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Ricordo del vescovo Bolognini, Follo: «Maestro di verità nella carità perché pastore e padre»

Il vescovo Danio Bolognini e il Seminario, la liturgia e il Concilio Vaticano II nel ricordo di mons. Francesco Follo, sacerdote originario di Pandino recentemente rientrato in diocesi dopo un lungo servizio nella Diplomazia vaticana, prima alla Segreteria di Stato e poi per vent’anni a Parigi come osservatore permanente della Santa Sede presso l’Unesco.

 

Mons. Francesco Follo

È con animo davvero riconoscente che propongo questa mia testimonianza sul vescovo Danio Bolognini, che mi ha confermato nella vocazione sacerdotale, dicendo a me, che gli manifestavo delle esitazioni nell’imminenza dell’ordinazione sacerdotale, di non aver paura. Al fatto che gli dicevo che non avevo ancora 24 anni e che, forse, era meglio attendere, lui mi rispose che la vocazione viene da Dio tramite il Vescovo, che dà la vocazione canonica e che lui si faceva garante di ciò, e aggiunse di non aver cura di me, ma di lasciare che di me avesse cura il Signore.

Riandando con la memoria, molti ricordi di lui mi vengono alla mente, ne racconto solamente alcuni.

Il primo riguarda le sue venute in Seminario a incontrare i seminaristi e a celebrare il conferimento dei vari ordini minori. Memorabile era la lunghezza della sua predicazione, ma ci dava della sostanza su cui riflettere.

Presenziava agli esami in silenzio attento e noi rispondevamo al professore con deferenza e intimiditi dalla sua persona che aveva sempre un atteggiamento solenne. Ma al timore reverenziale subentrava la nostra devozione di figli, confortati dal padre che era maestro di verità nella carità, come recitava il suo motto episcopale “Veritas in caritate” (munus docendi).

Il secondo riguarda la liturgia. Quando celebrava e noi seminaristi incaricati del servizio liturgico assistevamo anche alla vestizione dei vari paramenti pontificali, lo si vedeva assorto in un atteggiamento di pietà virile, che trasmetteva con un “arte di celebrare” solenne ma non pomposa. In tal modo esercitava il suo ufficio di santificare (munus santificandi).

Il terzo riguarda il Concilio Vaticano II. La domenica che precedeva l’11 ottobre 1962 (giorno di inizio dell’Assemblea conciliare) mons. Bolognini invitò i fedeli della diocesi per una Messa solenne augurale. Terminato il Sacro Rito, noi seminaristi, i preti e il popolo che avevamo assistito alla celebrazione liturgica, uscimmo dal Duomo e spontaneamente attorniammo il Vescovo che stava salendo sulla macchina che lo avrebbe portato a Roma. Dopo averci rinnovato la sua benedizione, ci disse con semplicità: “Vado a imparare”. E quello che imparò lo trasmise alla Diocesi, dando avvio alla riforma che i vari documenti conciliari indicavano. Da maestro della verità nella carità insegnò che solamente quando la verità e l’amore sono in accordo la persona umana può essere felice e che solamente la verità rende liberi, come ricorda Cristo nel suo Vangelo. Insegnamento ancora oggi attuale, perché in un periodo in cui si cominciava a presentire la contestazione, mons. Bolognini seppe tenere unito ciò che la mentalità secolare spesso separava. Già allora amore e verità erano considerati come contrapposti, collegando la libertà unicamente all’amore, ma non alla verità. Lui tenne la barra diritta.

Mons. Danio aveva d’abitudine (o almeno così a me sembrava) un atteggiamento austero, ma era un “burbero benefico” e la porta del suo studio era ogni giorno aperta per quanti chiedevano di parlargli e li confortava. Dietro un’apparenza un po’ ruvida c’era un cuore di padre, che ci mostrava anche in vacanza stando con noi sia a Candalino sia a Lanzada (luoghi dove i seminaristi trascorrevano una parte delle vacanze estive): stava in mezzo a noi, allora giovani tesi al sacerdozio, con serietà e delicatezza, e i momenti con lui non erano mai banali, anche se svolti durante la ricreazione.

Personalmente ricordo che mi sostenne in modo significativo nei primi due anni di sacerdozio in cui ero vicario di Casirate d’Adda. È vero che la mia nomina in quella parrocchia la ricevetti con un semplice biglietto in cui mi comunicava questa sua decisione, chiedendomi anche di prendere la licenza in Teologia presso la Facoltà interregionale di Teologia, allora si chiamava così (il dottorato di ricerca in Filosofia lo conseguii nel 1984 su invito del vescovo Tagliaferri). Ma mi fu sempre “burberamente” e paternamente vicino, e gliene sono ancora riconoscente.

Era aperto alle varie, nuove istanze pastorali, anche se dava l’idea di essere eccessivamente prudente. Ma fu lui che, per esempio, invitò il card. Lercaro a Bozzolo per fargli parlare della Chiesa dei poveri.

Fu aperto alla missione, nella pastorale quotidiana, ma anche con gesti significativi come quello di invitare il card. Zoungrana, vescovo di Ouagadougou (Burkina Faso), e favorendo l’apertura di una scuola gestita dalla Suore della Beata Vergine a Tabaka, in Kenya, su suggerimento di mons. Ercole Brocchieri, se ricordo bene.

Quindi esercitò l’ufficio di governo (munus gubernandi) come cooperatore della verità conformemente al suo motto episcopale “Veritas in caritate”. Quale vero pastore e maestro mostrò che amore e verità hanno così bisogno l’uno dell’altra e si nutrono talmente l’uno dell’altra che, per usare le parole di Benedetto XVI, si può affermare che “‘L’amore, senza la verità, diviene cieco e si trasforma in caricatura di se stesso; la verità senza l’amore diviene crudele e perde la sua stessa natura” .

In sintesi, mons. Danio Bolognini fu, come diceva sant’Agostino di se stesso, “con noi cristiano, per noi vescovo”.

Mons. Francesco Follo