di Caravaggio (di cui don Orlandelli è stato parroco per 15 anni, dal 1998 al 2013), con il parroco don Giulio Brambilla e il vicario don Davide Schiavon, insieme anche a molti altri confratelli. E c’era naturalmente la comunità del Seminario e della Casa del Clero, con cui don Orlandelli ha condiviso gli ultimi anni di vita e di ministero.

Nell’omelia il vescovo emerito Dante Lafranconi, prendendo spunto dalle letture, si è in particolare voluto soffermare sul ruolo del sacerdote, sottolineando l’opera di Dio nell’agire dei consacrati, anche se «a volte è difficile credere che quello che facciamo è attraversato dalla potenza salvatrice di Dio». Un invito, in altre parole, a «credere in noi stessi». Sottolineando poi che «fare memoria» non è solo ricordare il passato, ma «riconoscere l’opera di Dio nel presente». Da qui il richiamo a una «fede che entra nella vita» insieme all’invito a non perdere la fiducia in se stessi quando non si vede germogliare il seme gettato.

«Anche quando si affacciavano i limiti più evidenti nella vita di don Bernardino – ha proseguito Lafranconi – questa fede aveva il suo posto, trovava la sua stabilità, era motivo di conforto e di consolazione. Perché nonostante vengano meno le capacità, le forze e tante altre cose, Dio continua a operare. Ecco perché noi preti abbiamo sempre tanto bisogno di essere sostenuti dalla preghiera e dalla fede del nostro popolo. Perché anche noi, a nostra volta, possiamo diventare un sostegno di fede per tutti i credenti».

Il vescovo emerito ha poi ricordato la vicinanza di don Bernardino al movimento del Focolari. Ricordando poi che l’appartenenza ai gruppi ecclesiali non deve diventare motivo per estraniarsi, «ma è per fare entrare meglio nella nostra esistenza quotidiana quella forza di vita di cui ognuno di noi è rifornito dal giorno in cui è diventato figlio di Dio nel Battesimo. E ciascuno di noi preti è fornito con la grazia dell’ordine sacerdotale».

Quindi, dopo aver citato un passo di Chiara Lubich sul senso della vita, ha concluso: «Caro don Bernardino, tu che hai già fatto questo passaggio, ti pensiamo volentieri che, dopo aver visto il volto sfigurato del Cristo abbandonato, possa tu contemplare ora, per sempre, il suo volto trasfigurato nella gloria: contemplarlo senza fine».

 

Omelia del vescovo emerito Dante Lafranconi

 

Al termine della Messa il feretro è stato trasferito a Pomponesco, suo paese natale: alle 21 nella chiesa parrocchiale la preghiera del Rosario; nella mattinata di sabato 5 agosto, alle 9.30, le celebrazione di commiato e a seguire la tumulazione nel cimitero del paese.

 

Profilo di don Bernardino Orlandelli

Nato a Viadana il 9 novembre 1937, originario di Pomponesco (dove sarà sepolto), don Bernardino Orlandelli è stato ordinato sacerdote il 27 giugno 1964 insieme ad altri 17 confratelli. Dopo essere stato vicario a Sabbioneta, nel 1976 è stato trasferito a Pozzaglio come parroco. Dopo sei anni è diventato parroco di San Giovanni in Croce, dove è rimasto 16 anni. Nel 1985 è stato anche vicario zonale dell’allora Zona pastorale XI.

Nel 1998 il vescovo Giulio Nicolini l’ha trasferito a Cremona, affidandogli la cura pastorale della comunità della Beata Vergine di Caravaggio, la parrocchia accanto all’Ospedale che ha guidato sino al 2013, al raggiungimento del limite d’età previsto.

Negli anni successivi ha svolto il proprio ministero come collaboratore parrocchiale dell’unità pastorale Cafarnao (Binanuova, Ca’ de’ Stefani, Gabbioneta, Pescarolo, Pieve Terzagni e Vescovato), ritirandosi quindi nel 2019 a Villa Flaminia e successivamente nella Casa del Clero in Seminario.

Il decesso è avvenuto all’alba di giovedì 3 agosto, presso la casa di cura Ancelle della Carità di Cremona dove era ricoverato da diverse settimane: l’aggravamento delle sue condizioni di salute lo aveva portato a un ricovero in ospedale circa un mese fa, seguito dal trasferimento nella clinica di via Aselli.




Arriva fino a noi il messaggio di don Primo contro la guerra. Presentato a Cremona il libro “La pace. Adesso o mai più”

 

È stato presentato nel pomeriggio di venerdì 14 luglio presso la Sala conferenze della Biblioteca statale di Cremona il libro “La pace. Adesso o mai più”, una nuova raccolta di testi di don Primo Mazzolari curata da don Bruno Bignami, postulatore della causa di beatificazione di don Primo, e dal vicepostulatore don Umberto Zanaboni. Ad aprire la presentazione Walter Montini, presidente della sezione cremonese dell’Unione cristiana imprenditori dirigenti (Ucid). Insieme ai curatori del libro anche la direttrice della biblioteca, Raffaella Barbierato.

 

Ascolta l’introduzione di Walter Montini

 

«Come spesso capita la pubblicazione di un libro ci supera – ha esordito don Bignami presentando il volume che consiste in una raccolta di scritti sul tema della pace elaborati da Mazzolari estrapolandoli dal quindicinale Adesso nel periodo dal 1949 al 1959 – abbiamo iniziato a pensare a questo libro dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina», ha spiegato, sottolineando che il libro è introdotto dalla prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana nelle scorse settimane in missione di pace proprio a Kiev e Mosca come inviato di Papa Francesco.

 

Ascolta l’intervento di don Bruno Bignami

 

Il tema della pace per don Primo è centrale: «Ha vissuto le due guerre mondiali in modo diverso, ma come protagonista, nel senso che l’hanno segnato in modo radicale e profondo – ha spiegato don Bruno Bignami – nell’elaborazione del suo pensiero su questo tema Mazzolari si accorge che le guerre del Novecento riguardano i civili, non solo gli eserciti, fino ad arrivare alle conseguenze catastrofiche della bomba atomica».

Quindi Bignami ha voluto sottolineare come il pensiero mazzolariano non è rimasto circoscritto: «Questi concetti sono stati analizzati anche dentro la Chiesa e ci si è accorti che il teorema della guerra giusta andava messo in discussione».

Un tema importante analizzato da Bignami ha riguardato quindi la capacità del parroco di Bozzolo di raccogliere le istanze delle diverse parti durante la Guerra Fredda, senza mai semplificare in logiche di mera contrapposizione: «Mazzolari fa una scelta, ma, pur essendo atlantista, spiega che bisogna stare attenti a muoversi, pone il tema di quante armi e di quali armamenti perché un conto è la legittima difesa, mentre un altro è l’utilizzo di altre armi, come le armi atomiche. Non assolve il mondo che ha deciso di sostenere».

Quindi, Bignami ha concluso il suo intervento ricordando come: «”Agonizzare per la pace” è un’espressione tipica di Mazzolari, la quale indica la necessità di “stare in mezzo” perché la pace si costruisce aprendo un dialogo tra le parti. Queste pagine ci aiutano a capire il contesto attuale nel quale abbiamo bisogno di questa profezia che non è astratta perché l’esperienza della guerra per Mazzolari è un’esperienza concreta dalla quale ne conclude che la tragedia della guerra la pagano gli ultimi».

È intervenuto, quindi, don Umberto Zanaboni il quale ha esordito ringraziando la direttrice Barbierato per l’aiuto e il supporto forniti nella ricerca del materiale raccolto durante la prima fase del processo di beatificazione.

 

Ascolta l’intervento di don Umberto Zanaboni

 

«Alcuni suoi temi cardine sono ormai entrati anche nel magistero della Chiesa – ha spiegato don Zanaboni – come il tema fondamentale  della fraternità: Mazzolari si trova a predicare di un Cristo che è morto per tutti, mentre la logica della guerra porta agli schieramenti».

Zanaboni ha quindi ricordato come un altro tema molto caro a don Primo riguarda il fermare la corsa agli armamenti: «Prima di tutto – ha osservato il sacerdote – la spesa per armarsi sottrae risorse alla spesa sociale, ad esempio agli investimenti per sanità e scuola, ma Mazzolari dice che armarsi crea i presupposti per la guerra. La guerra si alimenta con la creazione del nemico».

La riflessione è proseguita con un’analisi del pensiero di Mazzolari che vede nella guerra una bestemmia: «Tema importante è la paternità di Dio, che dona la misericordia all’umanità: nel libro Tu non uccidere Mazzolari arriva a dire che la guerra è deicidio perché dentro ogni uomo c’è l’immagine di Dio».

 

Ascolta l’intervento di Raffaella Barbierato

 

A concludere la presentazione del libro la riflessione della direttrice della biblioteca Raffaella Barbierato, la quale ha voluto evidenziare due diversi livelli di lettura di questo libro: «Possiamo leggere questo libro come una raccolta di scritti dal periodico Adesso dove ogni affermazione ha un suo riferimento storico o cronachistico, ma se riusciamo per un attimo a non leggere le date, a non andare a leggere le note storiche e ci estraniamo a leggere solo le parole di don Primo, riusciamo a vedere il continuo riferimento all’oggi».

La direttrice Barbierato ha anche voluto ricordare il fatto che è conservata presso la Biblioteca di Cremona la raccolta del periodico Adesso: «È anche orgoglio della Biblioteca avere conservato queste pagine perché è qualcosa che serve». A noi, oggi.




Nel ricordo del vescovo Nicolini l’invito a vivere una sinodalità che deve tradursi in stile di vita

Era il 19 giugno 2001, un martedì mattina, quando in città e in diocesi si diffuse, in modo del tutto inatteso, la notizia dell’improvvisa morte del vescovo Giulio Nicolini. Per otto anni aveva guidato la Chiesa cremonese, che presto avrebbe affidato a un successore per il raggiungimento dei 75 anni. Il 22esimo anniversario della sua morte è stata come sempre occasione di preghiera per lui. Lo è stata in particolare la Messa che il vescovo Antonio Napolioni ha presieduto nel pomeriggio di lunedì 19 giugno in Cattedrale. Circostanza in cui celebrare anche «il mistero della comunione ecclesiale tra il popolo e i suoi pastori» ha detto il vescovo Napolioni, che nell’omelia ripreso alcuni scritti di monsignor Nicolini in riferimento al Sinodo.

La Messa, che come consueto si è conclusa nella cripta della Cattedrale, dove riposano le spoglie del vescovo Giulio Nicolini, è stata concelebrata dal vescovo emerito di Cremona Dante Lafranconi (che prese il testimone da Nicolini), i canonici del Capitolo della Cattedrale e don Flavio Meani (che fu segretario del vescovo Nicolini).

Per rileggere la figura di monsignor Nicolini, il vescovo Napolioni ha ripreso i testi di alcune sue lettere pastorali, in particolare tessendo un riferimento all’oggi attraverso il tema della sinodalità. Il vescovo Nicolini, che portò a termine in diocesi il Sinodo aperto dal vescovo Enrico Assi, scriveva così: «Sinodalità indica una mentalità, un modo di pensare e quindi di agire, contrassegnato dall’insieme. Questa parola – insieme – ricorrere ripetutamente negli Atti degli Apostoli con varie sfumature del significato fondamentale di comunione e carità. Sinodalità fa pensare a una sensibilità che si traduce in uno stile di vita, stile da coltivare e perfezionare in continuazione».

«In questi giorni – ha sottolineato il vescovo Napolioni – il Papa e i vescovi italiani ci dicono esattamente che la sinodalità deve essere il nostro stile!».

«Sinodalità – sriveva ancora Nicolini – può dunque definirsi lo stile, anzi l’arte, del camminare insieme e in profondità. Un’arte, perché impegna ed esprime il genio di ciascuno e di ciascuna dei battezzati, convogliando risorse personali in un atteggiamento e con intenti comunicativi e costruttivi. Il camminare è il contrario della staticità e il corrispondente, invece, del dinamismo e della gioia del Vangelo».

«Sembra Papa Francesco», ha affermato ancora il vescovo Napolioni, indirizzando lo sguardo al prossimo anno pastorale che sarà caratterizzato dall’icona biblica dei discepoli di Emmaus, analizzata ancora con le parole del predecessore: «Monsignor Nicolini medita su questo viaggio del Risorto presente nella vita dei credenti. E ci diceva che i due pellegrini sono il simbolo della Chiesa che cambia il volto, il cuore, la direzione di marcia. La chiesa che cambia! Quando? Quando attraverso la mensa della Parola e del Pane fa esperienza del Vivente e si ricollega alla fede di Pietro».

E ricordando che il cammino della conformazione a Cristo è attraverso la Croce e il servizio, il vescovo Napolioni ha ripreso un altro passaggio degli scritti di Nicolini: «Che la Chiesa sappia anzitutto dire Cristo, l’unica parola che salva, quella anche di non fuggire la Croce, un compito di enorme portata». «Che non spetta solo a noi gerarchia – ha sottolineato Napolioni – ma deve impegnare generosamente tutti i componenti della comunità ecclesiale». E ha continuato, citando ancora il vescovo Nicolini: «Diventare o ridiventare amici della Croce: ecco l’imperativo della nostra ora. Sta qui l’antidoto all’affievolirsi della fede in Dio e in Cristo Gesù unico Salvatore. Per far sì che la fede, invece, entri a innervare profondamente la personalità e la abiliti alla testimonianza»

Quindi il vescovo Napolioni ha concluso sottolineando l’esigenza di una riconciliazione che raggiunga la vita: «L’incontro con il Risorto, la sequela di Gesù, portando la sua e la nostra croce, fa sì che secondo il Vangelo si avvicini l’altare alla vita». Quindi ha proseguito citando ancora Nicolini: «La mensa della Parola e del Pane è in se stessa un evento di fraternità: esige la riconciliazione previa come atto di verità e offre le energie per perseverare e crescere con la continua compagnia di Gesù nella conquista della pace».

«Questo orizzonte, la conquista della pace nel mondo, nelle famiglie, nelle comunità, nella Chiesa, in noi – ha concluso il vescovo Napolioni – non cessa di provocarci: è davvero ora il momento favorevole, il momento di osare passi di riconciliazione, gesti di fraternità, un’adesione al Vangelo meno comoda e più rischiosa. E allora non preghiamo certo solo per l’anima del vescovo Giulio: preghiamo per noi, preghiamo per noi che siamo in cammino, preghiamo per i vescovi, i sacerdoti e i fedeli di oggi. Perché non abbiamo paura di gioire di un Vangelo ascoltato, accolto e vissuto così».

L’omelia del vescovo Antonio Napolioni

 

 

Profilo biografico del vescovo Giulio Nicolini

Nato a San Vigilio di Concesio nel 1926, mons. Nicolini è stato vescovo di Cremona dal 1993 fino al giorno della suo improvviso decesso.

Ordinato sacerdote nel 1952, esercitò il suo primo apostolato tra i migranti in Svizzera, nell’Azione Cattolica e come insegnante. L’attività che meglio lo contraddistinse, però, fu sicuramente il suo impegno nel campo della comunicazione sociale. Dal 1972 ricoprì diversi incarichi a Roma: nella Pontificia commissione per la pastorale delle migrazioni, nella Congregazione per i vescovi, e nella sala stampa della Santa Sede con il ruolo di vicedirettore.

Il 25 luglio 1987 Giovanni Paolo II lo nominò vescovo di Alba. Consacrato dallo stesso Pontefice nella basilica di San Pietro il 5 settembre, entrò nella diocesi piemontese domenica 27 settembre 1987.

Il 16 febbraio 1993 fu nominato vescovo di Cremona e fece il suo solenne ingresso il 4 aprile 1993, domenica delle Palme.

Negli otto anni di episcopato cremonese mons. Nicolini si adoperò su molti fronti: dall’attenzione della storia locale con l’anno di sant’Omobono e i restauri della Cattedrale all’animazione del grande Giubileo del 2000, fino alla nascita della Casa della Comunicazione, ancora oggi sede dei media diocesani, e della Casa della Speranza, luogo di ospitalità e cura per malati di Aids.

La conclusione del Sinodo diocesano, sancito da un importante pellegrinaggio alla Sede di Pietro, fu uno dei traguardi più importanti del suo episcopato.




A San Sigismondo la veglia di preghiera per le vocazioni guardando alla Gmg insieme ai giovani

«Io vi ascolterò. Non capita spesso che il vescovo presieda una preghiera, una messa, portandosi la penna. Perché dovrò scrivere quello che mi direte, e in base a questo proverò a restituirvi qualche traccia per il cammino». Con queste parole il vescovo di Cremona Antonio Napolioni si è rivolto ai giovani che in estate partiranno alla volta di Lisbona per la Giornata mondiale della gioventù. L’occasione è stata la veglia di preghiera che ha vissuto con loro in preparazione alla 60ᵃ Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni nella serata di venerdì 28 aprile nella chiesa monastica di San Sigismondo, a Cremona.

E proprio la comunità claustrale domenicana, nelle parole della priora, madre Caterina Aliani, ha voluto dare il benvenuto ai tanti giovani giunti dalle diverse parti della diocesi, esprimendo il desiderio delle monache a «unirci in preghiera con voi e per voi, perché l’esperienza a cui vi disponete sia bella e fruttuosa per la vostra crescita umana e cristiana». E precisando il carisma di un monastero di clausura ha auspicato che questo possa essere «il luogo ideale dove mettere le radici di un’esperienza che non è solo vostra, ma di tutta la Gmg», ricordando anche che «La vocazione alla preghiera dà alla nostra vita di monache un respiro grande quando il mondo». «Andare e restare» i due verbi che esprimono il modo con cui i giovani e le monache, nei rispettivi carismi, vivranno la prossima Gmg e la missione da discepoli. Divisi da centinaia di chilometri di distanza ma uniti da una forte comunione di fede.

Veri protagonisti della serata i pellegrini cremonesi pronti alla partenza (ma non solo), raccolti in una preghiera a misura di giovane, seguita dagli schermi degli smartphone e caratterizzata dalla collaborazione e dal confronto.

La vocazione è la linea che guiderà il viaggio verso la città portoghese, e a portarne la testimonianza è stata suor Michela Consolandi, giovane religiosa originaria di Cumignano sul Naviglio entrata nelle Figlie di Maria Ausiliatrice dopo averne conosciuto il carisma durante la Gmg del 2011 a Madrid. «Alla Gmg ho trovato una familiarità che mai avrei immaginato, un sentirmi a casa. – ha raccontato –. Da quel momento “il bambino sussultò di gioia nel suo grembo”, sussultò di gioia nel mio grembo e il magnificat da lì è sgorgato, da lì la mia vita non ha più potuto mettere fra parentesi questa esperienza della Gmg e questa esperienza di incontro con il carisma a cui ho aderito».

«Questa serata ha il sapore della gratitudine – ha affermato la religiosa salesiana –. Gratitudine per la Chiesa che mi ha generato alla fede, e porto la mia testimonianza togliendomi i sandali come ha fatto Mosè. Avevo da poco compiuto 20 anni quando per la prima volta sono andata in Gmg, insieme ai ragazzi e alle ragazze del movimento giovanile salesiano. Quanti giovani hanno intuito qual è il disegno di Dio nella loro vita grazie alla Gmg! Dobbiamo farci cercatori del disegno di Dio su ognuno di noi. A 20 anni il tempo che passavo tra le mura della chiesa non era mai abbastanza, ma cercavo da me la risposta alle mie inquietudini e ai miei dubbi. Mi sono proposta di vivere la Gmg pronta ad accogliere tutto quello che sarebbe venuto, e per la prima volta, tra i giovani che volevano solo far del bene, mi sono sentita veramente a casa. I gemiti del mio cuore avevano trovato il loro senso nello spendersi per gli altri, e la cosa più importante è diventata il “per chi” avrei vissuto da quel momento».

Ascolta la testimonianza di suor Michela

 

I giovani sono stati chiamati quindi a riflettere insieme in gruppi di lavoro, confrontandosi su alcuni dei temi che intendono affrontare nel loro viaggio, scrivendo e appuntando i propri pensieri. Per questo i bachi della chiesa monastica erano stati riordinati quasi a formare un cerchio che unisse la comunità claustrale e i presenti

Riflessioni che poi sono state condivise con il resto dei presenti e con il Vescovo, che armato di carta e penna, ha ascoltato con attenzione le questioni e le speranze espresse dai giovani: «La vostra vita è fatta di esperienze, speranze, momenti belli, momenti difficili, ma ognuno di questi istanti fa parte di un percorso – ha detto il Vescovo –. Fondamentale rimane avere il programma un progetto di vita, un traguardo che ci spinga a fare del bene, un traguardo che si pone il prossimo come obiettivo e non come mezzo. E proverete, per chi va in Gmg per la prima volta, che cosa significa condividere ogni momento con i propri compagni di viaggio».

Riferendosi poi alla Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, il Vescovo ha preso in mano la lettera di papa Francesco per la Giornata mondiale della gioventù sintetizzandone alcuni passaggi, sottolineando che «la via della vocazione, la strada che porta a conoscere Dio, è composta da due parti, bisogna avvicinarsi e poi bisogna toccare». E ha proseguito: «Il viaggio che porta all’amore per il Signore è fatto di esperienze, di tanti momenti che ci fanno avvicinare, fino ad arrivare al punto in cui lo si tocca con mano, Lui ci tocca con mano, rendendoci testimoni della Parola».

Seguiranno altri momenti zonali in preparazione alle Gmg, fino alla partenza, preceduta da un altro momento diocesano promosso dalla Pastorale giovanile insieme al vescovo che conferirà ai pellegrini pronti a mettersi in viaggio il mandato.

 

“Non c’è vocazione senza missione“




A Torre De’ Picenardi l’ultimo saluto a don Giancarlo Bosio «piccolo folletto di Dio»

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«Un prete pasquale in tante piccole cose». Questo il ricordo di don Giancarlo Bosio lasciato dal vescovo Antonio Napolioni all’inizio dei funerali del parroco emerito di Grontardo, deceduto a 92 anni lo scorso 13 aprile all’Ospedale di Cremona dove era ricoverato da qualche giorno a seguito di un aggravamento delle sue condizioni di salute.

Le esequie sono state celebrate nel pomeriggio di sabato 15 aprile nella chiesa parrocchiale di Sant’Ambrogio, a Torre De’ Picenardi, dove il sacerdote si era ritirato nel 2012 a casa dei famigliari. E un ringraziamento speciale il vescovo Napolioni l’ha voluto rivolgere proprio al nipote del compianto sacerdote, che si è preso cura di lui con grande amore e disponibilità negli ultimi anni della sua vita.

Accanto a monsignor Napolioni hanno concelebrato il vescovo emerito Dante Lafranconi, il vicario episcopale per il clero don Gianapaolo Maccagni, il parroco don Claudio Rossi e diversi altri sacerdoti.

«I vangeli ci mettono in ascolto, risvegliano lo stupore, interpellano la fede nelle apparizioni del Risorto, e questa è una luce splendida che si proietta sulla vita, sulla morte e su un futuro eterno come quello di don Giancarlo». Ha detto il vescovo Napolioni, definendolo «un prete pasquale»: «Non solo una volta all’anno, ma in tante piccole cose divenute per lui importanti e importanti per chi ne ha potuto godere grazie a lui. Non posso dimenticare la luce dei suoi occhi, piccoli, vispi e trasparenti, pronti a saltare per alcune cose che gli riempivano il cuore».

Monsignor Napolioni ha poi sottolineato gli aspetti che hanno caratterizzato la vita di don Giancarlo: lo sport, i suoi ragazzi, lo studio e la preghiera. «Quando alla fine dei nostri incontri pregavamo un istante – ha ricordato il vescovo – tirava fuori una passione semplice ma potente». «Voi avete conosciuto quanto me – ha proseguito – quello che definirei un piccolo folletto di Dio, sempre con la sua veste talare. Dio ha bisogno di folletti così: non ha bisogno di pezzi grossi o discorsi complicati». E ancora: «Chi si avvicina davvero al Signore e alla vita diventa più semplice, più essenziale, sa che cos’è che conta, sfronda tutto il resto e parla chiaro».

Il vescovo ha quindi concluso: «Chiedo a don Giancarlo di suscitare nel cuore dei ragazzi di oggi e di domani la stessa fantasia e la stessa obbedienza al mandato del Signore: c’è bisogno più che mai di chi, con tonaca o senza tonaca, ma con il cuore colmo dell’allegria del Vangelo, lo porti nelle scuole, nelle case, nel mondo. Grazie don Giancarlo, continua a farci del bene. E noi ti ricorderemo con tanta gratitudine e con tanto affetto».

 

Ascolta l’omelia del vescovo Antonio Napolioni

 

Al termine dei funerali la salma è stata trasferita per la tumulazione nel cimitero di Pozzo Baronzio, paese natale di don Giancarlo Bosio.

 

 

Profilo biografico di don Giancarlo Bosio

Nato a Pozzo Baronzio il 27 gennaio 1931, don Giancarlo Bosio è stato ordinato sacerdote dal vescovo Danio Bolognini il 27 giugno 1954, una classe di otto confratelli che ora può contare solo su monsignor Mario Barbieri.

Il suo primo incarico pastorale è stato come vicario a Grumello Cremonese (1954-1959) e successivamente a Piadena (1959). Nel 1958 il trasferimento a San Paolo Ripa d’Oglio, di cui è stato parroco sino al 1962. Dal 1962 al 1975 ha guidato la parrocchia di Casanova del Morbasco.

Nel 1975 ha assunto l’incarico di parroco di Grontardo, parrocchia che ha retto per 37 anni, fino all’estate del 2012, quando ha lasciato l’attività pastorale ritirandosi a Torre de’ Picenardi, dove è stato assistito dai propri famigliari.

Grande appassionato di sport, è stato a lungo insegnante di religione a scuola, da ultimo alle medie Vida di Cremona, sino al pensionamento a metà degli anni ’90.

Aveva conseguito laurea in Teologia a Milano. Da segnalare la sua tesi di laurea a carattere storico relativa alla visita pastorale precedente al Concilio di Trento che il vescovo di Cremona Giovanni Stefano Bottigella (1466-1476) iniziò nel 1470 e i cui atti, conservati presso l’Archivio storico diocesano di Cremona. Lo studio di don Giancarlo Bosio è arricchito dalla trascrizione del volume degli atti per la visita ad alcune parrocchie dell’attuale zona pastorale 4, della città di Cremona, della zona 1 e alcuni borghi della zona pastorale 2.




La scuola secondo don Primo Mazzolari: convegno a Bozzolo

Don Primo Mazzolari educatore: la scuola elementare, gli insegnanti, i valori. Questo il tema dell’incontro che si è tenuto nella mattinata di sabato 15 aprile presso la sala civica di Bozzolo, in occasione del 64° anniversario di morte del «parroco d’Italia».

«Ci ritroviamo ogni anno per parlare di don Primo – ha detto Paola Bignardi, presidente della fondazione Don Primo Mazzolari aprendo il convegno –. E quest’anno ci ritroviamo per affrontare un tema particolarmente bello, che è quello dell’educazione, quello del rapporto tra don Primo e la sua gente».

È stata Daria Gabusi, docente presso l’Università Giustino Fortunato di Benevento, a inaugurare gli interventi dal tavolo dei relatori. La sua relazione, dal titolo La scuola elementare rurale tra anni ‘30 e anni ‘50, ha ripercorso, sin dalla nascita, la storia delle scuole rurali. Un periodo ricco di avvenimenti, dal Ventennio fascista, alla liberazione, dalla Resistenza al Referendum per la nascita della Repubblica. Un periodo storico, tra totalitarismo e democrazia, che ha avuto un profondo impatto, con le varie influenze sociali e culturali, sul sistema scolastico ed educativo italiano.

Le scuole rurali nacquero con la Riforma Gentile, che divise le scuole elementari in due categorie: classificate e non classificate. Proprio quest’ultima categoria era rappresentata dalle scuole rurali, caratterizzata dalle sue classi numerose e miste, e dal basso rendimento. «Ma, come disse Gentile – ha sottolineato Gabussi –, la scuola rurale era in grado di dare lezione alle scuole urbane. Talvolta, la pluralità degli alunni era vista come un fattore di arricchimento».

Programmi flessibili, orari adattabili. La scuola si adattava ai ritmi della vita rurale, scandita dalle attività di manodopera e dagli eventi atmosferici. Una ruralità valorizzata dal Fascismo e dalle riforme di quei tempi, ma, al contempo, oppressa dalla pedagogia totalitarista. Ad arginare questa pedagogia, il senso cattolico e la «legge bronzea della maestra», secondo cui niente avrebbe mai dovuto prevaricare e oscurare il programma e l’amore per i bambini.

Infine la Liberazione, che diede vita a un periodo inizialmente caratterizzato dal peso della rieducazione alla democrazia, ma soprattutto dal forte desiderio di tornare alla pace e alla «normalità».

Ascolta la relazione di Daria Gabusi

Don Primo formatore e amico di maestre e di maestri è stato, invece, il titolo della relazione di Giorgio Vecchio, docente universitario e presidente del comitato scientifico della Fondazione. «Don Primo è stato un annunciatore del Vangelo, ed è stato un uomo che ha avuto, dall’inizio alla fine, la volontà di vivere sino in fondo la sua missione sacerdotale – ha raccontato Giorgio Vecchio –. Don Primo ha integrato questa sua missione anche attraverso l’azione formativa nei confronti di ogni persona che ha incontrato».

A testimoniare la sua dedizione all’educazione, l’istituzione della scuola popolare a Bozzolo, una scuola serale presso la sua casa, divisa in due classi formate da molti studenti adulti. Poi la scuola media di Bozzolo e la biblioteca popolare Educa e spera a Cicognara. Un rapporto con l’ambiente scolastico che si è poi riversato inevitabilmente nel rapporto con i maestri e le maestre rurali: «Si occupava della loro formazione umana e cristiana – ha evidenziato Vecchio –, insegnando loro come comportarsi con le autorità superiori e insegnando loro come resistere al sentimento totalitarista di quei tempi».

Tra queste insegnanti figurano Gesuina Cazzoli, maestra per antonomasia di Cicognara, Maria Teresa Zaniboni ed Erminia Borghi. Tutte grandi collaboratrici ed estimatrici del «parroco d’Italia», che non si sono mai tirate indietro nel dimostrare la loro stima, ma nemmeno dal giudicare, costruttivamente, appoggiando o criticando, i pensieri e le opere di Mazzolari.

Ascolta la relazione di Giorgio Vecchio

Un’altra maestra legata a don Mazzolari è stata Gemma Chapuis Mussini, donna affetta da poliomelite, la cui testimonianza è stata riportata all’attualità da Stefano Albertini, il nipote, che ha raccontato della vita da insegnante della nonna, del suo rapporto con don Primo Mazzolari e di come l’incontro con il sacerdote le abbia cambiato la vita. Un rapporto testimoniato da poche fonti: una sola lettera scritta da Mazzolari e il diario della maestra. Dalle scuole rurali, dunque, all’istruzione odierna. Ha così concluso Albertini: «La scuola di oggi funziona se le esigenze degli studenti sono poste al centro, se gli studenti sono accolti come si deve e se sono motivati».

Ascolta la relazione di Stefano Albertini

Sempre in occasione del 64° anniversario della morte del servo di Dio don Primo Mazzolari (12 aprile 1959), nel pomeriggio di domenica 16 aprile, alle 17 presso la chiesa parrocchiale di Bozzolo, dove sono conservate le spoglie del parroco d’Italia, il vicepresidente della Conferenza episcopale italiana, mons. Erio Castellucci, arcivescovo abate di Modena-Nonantola e vescovo di Carpi, presiederà l’Eucaristia nel 64° anniversario della morte di don Mazzolari. La Messa sarà concelebrata dal vescovo di Cremona, mons. Antonio Napolioni.




Santa Teresa, la “scienza dell’amore” che spalanca la bellezza

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Una donna, una monaca che ha attraversato il suo tempo per uscirne trasfigurata tanto da farsi “eco creante”. Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, è una figura affascinante tracciata con rigore giovedì 23 marzo pomeriggio, presso l’aula Magna dell’Università Cattolica di Cremona, da Madre Cristiana Dobner, Carmelitana Scalza che ha studiato i suoi scritti e la sua figura nel complesso. E fatta risaltare nella sua capacità di contagiare gli altri da Arnoldo Mosca Mondadori, promotore della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti intervenuto al convegno a cui ha presenziato e dato il suo contributo anche il vescovo Antonio Napolioni. A moderare mons. Francesco Follo, fino al 2022 osservatore permanente della Santa sede presso l’Unesco.

Si è trattato di uno dei 3 appuntamenti dal titolo “Teresa di Lisieux. La saggezza dell’amore” organizzati in occasione del 150° anniversario della nascita della Santa francese (1873-2023) con il patrocinio della Diocesi di Cremona, della Commissione nazionale italiana per l’Unesco e della Pontificia facoltà teologica Teresianum di Roma.

Un pomeriggio intenso, aperto dalla serietà quasi scientifica della esposizione di Madre Dobner, ricca di citazioni e costruita per portare avanti la tesi di una donna, Teresa, figlia del suo tempo“vissuta in un periodo storico che, troppo spesso, viene lasciato sullo sfondo, oppure semplicemente eliminato” ma contestualmente capace di superare difficoltà e crisi dell’epoca per uscirne con una creatività contagiosa, figlia dello Spirito.  La riflessione ha preso le mosse dai “numerosi testi scritti” da Teresa, testi che hanno avuto una diffusione “tale da far impallidire i più quotati best seller” per arrivare alla “scienza dell’amore” ciò che le ha consentito di attraversare “il tunnel del suo tempo” e che risulta consolante per l’uomo di oggi, immerso in un tunnel simile, in un tempo dove l’assenza di Dio ( per Teresa simboleggiata da una cultura che va da Schiller a Nietzsche, passando per Russel, Rilke e Tolstoj) si fa palpabile ma dove la speranza è segnata da testimonianze di santi straordinari anche nella quotidianità di un semplice monastero di Normandia.

 

Ascolta l’intervento di madre Cristiana Dobner

Il testo della relazione di madre Cristiana Dobner

 

E la “semplicità disarmante” di Teresa capace di “spalancare l’abisso della bellezza”, come ha dichiarato il Vescovo Napolioni, si è tramutata in una coinvolgente testimonianza di fede da parte di Arnoldo Mosca Mondadori. Teresa ha concretizzato “la sete di cibo dell’anima”, ha diffuso “la luce dell’Eucarestia” davanti a cui le parole non bastano ed è opportuno lasciar spazio alla musica. Ed è così che a diffondere nell’aula magna del monastero di Santa Monica una musica importante, come quella di Bach, è intervenuto il violoncellista Issei Watanabe. In mano un violoncello costruito con il legno dei barconi che hanno portato sulle spiagge della nostra Italia, speranza ma anche dolore e morte. Note ascoltate in un silenzio dove la meditazione dei presenti ha preso corpo.

 

Ascolta l’intervento di Arnoldo Mosca Mondadori

Inaugurata in Battistero la mostra su santa Teresa di Lisieux




Rsa sul territorio, capaci di cura oltre lo scoglio della solitudine. Convegno Uneba all’Università Cattolica con il responsabile dell’ufficio nazionale Cei di Pastorale della Salute

«Le rsa incontrano il territorio». È questo il tema del convegno promosso dalla sezione cremonese dell’Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale (Uneba) e ospitato nella mattina di venerdì presso l’aula magna del campus Santa Monica, dell’Università cattolica del Sacro Cuore, a Cremona.

Un’iniziativa che ha posto l’accento sulla situazione attuale delle strutture assistenziali, nel rapporto con il territorio e in relazione con i recenti eventi – dalla pandemia all’impatto del caro-energia – che hanno messo in difficoltà il settore sanitario e di previdenza sociale.

 

A margine dell’incontro don Massimo Angelelli, responsabile della Conferenza episcopale italiana per la Pastorale della Salute, ha sottolineato i punti critici del momento attuale, ma anche la centralità del ruolo delle strutture sanitarie territoriali per la cura verso le persone fragili, prendendo anche spunto dai documenti ecclesiali recentemente pubblicati.

Ci troviamo in una situazione difficile. Come mai? È solo la pandemia ad aver influenzato l’ambito delle strutture assistenziali o c’è altro?

«La situazione è estremamente complessa ed è il prodotto della convergenza tra più fattori. Il primo problema riguarda l’aumento dei posti, che va sicuramente a intaccare l’equilibrio all’interno delle rsa e delle strutture in generale. Poi si è presentato anche il problema della carenza di personale. Su questa situazione ha sicuramente influito la pandemia del coronavirus, che ci ha fatti trovare impreparati di fronte a una situazione impensabile. Queste strutture sono fondamentali nelle nostre comunità, quindi dobbiamo assolutamente trovare le forze e le risorse per continuare a sostenerle».

In un periodo delicato come questo, quali sono le sfide da affrontare, anche e soprattutto come comunità cristiana?

«La grande sfida del cristiano nasce dal Vangelo, incarna il comandamento dell’amore. “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Ma questo amore non deve essere solo una citazione, ma deve diventare pratico, concreto. Un concetto che si sviluppa anche nella Parabola del buon samaritano».

E come fare per concretizzare questo amore?

«Il tema della solidarietà è estremamente trasversale. Non si basa sull’operato di alcuni, ma sull’operato di tutti. Negli ambiti della sanità e dell’assistenza agli anziani e ai malati, ormai non basta più un’ora di assistenza domestica. C’è sempre più bisogno di donne e uomini che si prendano a carico queste persone e i loro bisogni».

In molte strutture la Chiesa Cattolica è presente, sia a livello gestionale sia con l’impegno di operatori, associazioni, volontari, sacerdoti. Dove trovare la motivazione profonda di questo impegno?

«In merito alla questione, è interessante andare a scavare nel messaggio del Papa per la Giornata del Malato («Abbi cura di lui». La compassione come esercizio sinodale di guarigione) e nei messaggi per la Festa dei nonni e degli anziani. Le parole del Santo Padre hanno tracciato una chiara linea per il nostro ministero. Un ministero che invita certamente alla vicinanza e alla cura, ma una cura che vada oltre alla cura sanitaria, che vada oltre la terapia: c’è bisogno di superare lo scoglio della solitudine. La comunità cristiana è chiamata a questo compito, è chiamata a occuparsi della cura spirituale, della cura della relazione, delle persone».

Ma chi dobbiamo curare? Solo i malati o parlare di “altro” deve abituarci ad allargare lo sguardo?

«Dobbiamo sicuramente curare le persone vulnerabili, ma non solo. Attorno a lui ci sta la cerchia famigliare e parentale. Escluderli, in questo periodo, ha sicuramente danneggiato il paziente, ma ha anche umiliato i parenti. Il terzo destinatario è il sistema dei curanti, che in questo momento forse sono i più bisognosi di cura. C’è un livello di stanchezza e frustrazione nel personale assistenziale e sanitario che ormai supera il livello di burnout».

 

A sottolineare la delicata situazione delle strutture di cura sono stati anche gli altri interventi che hanno caratterizzato il convegno introdotto da don Roberto Rota, referente Unieba per la diocesi di Cremona.

In particolare presidente di Uneba Lombardia, Luca Degani, intervenuto durante il convegno di venerdì mattina anche , però, per sottolineare la delicatezza del passaggio storico per una parte così importante nel sistema di welfare: «Questo è uno dei momenti più complessi, perché non c’è abbastanza coscienza di quanto le realtà fondative, presenti sul territorio da secoli, oggi rischiano di non essere considerate come meritano nei tanti percorsi di riforma in atto».

«La tutela fiscale delle onlus e delle realtà che si occupano dell’assistenza agli anziani – ha aggiunto – e ai malati forse oggi non è più sufficientemente garantita e noi siamo davanti a un percorso di riforma che rischia di avere un effetto fiscale deteriore rispetto a quella che è la situazione attuale – ha concluso Degani –. Ci si riempie la bocca di “terzo settore”, ma in realtà la situazione sta peggiorando».

 

Virgilio Galli, presidente della «Fondazione Villa S. Cuore coniugi Preyer» di Casalmorano, e Antonio Sebastiano, direttore dell’osservatorio «Rsa Business school Liuc» di Castellanza, che hanno approfondito la situazione attuale delle strutture sanitarie, sia sul territorio diocesano che su larga scala.

«Negli ultimi tre anni abbiamo affrontato tre diversi problemi – ha spiegato Virgilio Galli –: la pandemia, nel 2020, la mancanza di risorse umane, nel 2021, e la questione del rincaro del costo dell’energia, nel 2022». Problemi, dunque, non solo di natura economica, ma anche umana e di gestione, con l’urgente necessità di tornare il prima possibile alla normalità, di ritrovare le condizioni ottimali per la vita nelle rsa.

«Le case di riposo sono un patrimonio del nostro territorio, nate grazie alla generosità dei cremonesi – ha concluso Galli –. L’auspicio è quello che tornino a operare in tranquillità e con efficienza e, perché no, con costi contenuti. Chiediamo attenzione alle rsa perché il loro valore non venga intaccato».

Come fatto, nel suo approfondimento sul territorio, da Virgilio Galli, la questione delle rsa è stata analizzata anche da Antonio Sebastiano, che ha così spiegato: «Tutte le strutture, soprattutto le rsa, sono risorse fondamentali ovunque, per il target che prendono in carico». Resta tuttavia la presa d’atto che le condizioni in cui operano, soprattutto nel periodo post-Covid, sono difficili. A sottolinearlo è Sebastiano che critica la «dialettica che oggi contrappone le cure domiciliari a quelle residenziali si è sviluppata nel post-Covid. Una contrapposizione sbagliata perché prosegue – i dati mostrano come le rsa che si facciano carico degli anziani più fragili della società, con situazioni di salute che non sarebbero gestibili a domicilio». Ecco perché – conclude – «non si parla più di strutture mono-servizio, ma di enti che «abbracciano altri servizi sul territorio, tra cui anche la domiciliarità» per una cura integrale delle persone più fragili.