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La voce del Vangelo nella vita di don Primo. Parole ed episodi inediti del «parroco d’Italia» a “Chiesa di Casa”

Questa settimana “Chiesa di Casa” è luogo di dialogo sulla figura di don Primo Mazzolari, in prossimità dell’anniversario della sua morte, avvenuta a Bozzolo il 12 aprile del 1959. Al confronto con Riccardo Mancabelli, è stato presente in studio don Umberto Zanaboni, vicepostulatore della causa di beatificazione di don Mazzolari. In collegamento, invece, Paola Bignardi, presidentessa della Fondazione Mazzolari di Bozzolo.

Definito da Papa Francesco «il parroco d’Italia», nella visita del pontefice alla tomba nel 2017, don Mazzolari è stato per 27 anni a Bozzolo, dopo 10 anni a Cicognara. Come spiega don Umberto: «Nel processo di beatificazione non servono libri famosi o grandi omelie, ma bisogna portare come prove i fatti concreti. Io ho avuto la fortuna di andare a conoscere chi l’ha conosciuto. È stato un parroco in mezzo alla sua gente. Tutti insistevano su questo: “Don Primo c’era” “Su don Primo io e la mia famiglia potevamo contare”».

È la Fondazione don Primo Mazzolari ad occuparsi della catalogazione delle carte e alla trasmissione dell’esperienza di don Primo, come spiega la presidentessa Paola Bignardi: «La sfida è fare in modo che conservare le carte di don Primo non significhi fare un monumento al passato, ma custodire una memoria alla quale attingere per affrontare le domande che l’oggi ci pone. Ancora più grande è la sfida di farlo conoscere e apprezzare ai giovani».

Dunque, carte contenenti un’eredità da cogliere e da far riscoprire soprattutto ai ragazzi: «Se non intercetta il mondo giovanile – chiarisce Bignardi – è destinata perdersi. Poco fa abbiamo coinvolto una classe del liceo Vida dando loro il compito di leggere e presentare a un pubblico uno scritto di don Primo Mazzolari, Diario di una Primavera… ne sono stati affascinati. Dobbiamo darlo in mano ai giovani – ha poi sottolineato con convinzione – che possono renderlo attuale, ri-esprimerlo».

Il rapporto con i giovani, per altro, a don Mazzolari era particolarmente chiaro, come racconta don Umberto raccontando alcuni episodi inediti del ministero di don Mazzolari: «Dopo aver pregato con le persone le preghiere della sera, lo raggiungevano dei giovani, dieci o venti giovani, che andavano con lui a passeggiare nei campi e lì parlavano di tematiche sociali, di fede, attualità. Oppure li portava con sé a comizi, conferenze… c’era sempre qualcuno in macchina con lui».

Oltre al pellegrinaggio del Santo Padre sulla tomba di don Primo, anche la conferenza del 2018 all’UNESCO è stata dedicata alla sua figura, particolarmente pertinente all’attualità, tutto immerso nelle questioni del suo tempo e con le persone di quel tempo. Così, infatti, ha concluso Paola, nel suo intervento: «Faceva parlare il Vangelo, non una dottrina, testimoniava una Chiesa vicina alla gente».




A Chiesa di casa sotto la lente la tutela dei minori

Chiesa di Casa guarda questa settimana alla tutela dei minori. Per questo, in dialogo con Riccardo Mancabelli, in studio, è intervenuto l’incaricato diocesano per la tutela dei minori don Antonio Facchinetti, con in collegamento, invece, Silvia Corbari, a cui è stata affidata la gestione del Centro di Ascolto.

Don Antonio ha anzitutto spiegato la natura di questo servizio, che prende le mosse da un desiderio di Papa Francesco che «parte dal desiderio non solo di cucire le ferite, ma anche di prevenire i limiti umani, soprattutto nel campo della custodia dei minori o delle persone che sono in qualche modo svantaggiate, perché non custodite nella loro maturità». Desiderio, prima di tutto, di una presa di coscienza: «Far sì che tutta la Chiesa si renda conto delle malvagità che possono essere state commesse all’interno della Chiesa».

Oltre al servizio nato a livello nazionale, ce n’è uno regionale e anche diocesano, come specifica don Facchinetti: «Si è cercato di costituire dei servizi centrali che a loro volta potessero avvalersi di servizi diocesani o inter-diocesani, guardando a due versanti: quella che è la registrazione delle segnalazioni, sia per la cura di chi è stato vittima sia per tenere presente le persone che hanno sbagliato e che hanno bisogno di un riscatto; l’altro campo è il discorso della prevenzione e della promozione di una educazione sana a tutti i livelli».

Cura e prevenzione, quindi, sono gli obiettivi pratici di questa proposta, obiettivi che si fanno “luogo” proprio nel Centro di Ascolto, di cui Silvia Corbari ha spiegato le caratteristiche principali: «Si accoglie sia chi vuole raccontare, sia chi vuole denunciare o esprimere la propria difficoltà. Il compito del centro di ascolto è proprio quello di accogliere, ascoltare ed eventualmente anche di orientare riguardo i passaggi ulteriori». Questo centro si avvale di strumenti che garantiscono comunque la riservatezza e l’anonimato e che portano poi verso il momento effettivo dell’ascolto, cioè un appuntamento.

Sotto la lente non ci sono solo gli abusi che fanno più rumore nella cronaca, ma anche quelli “di coscienza”.

Attualmente «viviamo un momento di relativa calma: non ci sono segnalazioni drammatiche o inquietanti. Questo, però, non ci deve lasciare tranquilli perché noi dobbiamo vigliare», conferma don Facchinetti.

Il tema, quindi, si intreccia fortemente con quello educativo: «Riuscire ad accrescere non solo le competenze, ma anche proprio l’approccio nel sentirsi educatori all’interno di una comunità, a prescindere dal ruolo che si va a svolgere credo che sia la base per un’attenzione che è fatta di rispetto e accoglienza. Stiamo anche camminando come Chiesa, come sinodo, per riprendere l’abitudine al fare insieme, al confrontarsi».

In conclusione, quindi, si è osservato come la tematica educativa sia il primo passaggio per una consapevolezza e una crescita sana e «imbevuta di fede».




A Chiesa di casa l’esperienza dei catecumeni che nella veglia di Pasqua riceveranno i Sacramenti

Questa settimana la rubrica Chiesa di Casa volge lo sguardo alla veglia di Pasqua, nella quale il vescovo Antonio Napolioni, in Cattedrale, conferirà i sacramenti dell’Iniziazione cristiana ad alcuni catecumeni. È proprio il Catecumenato il tema affrontato nel dialogo fra Riccardo Mancabelli e l’ospite in studio: don Luigi Donati Fogliazza, incaricato diocesano per il Catecumenato. In collegamento i coniugi Emanuela e Alberto Gavazzi, coppia di Cassano d’Adda che accompagna uno di questi catecumeni.

«Il Catecumenato ha una storia antica – spiega don Donati Fogliazza –. È l’esperienza che la Chiesa si è data, soprattutto nei primi secoli, per accompagnare coloro che chiedevano il Battesimo». Un’esperienza, dunque, «di conoscenza progressiva del Signore e della Chiesa e, quindi, di avvicinamento ai sacramenti».

Ma anche percorso con tappe predefinite, seppur con tempi in qualche modo personalizzati: «Anzitutto l’Iscrizione, quando il catecumeno – continua il sacerdote – entra formalmente in questo percorso; quindi si formalizza la richiesta ai sacramenti e l’accoglienza della comunità; poi ulteriori passaggi – scrutini – scandiscono il tempo quaresmale, fino alla celebrazione dei sacramenti nella veglia Pasquale».

Sono i coniugi Gavazzi a dare una testimonianza concreta della loro esperienza con i catecumeni: «Nel 2019 avevamo già accompagnato una ragazza che ci era stata affidata alcuni anni fa: aveva 15 anni, era liberiana e noi abbiamo “cucito” su di lei un programma di preparazione. Un cammino che era durato tre anni. Poi, ci è stata affidata quest’altra ragazza», dice Emanuela. E continua Alberto: «Adesso con noi abbiamo Regina, che è albanese e ha 32 anni; abbiamo incominciato il percorso ormai da due anni e mezzo, quindi ci siamo riuniti quindicinalmente con lei a casa nostra, per arrivare alle celebrazioni che hanno coinvolto anche la nostra comunità di San Zeno».

Appartenenza alla comunità che, insieme alla domanda di senso, sembra essere denominatore comune delle diversificate esperienze di catecumenato: «Il bello del Catecumenato – racconta l’incaricato diocesano – è che ogni storia è a sé: c’è chi viene da un contesto più cristiano, c’è qualcuno che viene da contesti totalmente diversi. Quello che li accomuna è la necessità di dare un senso alla propria esistenza». E prosegue: «La seconda cosa che mi colpisce è il desiderio dei catecumeni di essere in comunità, cioè manifestano fortissimo il desiderio di conoscere il Signore, ma con la comunità». Per questo, come spiega don Luigi «l’esperienza del Catecumenato ci dice che la Parola del Vangelo non smette di chiamare e, anzi, che il Vangelo chiama ciascuno di noi in un momento preciso della vita, in modalità specifiche. Noi siamo abituati a percorsi “di massa”, ma il Catecumenato ci dà un altro volto della Chiesa, che è proprio quello di una vocazione personale a seguire il Signore».

Quindi, è evidente che per la comunità il Catecumeno è valore aggiunto, come dice Alberto: «Sicuramente abbiamo visto che lo Spirito Santo soffia dove e come vuole… quando vuole! E abbiamo notato tutti l’entusiasmo della nostra catecumena». Entusiasmo che non lascia indifferenti, per la sua evidenza: «Noi siamo stati come “energizzati”: le esperienze con queste due ragazze ci hanno rigenerato e ci hanno aiutato a riscoprire la ricchezza dell’essere cristiani».

Nell’esperienza di arricchimento reciproco, per il catecumeno essere accompagnato è fondamentale: «In fondo, questo è quello che succede quando si nasce: c’è qualcuno che ci conduce mano a mano a entrare nelle esperienze della vita. È il volto di una Chiesa che si prende cura di te», dice don Luigi Donati Fogliazza. Che aggiunge come anche la scelta del luogo della Cattedrale non sia dettata dal caso: «Ci sono motivi profondi, anche legati alla figura del Vescovo, proprio come successore degli Apostoli: la fede che i catecumeni esprimono, e che noi tutti saremo chiamati a esprimere nella veglia Pasquale, è la fede che si fonda sulla trasmissione della fede apostolica. Poi, c’è una dimensione comunitaria forte che la cattedrale e il vescovo esprimono».

Il cammino, certo, non si esaurisce con la veglia di Pasqua. Anzi, come dichiara Alberto ricordando l’esperienza della prima catecumena accompagnata: «Ricina si è sempre affidata a noi: ha voluto sempre tenere questo collegamento con noi e con tutte quelle persone che ha incontrato durante il percorso». Uno cammino, quello del Catecumenato, che per i coniugi Gavazzi porta il neofito a diventare veramente testimone del Vangelo.




Percorsi di preparazione al matrimonio: camminando insieme verso il «sì»

A pochi giorni dall’incontro diocesano tra il Vescovo e i giovani che hanno partecipato ai corsi in preparazione a matrimonio, «Chiesa di casa» ha dedicato proprio a questo tema il suo approfondimento settimanale. Ospiti in studio i coniugi Betti e Giuseppe Ruggeri, che da anni seguono questo percorso con il ruolo di coppia guida e in collegamento Chiara e Fabio Accardo, una coppia di giovani sposi.

«Per il corso di preparazione al matrimonio – ha spiegato Giuseppe – c’è una equipe di sposi, due o tre coppie, più un sacerdote. Si articola in nove incontri, più uno con il vescovo che si tiene in primavera tutti gli anni. Si fa una riflessione su temi che comprendono dall’amore umano fino al matrimonio. Sono incontri che tengono conto anche di rischi e fatiche molto concrete all’interno del matrimonio, però alla luce del Vangelo». A questo corso partecipano, secondo quanto riferisce Betti «ormai quasi tutte coppie già conviventi, un po’ per “obbligo”, un po’ per scelta. Al massimo su dodici coppie circa ce ne sono una o due che non convivono. E poi sono abbastanza avanti in età – e aggiunge – È bello, però, capire quello che ha portato le coppie a sposarsi in Chiesa: la convivenza non gli basta, ma hanno bisogno di una “definitività” diversa, un di più». A tal proposito, è fresca la testimonianza di Chiara e Fabio: «Per noi è stato un cammino di fede, non solo di coppia, – dice Chiara – è un percorso che serve, perché alla fine non si ritorna come prima: si sono incontrate delle persone, cioè anche punti di vista nuovi. A noi è capitato affrontare discorsi che tra di noi non erano venuti fuori». Anche Fabio ha sottolineato la portata di questa esperienza per lui: «L’abbiamo sentita come esigenza di formazione. Ne avevamo bisogno e ci ha arricchito tanto». L’arricchimento, però, non è solo per i fidanzati: «La preparazione di questi incontri – afferma Betti – è sempre nuova. In équipe ci si incontra sempre per confrontarsi prima e, nonostante più o meno la scaletta sia sempre quella, i fidanzati sono diversi». Dunque, sempre un elemento di novità, anche per chi guida gli incontri da circa venticinque anni: «Le relazioni che si creano sono arricchenti, anche per noi – aggiunge Giuseppe – noi andiamo sempre preparandoci e riscopriamo le radici di ciò che ci ha unisce. Qui si comprende quanto è bello questo sentimento quando si apre a Dio». Il metodo utilizzato, poi, come specifica Betti: «Non è quello della lezione frontale, ma quello di far mettere in gioco le coppie. All’inizio facciamo fare un momento di confronto interno alla coppia e poi tutte le coppie mettono in comune le riflessioni. Noi ne facciamo una sintesi».  Un metodo che pare efficace soprattutto perché prevede la testimonianza vivente di altre coppie. Così, Chiara racconta: «La nostra aspettativa era alta. Non siamo stati delusi, anche perché Betti e Giuseppe sono stati da esempio, anche dalle parole che uscivano dalla loro bocca». Fabio aggiunge: «Ci hanno proprio resi partecipi. Ci siamo riscoperti e abbiamo riscoperto altre persone. È stato un interagire molto arricchente». Incontri con chi è in cammino da tempo, ma anche con chi è lì per le stesse esigenze e domande: «All’inizio magari c’è un po’ di diffidenza, ma poi si crea una comunione» dice Betti.

Infine, la trasmissione si è conclusa con l’augurio delle coppie di essere segno della presenza di Dio nel loro Amore, quindi Parola viva, ma anche di non fermarsi mai in questo cammino di cui il corso è solo un piccolo tassello.




Archivio storico diocesano e Biblioteca del Seminario, «un mondo di persone che gridano le proprie idee»

Nell’appuntamento settimanale di questa settimana Chiesa di Casa, il talk di approfondimento pastorale, guarda all’archivio storico diocesano e alla biblioteca del Seminario. Una puntata, quella condotta da Riccardo Mancabelli, che svela la vitalità di questi luoghi di cultura. I due ospiti intervenuti sono don Paolo Fusar Imperatore, direttore delle due realtà, insieme a Roberta Aglio, una delle due bibliotecarie, in collegamento proprio dal Seminario.

«Archivio e biblioteca non sono la stessa cosa – spiega con una battuta don Paolo Fusar Imperatore –. Di solito definisco carte “silenziose” quelle dell’archivio, perché si tratta di enti che producono e tengono nascoste le loro cose, perché servono a chi ci lavora sopra; le biblioteche, invece, sono enti un po’ più “chiacchieroni” perché riguardano chi pubblica e per questo vuol far sapere».

In particolare, l’Archivio storico diocesano conserva la documentazione dell’ente Diocesi, che ha vita molto lunga: «Fondi continui sono risalenti solo al XIX sec, ma ci sono addirittura alcune pergamene che raggiungono primo millennio».

Dal dialogo, è emerso come questa documentazione sia interessante per chiunque: non tanto perché conserva un patrimonio fine a se stesso, quanto piuttosto perché è indice di una cultura viva. «Il deposito dell’archivio è un mondo di persone che gridano le loro idee. Spiega una vita in opera di vescovi, curia e movimenti, ma anche di qualche parrocchia e sicuramente di enti importanti. Per esempio, la Fabbriceria della Cattedrale è il fondo più importante dal punto di vista di quello che si può trovare».

La curiosità per questi scrigni di cultura sorge quindi spontanea e ci si domanda quale sia la loro origine, che contenuti accolgano e quanto questo sia fruibile.

È la Biblioteca, naturalmente, il luogo più aperto: «Nasce con il Seminario stesso – spiega Roberta Aglio – cioè nella seconda metà XVI secolo. Fino a circa quindici anni fa era aperta solo a seminaristi, sacerdoti e talvolta ad alcuni studiosi che avevano necessità di accedere al fondo antico». Si intuisce, dunque, che «la specificità dell’utenza, all’inizio, era religiosa. Invece, dal 2017 la biblioteca è aperta a tutta l’utenza, secondo l’ottica impostata dalla Cei con il progetto Cei-bib, il polo delle biblioteche ecclesiastiche legato al sistema bibliotecario nazionale, al quale aderiamo dal 2009. Oggi, c’è anche un fondo moderno che nel corso degli anni abbiamo arricchito e i nostri utenti sono eterogenei: appassionati di saggistica, narrativa, ma anche bambini che partecipano a progetti con il consultorio Ucipem e con Filiera corta solidale, tanto che abbiamo cominciato ad occuparci anche di letteratura per l’infanzia. Inoltre, abbiamo ricercatori e studenti universitari e delle superiori». Si intuisce, dunque, il sempre più incisivo rapporto con la scuola «come dice la presenza nel Seminario del liceo Vida: offrendo la possibilità di una conoscenza diretta del libro antico, forniamo anche agli insegnanti materiali concreti utilizzabili a scopo didattico».

Così, anche durante la pandemia, di momenti “morti” ce ne sono stati pochi: «Negli ultimi due anni abbiamo avuto la possibilità di ripensare la sala consultazione a misura di studente, anche perché nel complesso del Seminario si è trasferita anche la scuola primaria Canossa».  La didattica e il sapere, comunque, vanno di pari passo con lo “svago”: «Si possono naturalmente prendere libri in prestito solo per il gusto di leggere».

Evidente testimonianza di una vita ancora pulsante, piuttosto che di un accatastarsi di nozioni, il patrimonio librario diocesano viene curato dai suoi custodi, archivisti e bibliotecari. «Chi ha le chiavi deve aprire e distribuire» afferma il direttore Fusar Imperatore usando l’immagine petrina, ma questo «non è in contrasto con ciò che ciascuno è chiamato a fare, cioè studiare il proprio fondo». L’esito di un’avventura di conoscenza non compiaciuta di se stessa è apertura e disponibilità al prossimo, quindi strumento di incontro e condivisione: «L’invito da rivolgere agli universitari sarebbe quello di lavorare “in cordata”: alcuni lavori sono praticamente una miniera, tanto che ormai, da soli, non si riesce più ad affrontarli. La vera tutela – aggiunge il sacerdote – è lo studio, oltre che riordinare le carte, fare indici, inventari. Tutto ciò permette, o vuole permettere, la produzione di qualcosa di culturale. È da costruire, ma ora abbiamo altre possibilità, come il nuovo Museo diocesano, trampolino per mostrare i frutti di questa cultura».

Fra libri antichi e moderni, di portata notevole è la ricchezza derivata dalle specificità del territorio, anche se la profondità delle radici nasconde «una fatica, dovuta al fatto, ad esempio, che ogni parrocchia qui in Lombardia ha una tradizione almeno ottocentesca», come ricorda il direttore dell’archivio diocesano.

Infine, siccome «il concetto di preziosità correlato al contenuto, cioè alla storia che gli oggetti raccontano», Roberta Aglio ha mostrato alcune delle opere più sbalorditive che si trovano presso la biblioteca del Seminario: da una Cinquecentina fatta rilegare da committenti regali, fino a un libro proveniente dal Giappone. Gioielli che ciascuno può scoprire proprio diventando di casa nella Biblioteca del Seminario.




“Chiesa di casa” guarda all’8 marzo in dialogo con Paola Negri (Cif) e Gloria Manfredini (missionaria laica) sul tema “La donna nella Chiesa”

Questa settimana la rubrica della pastorale cremonese, Chiesa di Casa, riceve la testimonianza di due donne, in vista della giornata dell’8 marzo.  In studio, è intervenuta Maria Paola Negri, presidentessa del Cif (il Centro italiano femminile) della provincia di Cremona. In collegamento dal Brasile, invece, il contributo di Gloria Manfredini, missionaria laica Fidei donum a Salvador de Bahìa.

Entrambe le intervistate, nel dialogo con Riccardo Mancabelli, hanno precisato che dentro e fuori la Chiesa molto è ancora il cammino da fare: in qualsiasi ambito, da quello lavorativo a quello domestico, la dignità della donna non è ancora abbastanza riconosciuta.

Per Gloria, immediato è il confronto fra la situazione della diocesi cremonese e Salvador de Bahìa, dove opera da qualche mese: «La situazione qui è peggiore, soprattutto nelle favelas: la figura della donna è vista come un oggetto. Ci sono, però, delle eccezioni: ci sono persone che lavorano per valorizzare la donna».

E se è vero che il lavoro non si può dire concluso neanche in Italia, né in diocesi, bisogna notare che alcuni strumenti si stanno dimostrando utili, come lo stesso Centro Italiano Femminile: «nato a Roma nel ’44 – spiega Maria Paola Negri – è un’intuizione felicissima guidata dall’allora mons. Montini e che raduna attorno a sé diverse rappresentanti femminili di varie organizzazioni cattoliche. Il momento storico fu determinante: si trattava di preparare le donne al voto». Oggi a Cremona, sorgono diverse proposte fra le quali spicca una casa dedicata alla donna, che si occupa di accoglienza, aiuto all’integrazione e al lavoro: «Casa di Nostra Signora, in via Ettore Sacchi, fu fondata nel 1928 dalle Oblate, consacrate laiche che lavoravano nella società. Si accorsero che occorreva un posto di incontro per le donne, anche donne non in difficoltà, magari, ma che desideravano uno scambio sulla società e su quanto stava accadendo – racconta la Presidentessa del Cif –. Offriamo ospitalità sia a quella donna che deve venir via nella notte dalla casa con i bambini per violenza domestica, sia – ad esempio – alle donne liutaie di Mondo Musica, dato che pensiamo anche alle donne in viaggio». Molti sono i progetti attivati, da quelli dedicati a musica, letteratura e poesia, fino a quelli che si interessano alla ludopatia femminile, problematica presente anche nella nostra diocesi.

La donna nella Chiesa è un tema molto caro al pontefice Francesco, che spesso ne rimarca l’importanza: Maria Paola ricorda proprio le parole del discorso del Papa tenutosi il 1° gennaio 2022: «Mentre le madri donano la vita e le donne custodiscono il mondo, diamoci da fare tutti per promuovere le madri e proteggere le donne».

L’augurio è che lo «sguardo inclusivo» della donna, come lo ha definito Papa Francesco, sia sempre più lo sguardo di tutti verso tutti: «Il sommerso italiano esiste in tante forme – dichiara Maria Paola –. Femminicidi, violenza domestica, mobbing sul luogo di lavoro: siamo all’inizio del cammino»




Chiesa di casa, focus sui cattolici d’origine straniera

Nel nuovo appuntamento di Chiesa di Casa si è parlato di migranti. Hanno dialogato con Riccardo Mancabelli due ospiti: don Maurizio Ghilardi, incaricato diocesano per la Pastorale dei migranti, e Guillaume Yao, della comunità cattolica francofona di origine africana.

In particolare, don Maurizio si è soffermato sulla presenza straniera dei cattolici nella nostra diocesi: «Quella romena è la rappresentanza più datata, ma nel corso del tempo anche quella africana ha assunto numeri importanti e, per altro, si sono suddivise le comunità: quella di lingua francese e quella anglofona». Inoltre, in piccola parte, vi è la presenza di fedeli ucraini di rito greco-cattolico.

«Per diverso tempo – spiega ancora don Ghilardi – sì è cercato di accompagnare le comunità con risorse locali; finalmente siamo arrivati a presenza di due cappellani etnici dedicati a questo servizio: uno per la comunità francofona e uno per l’anglofona». Due comunità, quindi, in continuo dialogo con la realtà locale, che tuttavia dispongono di momenti dedicati, ad esempio la Messa in lingua nella chiesa del Migliaro, a Cremona.

Un’opportunità come questa non è una novità, come aggiunge l’incaricato diocesano: «Se pensiamo agli italiani all’estero, tutt’oggi c’è un cappellano cattolico che li accompagna. Ciò ha il valore di far sentire meno il distacco affettivo dalle proprie radici». Dunque, un evidente desiderio di integrarsi si fonde al bisogno di non prescindere dalla propria origine.

Origine fatta di una vivacità di spirito che queste comunità portano anche sul territorio cremonese: «Per noi la Messa è una festa, una grazia, siamo felici di andare in Chiesa», afferma Guillaume Yao.

Inevitabile domandarsi se effettivamente i migranti riescano ad inserirsi nel tessuto diocesano delle parrocchie: «Nel nostro caso è molto integrata la comunità francofona. Ma comunque, in linea di massima, queste persone frequentano la Messa della propria comunità locale» spiega don Maurizio. A tal proposito, Guillaume si è espresso sull’accoglienza delle parrocchie: «Prima abbiamo avuto difficoltà, perché non trovavamo un modo di vivere la nostra fede. Abbiamo parlato con il vescovo e adesso abbiamo iniziato a ritrovarci anche tra di noi. Per quanto riguarda l’inserimento nelle parrocchie, non abbiamo difficoltà. Io, per esempio, frequento la parrocchia di Longardore». Guillaume è anche ministro straordinario dell’Eucaristia e le sue figlie frequentano il cammino di catechesi in parrocchia.

La trasmissione si è conclusa con l’augurio che la complessità del tema non esaurisca il dialogo anche all’interno alla diocesi, affinché la Giornata del migrante e altre iniziative analoghe non siano solo brevi parentesi di ascolto e presa di coscienza.




Esperienze vocazionali, uno sguardo al futuro per giovani in ricerca

 

Nella nuova puntata di Chiesa di Casa si parla di vocazioni. A dialogare sul tema sono don Davide Schiavon, incaricato diocesano per la pastorale vocazionale e, in collegamento collegato, Matteo Villa, giovane di Cremona dell’unità pastorale di Sant’Omobono, che ha preso parte al “Gruppo Samuele”, l’iniziativa proposta dal centro vocazionale per venti-trentenni: «Una domenica al mese, un gruppo di una decina di giovani si  trovano per dedicare un pomeriggio alla loro fede, meditando sulla Parola di Dio» ha spiega don Davide «vengono guidati da un biblista e da un altro sacerdote che offre indicazioni su come attualizzare quanto ascoltato. Ci sono poi occasioni e tempo per pregare, ma anche per confrontarsi».

«Ho aderito a questa iniziativa – ha raccontato Matteo – perché considero importante l’aspetto spirituale: è bello porsi domande. Casualmente mi è stata fatta questa proposta e io non ho potuto rifiutare, perché sono sempre in ricerca. Siamo al quarto incontro: è bello essere seguiti e condividere questa cosa con persone della stessa età».

Un continuo dialogo, dunque, in cui vengono messe a tema le problematiche dell’oggi e argomenti profondi: «Ogni mese ha un tema specifico. Prendendo spunto da un brano biblico, lo si attualizza. Con aiuto dei giovani si riesce a costruire clima di ascolto e condivisione, ma ultimamente anche di amicizia» dichiara don Davide.

Rispetto alla vocazione secondo l’ottica cristiana, intasa in senso più ampio come il riconoscimento del progetto di Dio sulla vita di ciascuno, qualunque sia la strada a cui si viene chiamati, don Davide specifica: «Vanno di moda pessimismo e statistiche. Ma noi dobbiamo seminare: abbiamo il Vangelo e la Parola di Dio. Da ciò dobbiamo partire e agire. Dobbiamo partire da ciò che di buono c’è, anche nel piccolo». Una simile esperienza è  specifica, ma in generale, dice Matteo «i giovani d’oggi pensano al futuro. Anche perché senza futuro non c’è speranza. Certo, bisogna chiedersi a che tipo di futuro pensiamo. Ad oggi si è abbandonata la fede, che è essenziale. C’è una grossa difficoltà ad interagire con la propria spiritualità. La vocazione è una strada: sono passi di Gesù che ci precede e noi lo seguiamo». Secondo don Davide, «Il desiderio di verità è tratto comune a chi fa il cammino per la vocazione. Una verità per sé e per tutti».

Per i più giovani, cioè gli adolescenti, è nata l’iniziativa del “Pozzo di Giacobbe”, piccole settimane residenziali: «Esperienze in cui i ragazzi vanno a scuola al mattino e poi cenano, vivono proprio a gomito a gomito, anche pregando insieme» come spiega l’incaricato diocesano. Queste iniziative, per cui lavorano due equipe, sono complementari al ruolo della comunità, infatti: «Il Signore può far nascere ovunque delle vocazioni, ma la comunità ha un ruolo fondamentale» secondo don Davide. La trasmissione si è infine conclusa con l’invito a conoscere e far conoscere questa esperienza.




Case e ospedali come locande del buon samaritano

In occasione della Giornata mondiale del malato, la rubrica Chiesa di Casa ha visto la partecipazione di don Maurizio Lucioni, l’incaricato diocesano per la Pastorale della salute, oltre che coordinatore dell’Area pastorale “Con lo stile del Servizio”, che svolge anche l’incarico di assistente spirituale all’Ospedale di Cremona. Il dialogo in studio, guidato da Riccardo Mancabelli e che ha coinvolto anche la presidente dell’Amci (Associazione medici cattolici italiani) di Cremona, ha voluto individuare il senso di questa Giornata, dal titolo “Siate misericordiosi come il Padre Vostro è misericordioso”.

Giornata di cui quest’anno ricorrono i trent’anni dall’istituzione, voluta da Papa Giovanni Paolo II «per sensibilizzare il popolo di Dio e le molteplici istituzioni sanitarie cattoliche, e la stessa società civile, alla necessità di assicurare la migliore assistenza agli infermi». «Credo che oggi più che mai ci sia bisogno di questa attenzione – ha affermato don Lucini – per andare incontro a tutti i nostri fratelli sofferenti: non solo quelli presenti negli istituti, nelle rsa o nelle cliniche, ma anche quelli che sono nelle case».

Giornata del malato che arriva a pochi giorni di distanza dalla Giornata per la vita (sul tema “Custodire ogni vita”): «una coincidenza voluta e provvidenziale nello stesso tempo», ha detto il sacerdote, sottolineando la linea che unisce l’inizio della vita e la sua fragilità. «Solo pochi giorni fa – ha quindi ricordato – il Papa ha ribadito che ogni vita va custodita, sempre! È la risposta alla logica dello scarto». E ancora: «È proprio nelle situazioni di estrema fragilità che il nostro ascolto si fa accompagnamento e aiuto, necessari a ritrovare ragioni di vita. Riprendo ancora le parole del Papa: dobbiamo accogliere la morte, non darla!».

La dottoresa Rosalia Dellanoce, geriatra che lavora presso l’istituto Vismara De Petri di San Bassano, ha quindi portato la propria testimonianza di professionista, ma anche medico cristiano. Un tema, quello della misericordia, che ogni giorno si declina nel suo lavoro: «Il nostro lavoro – ha spiegato – è proprio quello di custodire vite fragili: quando ci viene affidato un nuovo ospite, noi cerchiamo subito di stabilire una relazione attraverso la sua famiglia». Secondo la presidentessa dell’Amci di Cremona, è dalla relazione che nasce la cura: «C’è una frase che ricorre spesso e che sempre mi colpisce; i familiari ci dicono: “Adesso è nelle vostre mani”. È una frase che emoziona tantissimo perché da una parte si vede tutto l’amore che c’è dietro e dall’altra la responsabilità che ci è affidata e che accogliamo con un certo timore di non essere all’altezza». Una responsabilità che riguarda anche la famiglia del malato: «La famiglia non delega tutto a noi: c’è una parte che rimane fondamentale nella presenza delle persone care con cui un anziano o un malato ha condiviso le tappe della sua vita». Sottolineando il verbo «custodire», la dottoressa Dellanoce ha spiegato che questo tipo di approccio «implica la capacità di riconoscere la preziosità di quanto ci viene affidato».

Una posizione che si allinea a quanto detto dal Papa: «Anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre è possibile consolare, sempre è possibile far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona prima che alla sua patologia».

Durante la trasmissione, con il ricordo andato a quanti vivono momenti di sofferenza nelle case o nei luoghi di cura, si è parlato anche delle “locande del buon samaritano” (come le definisce il Papa nel messaggio per questa Giornata) in cui malati di ogni genere possono essere accolti e curati. «In ogni casa in cui ci si prende cura di un ammalato o di un anziano si opera questa compassione, questa misericordia. Si potrebbe dire: è ovvio che sia così! Ma non è affatto così scontato. Però è anche vero che nelle nostre comunità c’è tanto Vangelo! Magari ancora nascosto e non così visibile, perché non finisce sui giornali. Davvero ci sono tante locande della misericordia di Dio: ad esempio le rsa o le cliniche in cui ci sono operatori che svolgono il proprio servizio non semplicemente per portare a casa lo stipendio, ma come vocazione. Anche se magari non sono cristiani praticanti. L’ho sperimentato tante volte».

Don Lucini ha ricordato anche l’importanza del “ministero della consolazione”, che «esiste già da anni e timidamente nasce qua e là, anche se non è ancora entrato a pieno nell’azione pastorale della Chiesa. Questo però non vuol dire che i tanti cristiani che sono nelle nostre comunità non operino e non compiano questo servizio. Il ministro della consolazione, però, non è tanto uno che fa, o che pronuncia parole consolatorie, piuttosto dice una presenza. È una persona che si pone in ascolto delle tante fragilità che possono essere presenti nel suo territorio, ma nello stesso tempo è anche il promotore, all’interno delle comunità, di questo tipo di servizio. Il ministero della consolazione non è da delegare a qualche esperto: lo fa a nome della comunità e, contemporaneamente, ricorda a tutti gli altri cristiani il loro il loro impegno».

La dottoressa Dellanoce ha infine ricordato come quello che diversifica i medici credenti, i medici cattolici, è lo stile del servizio, in nome di una scelta di vita e di una scelta religiosa: si tratta di incarnare nella professione quelli che sono i valori del Vangelo, che sono valori talmente belli e talmente universali che li ritroviamo anche in persone e in colleghi completamente laici». In mezzo a «situazioni che ogni giorno ti interrogano», come ha aggiunto la dottoressa, si va incontro a una «bellezza molto particolare» che sostiene nel contatto quotidiano con il dolore e con la malattia; una circostanza che –assicura la dottoressa Dellanoce – facilita «l’ascolto del Vangelo, perché le persone, con i loro comportamenti, ti parlano, incarnando valori grandissimi». Un lavoro, quindi, impegnativo, ma sostenuto da una vocazione all’incontro e all’ascolto dell’altro che arricchisce «in una maniera che non avresti pensato».




«Anche nella vita più fragile c’è una promessa di bene»

 

Chiesa di Casa questa settimana ha come tema di confronto la difesa, la cura e l’accoglienza della vita. L’occasione è quella della 44ª Giornata nazionale della Vita, che quest’anno cade il 6 febbraio. A riflettere sul tema della Giornata, «Custodire ogni vita», negli studi e in collegamento con la Casa della Comunicazione, sono don Enrico Trevisi, teologo, parroco di Cristo Re, a Cremona e coordinatore dell’area pastorale «Comunità educante famiglia di famiglie», e Rosetta Besostri, vicepresidente del CAV (Centro di aiuto alla vita) di Cremona.

A partire dalla situazione attuale, segnata dalla pandemia,  in cui ciascuno ha sentito il bisogno di qualcuno che si prendesse cura, don Trevisi ha fatto notare come l’impressione di bastare a se stessi sia stata scalfita: «In ogni epoca l’uomo sperimenta la propria fragilità; certamente, la pandemia ha messo in evidenza la precarietà che ci connota. I vescovi, nel loro messaggio per la Giornata per la vita, parlano di “illusione di onnipotenza e autosufficienza”. Il Papa stesso da piazza San Pietro durante il primo lockdown ci ricordava come siamo tutti sulla stessa barca. C’è come una rinnovata consapevolezza – ha proseguito il sacerdote –: oggi, anche se qualcuno pensava di archiviarli, alcuni studi mostrano come un adolescente su quattro soffra, dal punto di vista psicologico, il perdurare della pandemia».

Dunque, si portano all’evidenza delle fragilità prima sopite o nascoste. Fra queste c’è il dato del significativo calo dei numeri dei matrimoni e delle nascite. Non solo, questa pandemia ha inasprito la povertà. «Si fa fatica a fare famiglia se non c’è sguardo positivo sul futuro – continua don Trevisi – ma “speranza” è il nome che noi cristiani diamo al futuro. Se si guarda il futuro come a qualcosa che incombe, si fa fatica. È responsabilità della politica, ma anche di ciascuna famiglia e di ogni cristiano, mostrare che abbiamo le risorse per affrontare questa crisi».

Ridare un segno positivo al futuro è proprio la sfida raccolta dal Centro di aiuto alla vita. Le motivazioni  che spingono alla scelta dolorosa di abortire sono di natura molteplice, spiega Rossella Besostri: «Problemi economici, psicologici, relazionali… spesso sono mamma e papà che invitano le figlie ad abortire o le lasciano sole nelle scelte». Dunque, il CAV non solo tenta di far fronte ad un problema economico, ma si propone nell’ascolto e nell’accompagnamento di queste situazioni complesse. «Prima avevamo sportello CAV, ma con la pandemia abbiamo dovuto abbandonarlo. Comunque, presso la nostra sede, in via Milano numero 5, a Cremona, abbiamo tutta una serie di risorse e lì si può venire per offrire un sostegno anche materiale».

Come specifica don Trevisi, in questi anni abbiamo goduto della «testimonianza di molte persone che hanno dato la vita per la cura dell’altro». D’altro canto è di stretta attualità nel dibattito politico e culturale il tema del suicidio assistito: «Il referendum – commenta il sacerdote – ci fa capire il nostro dovere di accompagnare, migliorare alcune situazioni. È vero che la vita talvolta è drammatica. Ma la migliore risposta è quella di vicinanza: anche nella vita più fragile c’è una promessa di bene».

Don Trevisi ha poi concluso richiamando l’importanza di un tema, quello della custodia della vita e della vita più fragile, che non si esaurisce con l’appuntamento annuale della Giornata per la vita, ma che riguarda le scelte e gli incontri quotidiani: «Per 365 giorni all’anno siamo chiamati ad accorgerci dei nostri vicini, dei compagni di classe, delle fatiche dell’altro».