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Intorno all’opera/8 – La Madonna dei Pellegrini di Caravaggio

Caravaggio dipinge quest’opera quando i pellegrini potevano percorrere le strade polverose delle vie che conducevano alle grandi mete spirituali: Roma, Gerusalemme, Santiago. Non erano certo dei runner che con fisici più o meno atletici sfidavano le minacciose restrizioni sociali che prevedono il distanziamento fisico più che sociale, ma erano poveracci, nel vero senso della parola, senza particolari e sofisticati equipaggiamenti: smartphone, calcolatori elettronici di contapassi o di calorie, ma una semplice borraccia, un cappello a falde larghe per ripararsi dal sole cocente di mezzogiorno, un bastone per la difesa dagli animali randagi, più che per il sostegno, bisaccia se qualcosa poteva contenere oltre che al tozzo di pane, mantello che faceva da coperta e ombrello.

Finalmente giunti alla sospirata meta, alla porta della misericordia, piegano le loro stanche ginocchia in un gesto di devozione vera. E chi appare? Chi si affaccia alla porta della misericordia e della compassione. Un Dio onnipotente e giudicante? Un Signore regale vestito in sontuose abiti? No.

Appare la cosa più terrena e umana che ci possa esistere. Appare la maternità di una donna che sì sembra superiore, ma non per l’unico gradino che la distanzia l’innalza, ma per quella posa, quasi da moderna modella, che la sopraeleva, quasi sembra nemmeno toccare la terra, appare sfiorarla appena. Ed in braccio un Figlio, sproporzionatamente grande. Questa la grandezza del Figlio di Dio, l’esagerata umanità divina.

don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano per i Beni culturali




Intorno all’opera/7 – Il Risorto

Ricollocati solo per una settimana alla fine di febbraio del 2020, periodo peggiore non poteva esserci: è stato come tornare indietro di 500 anni, alla notte di Santo Stefano del 1519, quando, a Raffaello ancora vivo – ma sarebbe morto pochi mesi dopo a soli 37 anni – vennero appesi alle pareti della Cappella Sistina i primi sette arazzi realizzati a Bruxelles dalla bottega del tessitore Pieter van Aelst su cartoni del pittore urbinate.

Il colpo d’occhio è davvero magnifico, ed è pienamente riuscito l’intento della ricostruzione storica voluta dalla direzione dei Musei Vaticani per celebrare il quinto centenario della morte di Raffaello Sanzio, nato ad Urbino nel 1483 e morto a Roma il 6 aprile 1520, nel giorno del Venerdì santo, per una febbre improvvisa.

Entrare in Sistina è godere di questa bellezza, perché, come disse Paris de Grassis (il cerimoniere di Leone X all’epoca in cui furono appesi per la prima volta gli arazzi): “A universale giudizio non esiste niente di più bello al mondo che la Cappella Sistina ornata anche degli arazzi, oltre che di tutto il resto”.

Un allestimento che Raffaello non ammirò al completo, ma nemmeno noi a causa del contesto drammatico che stiamo vivendo.

Tra i diversi arazzi scegliamo quello di Pietro invitato dal Risorto a pascere il suo gregge. Perché? Perché c’è il Risorto.

don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano per i Beni culturali




Intorno all’opera/6 – Il Crocefisso di Scandolara Ravara

Uno dei più antichi crocifissi presenti nella nostra diocesi. Forse anche per questo ci appare così provato. Protagonista suo malgrado di alterne e complesse vicende ora è in attesa dell’ultimo restauro prima della definitiva ri-esposizione ai fedeli della diocesi.

“Ma la storia delle vittime è di per sé la storia di Dio. Solo che mi accorgo adesso di non averlo saputo dire. Ma perché – osserverete voi – ho detto che la storia delle vittime è la storia stessa di Dio? Perché ogni qualvolta un innocente è chiamato a soffrire egli recita la Passione. Che dico recitare. Egli è la Passione. Non nel senso che il Signore voglia rinnovato in lui il proprio sacrificio, come pure per errore pensato altre volte, ma nel senso che è egli stesso a crocifiggersi in lui. Potrà parervi disperante questo Dio disarmato. E invece che cosa c’è – riflettiamoci bene – di più consolante che questa solidarietà non di forza e di giustizia, ma di compassione e d’amore? In verità è questo, semplicemente, amico mio: la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno; e il dolore di ciascuno è la croce di Dio.”  (Mario Pomilio, Il Natale del 1833)

E di dolore e di passioni questo crocifisso ne ha viste passare nei secoli che porta sulle spalle: guerre, pesti, alluvioni e carestie, povertà e miseria, scorticamenti e polverosi abbandoni, funerali e ancora passioni.

don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano per i Beni culturali




Intorno all’opera/5 – La chiesa del cimitero di Bergamo

Due semplici cose. La mia famiglia mi ha insegnato fin da piccolo ad onorare i propri defunti. Ogni quindici giorni, quando ero piccolo con i genitori e i miei fratelli andavamo dalla nonna materna a Bergamo, ma prima era obbligatoria la visita al cimitero monumentale, li era sepolto il nonno Pietro e gli altri parenti della mamma. Era diventata una cosa bella.

Mi piaceva visitare quel cimitero; maestoso, curato, ben tenuto. Si passava dalla chiesa, altra opera d’arte bella tra le chiese contemporanee. La chiesa di Ognissanti affascina per la luce che filtra dalle finestrelle colorate. Due i grandi artisti che l’hanno arricchita, il trevigliese Trento Longaretti, con lo strepitoso mosaico dorato che raccoglie i santi intercessori della chiesa di Bergamo, dietro ai quali si moltiplicano all’infinito le aureole. E la struggente via crucis di Piero Brolis, un’opera unica nel suo genere, una pellicola cinematografica che come una cintura fiancheggia tutta la chiesa con il suo pathos, con le personificazioni dei vizi che si mescolano tra la gente che si affastella intorno al povero Cristo.

Mai mi sarei immaginato che quei luoghi, frequentati da piccolo, sarebbero rimbalzati alle cronache nazionali per lo struggente allineamento di così tante bare. Drammatico e terrificante il messaggio che quelle salme allineate ai piedi del paradiso bergamasco raccontano di questa amata città.

Un lutto che dovrebbe essere nazionale, una giornata almeno, ma che così non è, forse perché manca il tempo celebrare le esequie, per rielaborare. Ebbene quel cimitero, così familiare, quella chiesa, le opere di Longaretti e di Brolis, sono i due grandi insegnamenti della mia famiglia di origine bergamasche: la passione per l’arte e la compassione per i propri defunti.

Per terra queste bare, sopra il dolore della via crucis che le circonda, più in alto un paradiso affollato di santi, le aureola sembrano non bastare più se si contano le sorelle e i fratelli da accogliere e che sotto giacciono in attesa almeno di una dignitosa sepoltura. Passione e compassione, sembra difficile compiere due semplici cose.

don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano per i Beni culturali




Intorno all’opera/4 – La chiesa dell’Ospedale di Bergamo

Ho da sempre sul desktop del mio computer l’immagine della chiesa dell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo. È una chiesa contemporanea che ritengo tra le più belle e riuscite. Eleganza e modernità che si accostano in un binomio perfetto. Al suo interno opere di artisti contemporanei che, attraverso un percorso di condivisione, sono riusciti a rielaborare il tema della fede e del dolore in maniera unica.

Oggi più che mai penso a questo luogo di sofferenza e di speranza che sta vivendo un momento così terrificante, ma dove rimane dolore e speranza, irrorato dalla fede.

Tra le diverse opere che la arricchiscono vorrei però soffermare la nostra attenzione sul Crocifisso, opera del bergamasco Andrea Mastrovito (quello delle magliette della GMG dei giovani della Polonia 2016)

È un Cristo agonizzante sulla croce, ma non sul Calvario bensì in un bosco di betulle. È splendido quel giardino. Circondato da altrettanto splendido giardino di oleandri delle pareti laterali opera di Stefano Arienti. Quegli alberi che si stagliano con i loro tronchi bianchi danno un senso di primavera e di purezza unici. La primavera stagione che si sta prepotentemente affacciando in questi giorni di marzo e che forse, presi dalla paura del contagio, rischiamo di non riuscire a vedere. La Croce di Mastrovito è piantata li in mezzo a quel bosco di betulle, nei giardini delle nostre belle case.

Nel silenzio spettrale di queste notti, solcato dall’urlo delle sirene delle ambulanze, la Pasqua ci sembra così lontana, eppure sarà solo fra tre giorni, ma ci sembra una eternità.

don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano per i Beni culturali




Intorno all’opera/2 – Mani che lavorano

Davide Tolasi, artista contemporaneo, originario della nostra diocesi, ha da poco terminato una interessante installazione su un muro di recinzione di una piccola fabbrichetta nella zona industriale del suo paese d’origine, in occasione di una biennale “casalinga” con più di 100 giovani artisti. Racconta di mani che lavorano, un filo rosso le lega tutte insieme. Gli antichi mestieri: dal fabbro alla sarta, dal panettiere al falegname.

Quei vecchi lavori e le mani callose di anziane persone, gli uomini e le donne tra i più colpiti da questa pandemia. Il rischio è questo, come ci racconta il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, quello di perdere un’intera generazione, quella della memoria. Piace sapere che un giovane artista contemporaneo abbia saputo raccogliere questa sapienza, per trasmetterla alle nuove generazioni, prima che scompaia. Nell’era dei social, dove le mani scorrono veloci sfiorando schermi digitali, queste operazioni illustrano un mondo che del passato conserva i manufatti più pregiati insieme a: profumi, rumori.