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“Preti imbavagliati?” Una riflessione del Vescovo sul ministero sacerdotale ai tempi del Covid

Condividiamo l’intervento scritto dal vescovo Napolioni per “Chiesa in Cammino”, periodico del Seminario Vescovile di Cremona: una riflessione legata alle fatiche dell’annuncio del Vangelo in tempo di pandemia

L’impressione è stata forte, il 28 maggio, quando finalmente abbiamo potuto celebrare la Messa crismale. Tra la gioia del ritrovarsi e il non poter compiere gesti naturali, non è stato facile sentirsi a proprio agio pur ritrovandoci nella famiglia del presbiterio. La mascherina costringeva a riconoscere con attenzione l’interlocutore, prima di salutarlo con calore.

Pena il commettere qualche gaffe.
Io, presiedendo a una certa distanza dagli altri, avevo il privilegio di non indossare la mascherina (se non al momento della distribuzione delle Comunioni), ma vedere i preti “imbavagliati” costituiva anche per me una forte provocazione, che ora provo ad esplicitare.

Chi ci ha “tappato la bocca”? Certo il virus, la paura di ammalarci, il senso di responsabilità verso gli altri, l’osservanza delle norme… spero e credo però che a “lasciarci a bocca aperta” sia soprattutto il Signore Dio, la cui Presenza fedele e creativa non è affatto diminuita, anzi semmai si è raffinata e moltiplicata nel tempo della pandemia. Il rallentarsi dei ritmi di vita, il maggior silenzio, la solitudine, doversi mettere in ricerca dei fedeli in forme inedite, non poter contare sulle collaudate sicurezze organizzative, la domanda di senso specie di fronte a tanto dolore… tutto il Signore Gesù abita con la sua incarnazione in un corpo umano che, ricevuto da Maria, si prolunga in quello della Chiesa, di tutti noi.

La comunicazione del Vangelo e della fede non è stata impedita, semmai essenzializzata, con il rischio di cadere in opposti estremismi, ma anche con la grazia di incontrare cuori feriti, aperti, affamati, mendicanti di luce. Se da 50 anni cerchiamo le vie per una evangelizzazione che inverta il trend negativo dell’affezione ecclesiale, questi giorni difficili sono stati di una schiettezza ineludibile: la via è la carne dell’uomo, quella sofferente, fragile e mortale.

Annuncio e liturgia che non ne siano impastati, con naturalezza e verità, sono condannati alla sterilità e all’insignificanza.

La mascherina ha lasciato aperti gli occhi e gli orecchi, i sensi dell’ascolto e dell’osservazione, le finestre dell’anima e il radar dello Spirito, che così hanno recuperato posti in classifica rispetto all’esuberanza delle parole, del rumore, del movimento. Come in una sosta sul monte, che potrebbe tentarci come avvenne per Pietro (“è bello restare qui!”), ma che invece dobbiamo imparare a ritmare come il respiro, quello sano, quello ritrovato e guarito, della nostra vita in Cristo e nella Chiesa.

Come le sistole e diastole del nostro cuore, che sa stare con Gesù, rimanere in ascolto, ritirarsi nel cenacolo, ricevere lo Spirito e il perdono e… poi, sa uscire incontro al mondo, stare con chiunque, servire i bisogni umani, testimoniare il Regno e la sua più alta giustizia.

Non mancheranno, almeno nei tempi che abbiamo davanti, difficoltà ulteriori che sfidano la nostra disponibilità a vivere l’obbedienza alla realtà, luogo teologico in cui il Signore ci chiama a seguirlo, traendo fuori dal tesoro della Chiesa cose nuove e cose antiche. Lo scrivo sul giornale del Seminario, anche per chiedere ai giovani in cammino vocazionale e formativo di esserne fiduciosamente e allegramente protagonisti.

mons. Antonio Napolioni, vescovo

da “Chiesa in Cammino” (luglio 2020)