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Intorno all’opera/31 – I mesi del Battistero di Parma e del duomo di Cremona

Si è aperta da poco a Parma un’importante mostra: «Antelami a Parma. Il lavoro dell’uomo, il tempo della terra» allestita nel Battistero dal 12 settembre 2020 al 12 settembre 2021, nell’ambito del programma di Parma Capitale italiana della Cultura 2020 + 2021: una sorta di «viaggio antelamico» nella sua officina, come l’ha definito Arturo Carlo Quintavalle.

La complessa operazione che a fine agosto ha coinvolto le dodici statue dei Mesi e le due delle Stagioni (abbinate in autunno/inverno e primavera/estate) di Benedetto Antelami (1150 ca – 1230 ca), ha un sapore storico. Sono state calate a terra, dopo un’accurata pulizia, dalla prima galleria interna del Battistero del Duomo posta a 7,5 metri d’altezza, per una visione ravvicinata e pressoché unica: tra poco più di un anno infatti torneranno in situ. Si potranno così «guardare negli occhi».

La mostra promosso dalla Diocesi di Parma, che insieme a quella di Fidenza conserva un patrimonio fondamentale per la scultura romanica, trova nell’Antelami un artista imprescindibile.

Considerate da alcuni studiosi non completamente autografe, queste sculture, sulle quali sono ancora presenti in parte le tracce della lavorazione, da secoli, probabilmente da fine Duecento, sono collocate nella prima galleria del lato est del Battistero: provenienti forse da un portale, come nel caso del Duomo di Cremona, vennero collocate in posizione elevata dai pittori incaricati di completare la decorazione della cupola del Battistero nel quarto decennio del XIII secolo.

Un legame strettissimo quello tra Parma e Cremona. Si deve infatti tenere presente che i portali dei mesi decoravano le facciate di importanti edifici XII e XIII secolo, da Fidenza ad Arezzo, da Ferrara con i pezzi oggi ricoverati nel vicino Museo del Duomo a Venezia nella Basilica di S. Marco, fino appunto al Battistero di Parma. Tutti questi monumenti raccontano di una grande rivoluzione di significati legati alla Riforma Gregoriana. Le figure allegoriche dei mesi rappresentano uomini occupati in lavori agricoli stagionali dove si dà al lavoro un significato nobilitante e salvifico (il lavoro redento), secondo la nuova dottrina teologica che non vede più il lavoro come una maledizione divina così com’era stato descritto nel libro della Genesi, ma piuttosto una nobilitazione dell’uomo e della società, comunale o repubblicana che sia, ieri come oggi.

a cura di don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano per i Beni Culturali




Intorno all’opera/30 – Gli affreschi di Bernardino Campi a Pizzighettone

Per raccontare la bellezza di un tesoro del nostro territorio come sono gli affreschi della chiesa di San Bassiano a Pizzighettone, da poco oggetto di un restauro che ne ha restituito l’antico splendore, riportiamo volentieri uno stralcio di quanto recentemente scritto dal dottor Piazza della soprintendenza di Mantova.

Pizzighettone è un luogo che colpisce immediatamente, qualunque sia il punto che si sceglie per avventurarsi nel suo centro. Che ciò avvenga dal ponte sull’Adda o da via Marconi, non si può ignorare il richiamo di questo borgo all’interno di una cortina muraria ancora conservata.

Data la sua posizione di confine, eppure a mezza strada tra le città di Cremona, Crema, Lodi e Piacenza, spesso conteso dalle potenze dominanti del momento, non stupisce che in passato Pizzighettone fosse crocevia non solo di culture e commerci, ma anche zona vivace sul versante artistico: le emergenze principali, dalle mura ai resti dell’antico castello, stanno lì a ricordarlo.

Anche la chiesa parrocchiale dedicata a San Bassiano è scrigno di numerose opere, non sempre adeguatamente conosciute. Varcando la soglia, per esempio, non è scontato accorgersi che in controfacciata campeggia una Crocifissione affrescata da Bernardino Campi insieme agli oculi con i Profeti lungo la navata centrale. Questi ultimi sono stati oggetto di un recente restauro.

La decorazione fu intrapresa all’inizio del quinto decennio del Cinquecento, quando il giovane Bernardino Campi, nato il 31 dicembre 1521, aveva da poco concluso il periodo di formazione a Mantova: non a caso la Crocifissione è intessuta di un’eleganza memore degli anni appena trascorsi nella città dei Gonzaga, dove il protagonista è Giulio Romano con la sua équipe di collaboratori. Le notevoli dimensioni dell’affresco, che costrinsero i fabbricieri della chiesa di San Bassiano a tamponare il rosone della facciata, risentono forse del precedente di Pordenone nel duomo di Cremona. La cultura mantovana scorre anche nelle vene dei Profeti della navata centrale, che manifestano una evidente parentela con le effigi dei Cesari realizzate da Tiziano per il camerino di Federico II Gonzaga nell’appartamento di Troia di Palazzo Ducale, in seguito distrutte. Il recente restauro dei Profeti di Pizzighettone, oltre a rendere più agevole, grazie a una accorta pulitura, la lettura di questa memorabile sequenza di personaggi, ha permesso talvolta di recuperare le scritte nei cartigli, così che ora possiamo identificare i nomi di Esdra, Malachia e Giosuè.

La prospettiva dei finti oculi dai quali si affacciano i Profeti, sporgendo in fuori verso l’osservatore, crea un effetto illusionistico che un tempo risultava più efficace. Il degrado e le trasformazioni avvenute nei secoli (Bernardino Campi affrescò anche il presbiterio della chiesa, di cui però non resta più traccia) possono ostacolare la percezione complessiva di questo ciclo, che tuttavia è tra i più rappresentativi dell’intero manierismo cremonese.

Chi, malgrado tutto, riesca a cogliere la superba qualità delle pitture ripartirà soddisfatto da Pizzighettone.

(dott. Filippo Piazza, funzionario storico dell’arte)

a cura di don Gianluca Gaiardi
(incaricato diocesano per i Beni culturali)




Intorno all’opera/29 – Philippe Daverio, l’arte raccontata a tutti

L’arte della comunicazione. Per tutti. È stato il suo più grande merito: divulgare. Philippe Daverio, morto nella notte tra il 1° e il 2 settembre 2020, all’Istituto dei tumori di Milano (era nato a Mulhouse, in Alsazia, nel 1949, papà italiano e mamma francese).

Di lui conservo con piacere e gelosia i suoi libri, un biglietto di auguri natalizi, la sua mail e il numero telefonico di casa, tutti i numeri di “Art e dossier” rivista di cui era direttore, l’incontro a Milano in Duomo; il confronto e lo scambio di opinioni. Come direttore dell’ufficio diocesano mi aveva esortato perché sosteneva che a Cremona abbiamo uno degli armadi più belli e preziosi dell’arte ebanista, capolavoro del Platina, ma diceva che non lo sapevamo apprezzare, valorizzare e custodire; infatti chissà quanti cremonesi lo sanno.

Nella facciata della nostra cattedrale ci vedeva l’immagine della chiave di violino, la effe a baffo che decora i più importanti strumenti musicali che caratterizzano Cremona: “Ma fermatevi un attimo a guardare la facciata del Duomo e leggetela lentamente come un libro aperto. La più curiosa delle curiosità sta nel completamento in gusto classico del timpano, voluto per esaltare il casato sforzesco. E la vera bizzarria sono le due volute laterali, oblunghe e stirate. Sì, sono queste gli antenati linguistici delle effe sulle pance di tutti i violini. L’antenato del legno intagliato è il sasso scolpito

Avrei desiderato tanto averlo all’inaugurazione del museo, diceva: “Un museo è una entità pulsante, viva che interagisce con la città e coglie le opportunità dell’arte e del grande pubblico. Altrimenti diventa un guardaroba dove, anziché appendere i vestiti, si appendono i quadri alle pareti”.

È stato tra i più importanti e autorevoli protagonisti della critica degli ultimi anni. Aveva capito l’importanza della televisione e della comunicazione su larga scala. Innovativa la sua rubrica su Rai 3 che si chiamava “Passpertout”, un nome che richiama fortemente la nostra rubrica “intono all’opera”. Forse anche per questo mi sentivo in forte sintonia con lui. Un raccontare l’arte in modo pacato, un linguaggio innovativo, uno sguardo diverso. Cercando di vedere nell’arte una metafora della vita, dei luoghi raccontati, con i loro sapori, le loro tradizioni, il loro vivere dentro.

Daverio ha sistematicamente evitato il tono accademico, senza mai abbassare il livello dei contenuti, esperto conoscitore del territorio lo ha esplorato in lungo e in largo portando all’attenzione quel patrimonio “minore” che è in realtà di prima grandezza, ha creato continui rimandi tra tempo e spazio: mescolando il tutto con un sicuro senso dell’umorismo e un infallibile senso del ritmo: è certamente il più leggibile, il più godibile, il più piacevole e quindi ci mancherà la felicità, l’allegria il divertimento.

don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano per i Beni culturali

 




Intorno all’opera/26 – La Madonna del Popolo torna a mostrare il suo volto materno

Rimasta nascosta fino ad oggi e custodita nella Sala Capitolare della Cattedrale di Cremona, la Madonna del Popolo presto potrà ritornare ad essere ammirata da tutti nel Museo Diocesano.

Eseguita intorno agli anni ottanta del Trecento, in origine era collocata sopra l’altare maggiore della Cattedrale. Alterne vicende la depodestarono dal suo trono, fino a sottrarla per disposizioni vescovili alla devozione popolare, come la maggior parte delle statue vestite.

Una piccola conquista per la statua lignea sacrificata e scarnificata da improvvidi interventi: raspata, tagliata, anzi scuoiata nei secoli, abrasa e mutilata, forse per adattarla alla moda dei tempi che furono, vestita con paramenti di tessuti pregiati, broccati, stoffe ricamate, gioielli e corone dorate. La Madonna del Popolo ha conservato un volto materno, rassicurante, ma allo stesso tempo severo e solenne.

I lunghi capelli raccolti in una treccia che scende dalle spalle sino alla fine della schiena, ricordano la femminilità delle migliori opere lombarde, veronesi e toscane del Trecento. Vezzosa e arguta raffinatezza delle migliori acconciature. Purtroppo cromie e dorature sono irrimediabilmente perse, la consistenza del dolce legno dal quale è stata scolpita si è trasformata in un delicatissimo materiale spugnoso. Insomma la Madonna del Popolo ne ha passate tante, proprio come coloro che a lei si rivolgono con diverse suppliche:

Donna tra la gente.
Assunta a patrona e regina della Chiesa,
tu sei Madre del Figlio di Dio e Madre nostra.
Accogli le nostre confidenze,
sussurrale al tuo amato Figlio,
egli ci benedica con il gesto dolce della sua mano e con il suo sorriso fanciullesco.
Intreccia la tua vita con la nostra,
annoda alla tua memoria le nostre invocazioni.
Siano come lacci tra i tuoi capelli le nostre preghiere,
perché possano impreziosire i tuoi pensieri.
Madonna del Popolo,
intercedi per la gente che abita sulle rive del Po,
argina le nostre lacrime,
fa scorrere il fiume dell’abbondane benedizione del tuo Figlio,
perché possa irrorare e fecondare la terra che viviamo.
Difendici dai pericoli e il peccato non inondi i nostri cuori.

Amen




Intorno all’opera/25 – I giardini di Piazza Roma e la chiesa di S. Domenico a Cremona

Sabato 8 agosto la chiesa celebra la memoria di S. Domenico, fondatore dell’ordine dei Padri domenicani, figura di spicco tra le più eccelse della spiritualità cristiana, paragonabile e assimilabile alla figura di S. Francesco; fondatori dei due grandi ordini mendicanti del medioevo, sempre quasi volutamente contrapposti, anche fisicamente con i loro imponenti conventi all’interno delle grandi città medioevali.

Anche a Cremona rimangono tracce di tutto questo, ma bisogna scovarle. Di S. Francesco e della chiesa a lui dedicata, insieme al grande convento, rimane traccia in quello che era fino agli anni settanta l’ospedale maggiore. Oggi si può vedere la facciata della chiesa in piazza Giovanni XXIII e la monumentalità dell’edificio di culto conventuale che si estende nella sua lunghezza fino a via S. Antonio del fuoco.

Trovare tracce del convento e della chiesa di S. Domenico è molto più difficile, ma forse anche per questo, essendo disperso il suo patrimonio artistico, è puntellata l’intera città, per non dire l’intero territorio diocesano. Per esempio infatti la pala realizzata da Camillo Procaccini per l’altare della Madonna del Rosario, raffigurante il Santo fondatore e papa Pio V appartenente anch’egli all’ordine, ora si trova nella chiesa arcipretale di Isola Dovarese. Sullo sfondo del dipinto la scena della battaglia di Lepanto, rappresentata dal tumultuoso aggrovigliarsi delle navi dei due eserciti che si frappongono, il Santo fondatore Domenico, in primo piano, si rivolge alla Vergine per intercedere e per chiedere la vittoria. A braccia aperte ci volge le spalle, non per mancanza di rispetto, ma per insegnarci l’atteggiamento, anche noi inginocchiati guardando la Vergine.

Lo spazio una volta occupato dalla monumentale chiesa, la seconda più grande della città dopo la cattedrale e il suo convento, corrispondono ora al perimetro dei giardini pubblici, cioè piazza Roma. Conforta sapere che lì, dove una volta sorgeva la chiesa, abbattuta per il piacere anticlericale di sopprimere una traccia, una presenza, una memoria, la mano dell’uomo non ha profanato il terreno costruendo altri edifici, magari destinati a fini commerciali. Vediamo così che in un territorio inquinato come il nostro, l’ecologia della custodia del creato ha fatto germogliare il polmone verde della città. Si è distrutta una chiesa, ma non si è riusciti a farla scomparire. Una battaglia vinta ancora.

a cura di don Gianluca Gaiardi
(incaricato diocesano per i Beni Culturali)




Intorno all’opera/24 – Il destino di Hagia Sophia

«E il mare mi porta un po’ lontano col pensiero: a Istanbul. Penso a Santa Sofia e sono molto addolorato». È con queste poche parole aggiunte a braccio che, a margine dell’Angelus domenicale papa Francesco ha fatto riferimento alla decisione per Hagia Sophia (la chiesa della Sapienza divina di Costantinopoli, costruita nel 537) di farla tornare ad essere una moschea: venerdì 24 luglio con la preghiera solenne di mezzogiorno recitata davanti al presidente turco Erdogan (anzi, è stato proprio lui a recitare i primi versetti del Corano) e in diretta televisiva.

Lo era già stata per quasi cinque secoli, dalla conquista ottomana di Maometto II nel 1453 alla decisione del presidente Mustafa Kemal Atatürk nel 1934 di trasformarla in museo: priva cioè di funzioni religiose, aperta alle visite turistiche con biglietto d’ingresso.

La decisione formale era già arrivata due settimane prima, con un decreto presidenziale che ha fatto seguito a una pronuncia formale del Consiglio di Stato sulla revoca dello status museale.

I motivi politici della decisione di Erdogan e il contesto in cui sono maturati sono ben noti: esigenze politiche interne, dovute a difficoltà economiche e di conseguenza elettorali; volontà di rivendicare per la Turchia un ruolo di guida del mondo islamico, in ambito sia regionale mediorientale, sia globale.

La mossa del presidente turco ha però suscitato allarmi da parte dell’Unesco e di studiosi di tutto il mondo. Questi nei loro appelli hanno sollevato perplessità sul futuro delle strutture e delle decorazioni di Hagia Sophia, in termini sia di accessibilità, sia di conservazione. La chiesa-moschea, già museo, fa infatti parte del patrimonio mondiale dal 1985, la sua specificità è quella di offrire ai visitatori elementi architettonici e cultuali propri sia dell’islam sia del cristianesimo, giustapposti gli uni agli altri.

Le autorità turche hanno risposto rassicurando: tutto ciò che riguarda la conservazione continuerà a essere mantenuto, assicurando sulla visibilità delle immagini cristiane di età bizantina; d’altra parte, verrà abolito il biglietto d’ingresso e la struttura diventerà quindi (al di fuori degli orari delle cinque preghiere quotidiane) a entrata libera e gratuita. Nelle due settimane d’interregno sono apparse indiscrezioni e qualche foto dei primi interventi: grandi tappeti verdi; pannelli rossi che nascondono le impalcature per restauri da tempo in corso; veli che coprono, parzialmente, i mosaici della Madonna con Bambino e dell’arcangelo Gabriele sulla volta dell’abside (verranno alzati solo durante le preghiere).

L’impatto non è esteticamente gradevole, ma neanche devastante. Rimangono però da capire alcuni dettagli per il futuro: se tutti gli altri mosaici e affreschi rimarranno visibili; se dopo le preghiere verranno rimossi i tappeti che ricoprono i marmi pavimentali; se la nuova configurazione istituzionale consentirà le attività internazionali di ricerca e di restauro che negli ultimi decenni hanno arricchito le conoscenze su questo straordinario edificio. Vedremo.

a cura di don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano Beni Culturali




Intorno all’opera/23 – Nantes, la Cattedrale brucia

Ci sono fiamme che bruciano più di altre, sono quelle che attaccano i simboli di una comunità e distruggono ricordi ed emozioni. Bruciavano tantissimo solo pochi mesi or sono le fiamme della cattedrale di Parigi. Nonostante la proverbiale antipatia tra le nostre due nazioni, ci hanno colpito quelle immagini. A distanza di poco più di un anno un altro simbolo dell’arte gotica francese in fiamme: la cattedrale di Nantes con il suo organo.

Non per essere di parte, ma la perdita oggettiva è solo quella del costo di una ricostruzione. Molte delle cattedrali che noi consideriamo gotiche e che pensiamo secolari sono frutto di ricostruzioni. Anche la cattedrale parigina era stata già offesa durante la Rivoluzione francese. La passione per il Medioevo espressa da Victor Hugo e la storia di Notre Dame de Paris le hanno ridato lustro. Molte statue della facciata non sono più quelle originali, ma valgono perché sono la testimonianza della storia.

Rimanendo in casa nostra l’articolo 9 della costituzione italiana afferma che “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”; Tomaso Montanari, storico dell’arte e saggista commentando proprio l’articolo scrive: «Ciò che si voleva salvare, ricostruendolo, non era solo un cumulo di pietre, e nemmeno un’astratta bellezza: il “patrimonio” che era in gioco era, letteralmente, il retaggio dei padri, l’eredità delle generazioni che ci hanno preceduti. Potremmo dire, riprendendo e ampliando la metafora ruskiniana sul paesaggio, che il patrimonio delinea le fattezze del “volto della patria”: i costituenti dicono, infatti, con straordinaria lucidità ciò che spesso gli stessi storici dell’arte dimenticano, e cioè che il patrimonio non è la somma amministrativa dei musei, delle singole opere, dei monumenti, ma è una guaina continua che aderisce al paesaggio – cioè al territorio “della Nazione” – come la pelle alla carne di un corpo vivo. Il patrimonio diffuso è la forma dei nostri luoghi, è una indivisibile fusione tra arte e ambiente, è un tessuto continuo di chiese, palazzi, strade, paesaggio, piazze. Non una specie di contenitore per “capolavori assoluti”, ma proprio il contrario, e cioè la rete che congiunge tante opere squisitamente relative, e che hanno davvero un significato (artistico, storico, etico, civile) solo se rimangono inserite in quella rete. Il paesaggio e il patrimonio sono dunque un’unica cosa: e sono l’Italia, della quale costituiscono, inscindibilmente, il territorio e l’identità culturale».

La facilità con la quale le cattedrali bruciano, i terremoti sconquassano e fanno crollare le chiese (non dimentichiamo il crollo della volta della Basilica di S. Francesco ad Assisi nel 1997) mettono a nudo tutte le nostre insufficienze culturali, i nostri limiti, la nostra difficoltà di capire.

I monumenti sono fragili e hanno bisogno di cure. Sono corpi vivi, e possono morire. E allora bisogna amarlo, questo patrimonio: finché c’è. E amarlo vuol dire conoscerlo, visitarlo, studiarlo: e finanziarlo. Come non si è fatto per molte chiese del nostro territorio e come succede in tutta Italia. Serve secondo la lezione di Giovanni Urbani: un programma di conservazione dei nostri straordinari beni.

a cura di don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano dei Beni Culturali




Intorno all’opera/22 – La chiesa di Sant’Imerio

La festa mariana della Madonna del Carmelo (16 luglio) mi porta a proporvi una visita alla Chiesa cittadina che ne custodisce la devozione: S. Imerio. Una chiesa, che è stata sede di un importante comunità religiosa, quella dei Carmelitani scalzi e tutt’oggi punto di riferimento per una comunità parrocchiale che costituisce una porzione della città.

Quasi defilata, nascosta tra le case, così come dovrebbe essere una chiesa parrocchiale: casa tra le case. Con la sua facciata incompiuta in mattoni a vista, che mi fa pensare ad un’opera ancora da finire, che lascia spazio alla progettualità, alla creatività. Così come dovrebbe essere una comunità: riceviamo dal passato, costruiamo nel presente, lasciamo al futuro.

Una comunità che può fregiarsi di possedere opere straordinarie e che raccontano di personaggi rinomati, di artisti che hanno segnato la storia e l’arte di Cremona, come il Genovesino, illustre parrocchiano, che qui in S. Imerio lascia, nell’ultima cappella di destra, il suo capolavoro: “Il riposo dopo la fuga in Egitto” del 1651.

Una comunità che può orgogliosamente vedere costruita la sua spiritualità alla scuola dell’ascetica più profonda, quello dell’ordine Carmelitano scalzo, qui insediato dal 1606. La memoria delle grandi figure spirituali dell’ordine come S. Giovanni della Croce e S. Teresa d’Avila, mi spingono a rileggere pagine preziose della loro ascetica.

Mi permetto di usare un passaggio dell’opera più importante di S. Teresa d’Avila, grande mistica dell’ordine Carmelitano riformato, parafrasando l’esperienza che lei suggerisce di fare a ciascuno di noi, compiendo un cammino introspettivo all’interno della nostra anima, dove incontrare il Signore: “Il Castello interiore”. In esso parla di una fortezza composta da sette stanze che stanno sopra e sotto, a lato e in centro e in quella più interna, la camera da letto, si incontra il Signore. Guardo la chiesa di S. Imerio e la sua facciata incompiuta in laterizi, mi ricorda una fortezza. Così scrive S. Teresa d’Avila: “Tornando al nostro incantevole e splendido castello, dobbiamo ora vedere il modo di potervi entrare. Sembra che dica uno sproposito, perché se il castello è la stessa anima, non si ha certo bisogno di entrarvi, perché si è già dentro. Non è forse una sciocchezza dire a uno di entrare in una stanza quando già vi sia? Però dovete sapere che vi è una grande differenza tra un modo di essere e un altro, perché molte anime stanno soltanto nei dintorni, là dove sostano le guardie, senza curarsi di andare più innanzi, né sapere cosa si racchiuda in quella splendida dimora, né chi l’abiti, né quali appartamenti contenga. Se avete letto in qualche libro di orazione consigliare l’anima ad entrare in se stessa, è proprio quello che intendo io.” (Capitolo 1 n° 5)

Allora non mi resta che invitarvi ad entrare, nella vostra anima, nel vostro castello, nella settima stanza, la più intima, la più bella. Quella nella quale incontrare lo sposo, il re, il castellano, che vi aspetta e attende. Restando ad ammirare la stanza più interna, la meglio decorata, arricchita e impreziosita di opere e di capolavori. Ne resterete estasiati.




Intorno all’opera/21 – Lo sguardo dell’Agnello

A gennaio si è concluso parte del restauro del Polittico de L’Agnello Mistico di Jan van Eyck e Hubert van Eyck, realizzato nel 1432, uno dei grandi capolavori della storia dell’arte mondiale. Si trova a Gent, nella Cattedrale di San Bovone.

Un’opera monumentale, il più imponente dei polittici realizzati nelle fiandre durante il quindicesimo secolo: misura tre metri e cinquanta in altezza, e quattro e settanta in larghezza, quando è aperta. Infatti il polittico (24 tavole in quercia) è dipinto su entrambi i lati ed era stato concepito per essere chiuso o aperto (e quindi per mostrare certi scomparti piuttosto che altri) secondo le occasioni.

Quando il polittico è aperto, presenta dodici tavole, suddivise su due registri. Un concentrato di arte, teologia,  bellezza che riassume l’intera storia della Redenzione. Il centro catalizzatore è l’Agnello, elaborato dal libro dell’Apocalisse, posto al centro su di un altare in un giardino lussureggiante, che misura solo 12 per 12 centimetri. Durante le delicate fasi del restauro, durato tre anni, si è scoperto il vero “sguardo” dell’Agnello coperto da posteriori ridipinture: uno sguardo umano, penetrante, scrutatore. Gli occhi sono posti frontalmente e non lateralmente come nei ritocchi successivi che diedero all’agnello un’apparenza più naturale, secondo il gusto del tempo.

Su tutto quello che è accaduto in questi mesi in cui si è sofferto, pianto, scritto, riflettuto, su tutto e su tutti si è posato lo sguardo di questo Agnello.

«Chi è degno di aprire il libro e sciogliere i sigilli?».
«Io piangevo molto perché nessuno ne era degno» scrive il veggente Giovanni.

Alle lacrime versate nell’incapacità di risolvere gli enigmi del mondo c’è soltanto una risposta: l’Agnello immolato e Vivente. Il Primo e l’Ultimo. Da quando Cristo ha pronunciato dalla croce il «tutto è compiuto» noi siamo sotto questo sguardo. Temporaneamente ciò che abbiamo vissuto abbraccia il periodo quaresimale e quello pasquale, e ora l’ordinarietà del quotidiano. Nessuna “profezia” da fine del mondo, sono dolori di un parto che dura, di un parto in atto e questa volta ne siamo stati coinvolti anche noi, come territorio, come popolo, nella nostra carne. Come tutta l’umanità. Almeno in questo saremo capaci di riconoscerci fratelli?

(Lascio a voi questa riflessione, giuntami da una carissima amica, Monaca Benedettina, Madre Cristina, con la quale ho condiviso gli anni del liceo).

a cura di don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano per i Beni culturali




Intorno all’opera/20 – Genovesino, l’altare di San Rocco

La prossima settimana i vescovi delle dieci diocesi lombarde saranno impegnati negli annuali esercizi spirituali, credo sia bello accompagnarli con la nostra preghiera, oltre che con il nostro affetto. Pastori non risparmiati dalle prove della vita e chiamati  a guidare le Chiese del territorio lombardo, messo così duramente alla prova dalla pandemia.

L’opera scelta per questa settimana campeggia sulla copertina del libretto della liturgia che accompagna i loro esercizi spirituali. È una piccola tela che guarnisce l’imponente ancona dell’altare nel transetto nord della nostra Cattedrale, dedicato al santo taumaturgo Rocco. Opera del Genovesino, realizzata come ex voto dopo la peste del 1630. Al centro campeggia la più antica statua di S. Rocco, attorno l’artista ligure – ma cremonese d’adozione – incastona nell’ancona dorata dieci tele realizzate intorno al 1646 e che raccontano i principali episodi della vita del santo, tra questi la segnatura del cardinale. Si narra infatti che S. Rocco all’arrivo a Roma si sia recato all’ospedale del Santo Spirito, ed è qui che sarebbe avvenuto il più famoso miracolo di San Rocco: la guarigione di un cardinale, liberato dalla peste dopo aver tracciato sulla sua fronte il segno di Croce.

Mi piace pensare che anche i Pastori hanno bisogno delle preghiere e dei gesti di vicinanza dei fedeli, come ben ci ricordano le parole del vescovo di Pinerolo mons. Derio Olivero, che raccontando della sua dura prova vissuta in ospedale a causa del covid, così dice: «È stata un’esperienza davvero dura e ho camminato due o tre giorni con la morte, lucidamente con la morte. Però ne sono fuori e quindi sono grato, felice.
La cosa più bella che voglio dire è che ho sentito un’enorme vicinanza della gente, di tutta la mia diocesi e dei miei amici. Quando si è di fronte alla morte mi sono reso conto di questo: sono stato due giorni, non so, due giorni e mezzo lucidamente con la certezza di poter morire e mi sono reso conto che due cose contano. Due: la fiducia in Dio e le relazioni. La fiducia in Dio non mi ha abbandonato. Anzi, grazie a quella, sono stato sereno dal primo giorno fino ad oggi. E le relazioni, gli affetti. Tutto il resto crolla. Io credo ai segni dei tempi. Ovviamente questa malattia non è stata mandata da Dio, ma anche in questa pandemia Dio parla e dobbiamo capire che cosa ci dice».

Come ci chiede la lettera agli Ebrei: «Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio» (13,7) preghiamo per i nostri vescovi, loro pregano per noi.

a cura di don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano per i Beni Culturali